[…]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 23/2/2006 la Corte d’Appello di Napoli respingeva il gravame interposto dai sigg. […] e […] confronti della pronunzia Trib. Ariano Irpino 20/11/2003 di rigetto della domanda, proposta contro il sig. […] e la Gestione liquidatoria […], di risarcimento dei danni lamentati in conseguenza della perdita totale ed irreversibile del visus all’occhio destro e della forte miopia all’occhio sinistro subita dal figlio […] a causa di fibroplasia retro lenticolare, asseritamente insorta per essere stato il medesimo, nato pretermine, lasciato per 45 giorni in incubatrice senza assistenza e senza il necessario controllo della concentrazione di ossigeno.
Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito il […] e la […] propongono ora ricorso per cassazione, affidato a 3 motivi, illustrati da memoria.
Resistono, con separati controricorsi, la Gestione liquidatoria […] ed il […], il quale ultimo ha presentato anche memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il 1 motivo i ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Si dolgono che la corte di merito abbia erroneamente addossato loro l’onere della prova del nesso di causalità, laddove questa incombeva invero a controparte.
Lamentano che la corte di merito ha avuto riguardo alla nozione di nesso di causalità propria del diritto penale, e non già a quella civilistica, non essendovi ai fini risarcitori la “certezza assoluta di un rapporto diretto tra omissione ed evento”.
Con il 2 motivo denunziano violazione e falsa applicazione dell’art.1176 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Lamentano non essersi tenuto in considerazione il difetto di diligenza dei sanitari nella vicenda, invero emergente alla stregua della stessa cartella clinica.
Con il 3 motivo denunziano insufficiente e contraddittoria motivazione su fatto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Lamentano contraddittorietà della motivazione, giacché se “il bambino era venuto alla luce in buone condizioni di salute e se lo stato morboso è di natura acquisita ed è a genesi multifattoriale ed il neonato venne sottoposto ad ossigenoterapia, accusò sofferenza perinatale, soffrì di stress operatorio e di crisi apnoiche recidivanti, gli praticarono trasfusioni e tenuto conto della prematurità e del basso peso alla nascita, il piccolo non poteva non essere considerato soggetto a rischio proprio per le condizioni alla nascita (prematurità e basso peso), l’ossigenoterapia e la presenza di tutte le vicende patologiche intervenute”.
I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono fondati e vanno accolti per quanto di ragione nei termini e limiti di seguito indicati.
Giusta principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, in ipotesi come nella specie di responsabilità da intervento effettuato da medico c.d. strutturato, in quanto dipendente da struttura sanitaria pubblica o privata, trova applicazione la disciplina dettata all’art. 1218 c.c., e segg., sia nei confronti di quest’ultima che del medico (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 577;
Cass., 13/4/2007, n. 8826). Il medico è in particolare tenuto ad una prestazione improntata alla diligenza professionale qualificata dalla specifica attività esercitata ex art. 1176 c.c., comma 2 e art. 2236 c.c., nel cui ambito va distinta una diligenza professionale generica e una diligenza variamente qualificata, giacché chi assume un’obbligazione nella qualità di specialista, o un’obbligazione che presuppone una tale qualità, è tenuto alla perizia che è normale della categoria (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826). Lo specifico settore di competenza in cui rientra l’attività esercitata richiede infatti la specifica conoscenza ed applicazione delle cognizioni tecniche che sono tipiche dell’attività necessaria per l’esecuzione dell’attività professionale.
Come in giurisprudenza di legittimità si è già avuto modo di porre in rilievo, i limiti di tale responsabilità sono invero quelli generali in tema di responsabilità contrattuale (v. Cass., Sez. Un., 30/10/2001, n. 13533), presupponendo questa l’esistenza della colpa lieve del debitore, e cioè il difetto dell’ordinaria diligenza. Al riguardo si è ulteriormente precisato che il criterio della normalità va valutato con riferimento alla diligenza media richiesta, ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, avuto riguardo alla specifica natura e alle peculiarità dell’attività esercitata (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 20/7/2005, n. 15255; Cass., 8/2/2005, n. 2538; Cass., 22/10/2003, n. 15789; Cass., 28/11/2001, n. 15124; Cass., 21/6/1983, n. 4245). La condotta del medico specialista (a fortiori se tra i migliori del settore) va esaminata non già con minore ma al contrario semmai con maggior rigore ai fini della responsabilità professionale, dovendo aversi riguardo alla peculiare specializzazione e alla necessità di adeguare la condotta alla natura e al livello di pericolosità della prestazione (cfr., con riferimento al medico sportivo, Cass., 8/1/2003, n. 85), implicante scrupolosa attenzione e adeguata preparazione professionale (cfr. Cass., 13/1/2005, n. 583). In quanto la diligenza (che, come posto in rilievo anche in dottrina, si specifica nei profili della cura, della cautela, della perizia e della legalità, la perizia in particolare sostanziandosi nell’impiego delle abilità e delle appropriate nozioni tecniche peculiari dell’attività esercitata, con l’uso degli strumenti normalmente adeguati; ossia con l’uso degli strumenti comunemente impiegati, in relazione all’assunta obbligazione, nel tipo di attività professionale o imprenditoriale in cui rientra la prestazione dovuta: v. Cass., 31/5/2006, n. 12995) deve valutarsi avuto riguardo alla natura dell’attività esercitata (art. 1176 c.c., comma 2), al professionista, e a fortiori allo specialista, è
richiesta una diligenza particolarmente qualificata dalla perizia e dall’impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di attività da espletarsi.
A tale stregua l’impegno dal medesimo dovuto, se si profila superiore a quello del comune debitore, va considerato viceversa corrispondente alla diligenza normale in relazione alla specifica attività professionale esercitata, giacché il professionista deve impiegare la perizia ed i mezzi tecnici adeguati allo standard professionale della sua categoria, tale standard valendo a determinare, in conformità alla regola generale, il contenuto della perizia dovuta e la corrispondente misura dello sforzo diligente adeguato per conseguirlo, nonché del relativo grado di responsabilità. Come si è osservato anche in dottrina, il debitore è di regola tenuto ad una normale perizia, commisurata al modello del buon professionista (secondo cioè una misura obiettiva che prescinde dalle concrete capacità del soggetto, sicché deve escludersi che il debitore privo delle necessarie cognizioni tecniche sia esentato dall’adempiere l’obbligazione con la perizia adeguata alla natura dell’attività esercitata), mentre una diversa misura di perizia è dovuta in relazione alla qualifica professionale del debitore (per il riferimento alla necessità di adeguare la valutazione alla stregua del dovere di diligenza particolarmente qualificato, inerente lo svolgimento dell’attività del professionista, v. Cass., 23/4/2004, n. 19133; Cass., 4/3/2004, n. 4400) in relazione ai diversi gradi di specializzazione propri dello specifico settore professionale. Ai diversi gradi di specializzazione corrispondono infatti diversi gradi di perizia.
Può allora distinguersi tra una diligenza professionale generica e una diligenza professionale variamente qualificata. Chi assume un’obbligazione nella qualità di specialista, o una obbligazione che presuppone una tale qualità, è tenuto alla perizia che è normale della categoria (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826). Lo sforzo tecnico implica anche l’uso degli strumenti materiali normalmente adeguati, ossia l’uso degli strumenti comunemente impiegati nel tipo di attività professionale in cui rientra la prestazione dovuta.
La misura della diligenza richiesta nelle obbligazioni professionali va quindi concretamente accertata sotto il profilo della responsabilità.
Con specifico riferimento all’attività ed alla responsabilità del medico c.d. “strutturato” si è in giurisprudenza di legittimità affermato che il medico e l’ente sanitario sono contrattualmente impegnati al risultato dovuto (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 577;
Cass., 19/5/2004, n. 9471), quello cioè conseguibile secondo criteri di normalità, da apprezzarsi in relazione alle condizioni del paziente, alla abilità tecnica del primo e alla capacità tecnico- organizzativa del secondo (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 22/12/1999, n. 589 Cass., n. 2750/98; Cass., 8/1/1999, n. 103). Il normale esito della prestazione dipende allora da una pluralità di fattori, quali il tipo di patologia, le condizioni generali del paziente, l’attuale stato della tecnica e delle conoscenze scientifiche (stato dell’arte), l’organizzazione dei mezzi adeguati per il raggiungimento degli obiettivi in condizioni di normalità, ecc..
Normalità che risponde dunque ad un giudizio relazionale di valore, in ragione delle circostanze del caso.
Emerge evidente, a tale stregua, che il risultato normalmente conseguibile per i migliori specialisti del settore operanti nell’ambito di una determinata struttura sanitaria ad alta specializzazione tecnico-professionale non può considerarsi tale per chi sia viceversa dotato di minore grado di abilità tecnico- scientifica, ovvero presti la propria attività presso una struttura con inferiore organizzazione o dotazione di mezzi (cfr. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 5/7/2004, n. 12273), ovvero in una struttura sanitaria polivalente o “generica”, o, ancora, in un mero presidio di “primo intervento”.
Ne consegue che anche per il migliore specialista del settore il giudizio di normalità va allora calibrato avuto riguardo alla struttura in cui è chiamato a prestare la propria opera professionale. Laddove lo spostamento verso l’alto della soglia di normalità del comportamento diligente dovuto determina la corrispondente diversa considerazione del grado di tenuità della colpa (cfr. Cass., 7/8/1982, n. 4437), con corrispondente preclusione della prestazione specialistica al medico che specializzato non è (cfr. Cass., 5/7/2004, n. 12273; Cass., 26/3/1990, n. 2428). La difficoltà dell’intervento e la diligenza del professionista vanno valutate in concreto, rapportandole al livello di specializzazione del professionista e alle strutture tecniche a sua disposizione, sicché il medesimo deve, da un canto, valutare con prudenza e scrupolo i limiti della propria adeguatezza professionale, ricorrendo anche all’ausilio di un consulto (se la situazione non è così urgente da sconsigliarlo); e, da altro canto, deve adottare tutte le misure volte ad ovviare alle carenze strutturali ed organizzative incidenti sugli accertamenti diagnostici e sui risultati dell’intervento, e laddove ciò non sia possibile, deve informare il paziente, financo consigliandogli, se manca l’urgenza di intervenire, il ricovero in una struttura più idonea (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 5/7/2004, n. 12273. V. anche Cass., 21/7/2003, n. 11316; Cass., 16/5/2000, n. 6318). La riconduzione dell’obbligazione professionale del medico c.d. strutturato nell’ambito del rapporto contrattuale (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 577; Cass., 13/4/2007, n. 8826), e della eventuale responsabilità che ne consegua nell’ambito di quella da inadempimento ex art. 1218 c.c., e segg., ha invero i suoi corollari anche sotto il profilo probatorio.
Al riguardo questa Corte ha già più volte enunciato il principio in base al quale quando l’intervento da cui è derivato il danno non è di difficile esecuzione la dimostrazione da parte del paziente dell’aggravamento della sua situazione morbosa o l’insorgenza di nuove patologie è idonea a fondare una presunzione semplice in ordine all’inadeguata o negligente prestazione, spettando all’obbligato fornire la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente, e che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile (v. Cass.21/12/1978, n. 6141; Cass. 16/11/1988, n. 6220; 11/3/2002, n. 3492).
Più specificamente, l’onere della prova è stato ripartito tra le parti nel senso che spetta al medico provare che il caso è di particolare difficoltà, e al paziente quali siano state le modalità di esecuzione inidonee; ovvero a quest’ultimo spetta provare che l’intervento è di facile esecuzione e al medico che l’insuccesso non sia dipeso da suo difetto di diligenza (v. Cass., 19/4/2006, n. 9085;
Cass., 11/11/2005, n. 22894; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488; Cass., 16/2/2001, n. 2335; Cass., 19/5/1999, n. 4852; Cass., 4/2/1998, n. 1127; Cass., 30/5/1996, n. 5005; Cass., 16/11/1988, n. 6220). Tale orientamento interpretativo è stato da questa Corte “riletto” anche alla luce del principio enunciato in termini generali da Cass., Sez. Un. 30/10/2001, n. 13533, in tema di onere della prova dell’inadempimento.
Nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, le Sezioni Unite hanno nell’occasione affermato il principio – condiviso dal Collegio – secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre è al debitore convenuto che incombe di dare la prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento.
Analogo principio è stato posto con riguardo all’inesatto adempimento, rilevandosi che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando sul debitore l’onere di dimostrare di avere esattamente adempiuto.
Applicando tale principio all’onere della prova nelle cause di responsabilità professionale del medico si è affermato che il paziente che agisce in giudizio deve, anche quando deduce l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria, provare il contratto e allegare l’inadempimento del sanitario, restando a carico del debitore (medico-struttura sanitaria) l’onere di dimostrare che la prestazione è stata eseguita in modo diligente, e che il mancato o inesatto adempimento è dovuto a causa a sè non imputabile, in quanto determinato da impedimento non prevedibile ne’ prevenibile con la diligenza nel caso dovuta (per il riferimento all’evento imprevisto ed imprevedibile cfr., Cass., 21/7/2011, n. 15993; Cass., 7/6/2011, n. 12274. E già Cass., 24/5/2006, n. 12362; Cass., 11/11/2005, n. 22894). Pertanto, in base alla regola di cui all’art. 1218 c.c., il paziente- creditore ha il mero onere di allegare il contratto ed il relativo inadempimento o inesatto adempimento, non essendo tenuto a provare la colpa del medico e/o della struttura sanitaria e la relativa gravità (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 577; Cass., 13/4/2007, n. 8826;
Cass., 24/5/2006, n. 12362; Cass., 21/6/2004, n. 11488. Da ultimo v. Cass., 11/11/2011, n. 23564). Questa Corte è peraltro pervenuta ad affermare che la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà non può valere come criterio di distribuzione dell’onere della prova, bensì solamente ai fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa riferibile al sanitario. All’art. 2236 c.c., non va conseguentemente assegnata rilevanza alcuna ai fini della ripartizione dell’onere probatorio, giacché incombe in ogni caso al medico dare la prova della particolare difficoltà della prestazione, laddove la norma in questione implica solamente una valutazione della colpa del professionista, in relazione alle circostanze del caso concreto (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488). Appare in effetti incoerente ed incongruo richiedere al professionista la prova idonea a vincere la presunzione di colpa a suo carico quando trattasi di intervento di facile esecuzione o routinario, e addossare viceversa al paziente l’onere di provare l’inadempimento quando l’intervento è di particolare o speciale difficoltà (in tal senso v. invece Cass., 4/2/1998, n. 1127; Cass., 11/4/1995, n. 4152). Proprio nel caso in cui l’intervento implica cioè la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, richiede notevole abilità, e la soluzione di problemi tecnici nuovi o di speciale complessità, con largo margine di rischio in presenza di ipotesi non ancora adeguatamente studiate o sperimentate, ovvero oggetto di sistemi diagnostici, terapeutici e di tecnica chirurgica diversi ed incompatibili tra loro (v. Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 10/5/2000, n. 5945; Cass., 19/5/1999, n. 4852; Cass., 16/11/1988, n. 6220; Cass., 18/6/1975, n. 2439). Non anche in ragione dell’incertezza circa l’esito della tecnica applicata o dell’alta percentuale di risultati insoddisfacenti, atteso che la difficoltà di prova non coincide con l’aleatorietà, ben potendo una prestazione tecnicamente di facile esecuzione presentare una non sicura efficacia terapeutica ovvero un difficile intervento condurre, in caso di esito positivo, a certa guarigione: v. Cass., 21/6/2004, n. 11488). Tale soluzione si palesa infatti ingiustificatamente gravatoria per il paziente, in contrasto invero con il principio di generale favor per il creditore-danneggiato cui l’ordinamento è informato (cfr. Cass., 20/2/2006, n. 3651). In tali circostanze è infatti indubitabilmente il medico specialista a conoscere le regole dell’arte e la situazione specifica – anche in considerazione delle condizioni del paziente – del caso concreto, avendo pertanto la possibilità di assolvere all’onere di provare l’osservanza delle prime e di motivare in ordine alle scelte operate in ipotesi in cui maggiore è la discrezionalità rispetto a procedure standardizzate.
È allora da superarsi, sotto il profilo della ripartizione degli oneri probatori, ogni distinzione tra interventi “facili” e “difficili”, in quanto l’allocazione del rischio non può essere rimessa alla maggiore o minore difficoltà della prestazione, l’art.2236 c.c., dovendo essere inteso come contemplante una regola di mera valutazione della condotta diligente del debitore (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488). Va quindi conseguentemente affermato che in ogni caso di “insuccesso” incombe al medico dare la prova della particolare difficoltà della prestazione (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 577; Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488). Le obbligazioni professionali sono dunque caratterizzate dalla prestazione di attività particolarmente qualificata da parte di soggetto dotato di specifica abilità tecnica, in cui il paziente fa affidamento nel decidere di sottoporsi all’intervento chirurgico, al fine del raggiungimento del risultato perseguito o sperato. Affidamento tanto più accentuato, in vista dell’esito positivo nel caso concreto conseguibile, quanto maggiore è la specializzazione del professionista, e la preparazione organizzativa e tecnica della struttura sanitaria presso la quale l’attività medica viene dal primo espletata.
Sotto altro profilo, va posto in rilievo che una limitazione della misura dello sforzo diligente dovuto nell’adempimento dell’obbligazione, e della conseguente responsabilità per il caso di relativa mancanza o inesattezza, non può farsi invero discendere dalla qualificazione dell’obbligazione in termini di “obbligazione di mezzi” (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 576; Cass., 13/4/2007, n. 8826). Nè, al fine di salvare la distinzione dogmatica in argomento, può valere il richiamo a principi propri di altri sistemi, come quello di common lavi della c.d. evidenza circostanziale o res ipsa loquitur (per il quale v. invece Cass., 16/2/2001, n. 2335; Cass., 19/5/1999, n. 4852, Cass.; 22/1/1999, n. 589). Come questa Corte ha avuto modo di precisare, in tema di responsabilità del medico per i danni causati al paziente l’inadempimento del professionista alla propria obbligazione non può essere desunto, ipso facto, dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale (v. Cass., 9/11/2006, n. 23918). L’inadempimento consegue infatti alla prestazione negligente, ovvero non improntata alla dovuta diligenza da parte del professionista (e/o della struttura sanitaria) ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, adeguata alla natura dell’attività esercitata e alle circostanze concrete del caso.
Secondo la regola sopra ribadita in tema di ripartizione dell’onere probatorio, provati dal paziente la sussistenza ed il contenuto del contratto, se la prestazione dell’attività non consegue il risultato normalmente ottenibile in relazione alle circostanze concrete del caso incombe invero al medico (a fortiori ove trattisi di intervento semplice o routinario) dare la prova del verificarsi di un evento imprevedibile e non superabile con l’adeguata diligenza che lo stesso ha impedito di ottenere.
In caso di mancata o inesatta realizzazione di tale intervento il medico e la struttura sono conseguentemente tenuti a dare la prova che il risultato “anomalo” o anormale rispetto al convenuto esito dell’intervento o della cura, e quindi dello scostamento da una legge di regolarità causale fondata sull’esperienza, dipende da fatto a sè non imputabile, in quanto non ascrivibile alla condotta mantenuta in conformità alla diligenza dovuta, in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto.
L’imposizione, secondo la sopra richiamata regola generale, mediante la previsione della presunzione dell’onere della prova in capo al debitore, il cui fondamento si è indicato nell’operare del principio di c.d. vicinanza alla prova o di riferibilità (v. v. Cass., 9/11/2006, n. 23918; Cass., 21/6/2004, n. 11488; Cass., Sez. Un., 23/5/2001, n. 7027; Cass., Sez. Un., 30/10/2001, n. 13533; Cass., 13/9/2000, n. 12103), va ancor più propriamente ravvisato, come sottolineato anche in dottrina, nel criterio della maggiore possibilità per il debitore onerato di fornire la prova, in quanto rientrante nella sua sfera di dominio, in misura tanto più marcata quanto più l’esecuzione della prestazione consista nell’applicazione di regole tecniche sconosciute al creditore, essendo estranee alla comune esperienza, e viceversa proprie del bagaglio del debitore come nel caso specializzato nell’esecuzione di una professione protetta. Deve dunque conclusivamente affermarsi che il danneggiato è tenuto a provare il contratto e ad allegare la difformità della prestazione ricevuta rispetto al modello normalmente realizzato da una condotta improntata alla dovuta diligenza.
Mentre al debitore, presunta la colpa, incombe l’onere di provare che l’inesattezza della prestazione dipende da causa a lui non imputabile, e cioè la prova del fatto impeditivo (v. Cass., 2875/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488). E laddove tale prova non riesca a dare, secondo la regola generale ex artt. 1218 e 2697 c.c., il medesimo rimane soccombente.
Orbene, con specifico riferimento all’aspetto funzionale dell’intervento in oggetto la corte di merito non si è nell’impugnata sentenza attenuta invero ai suesposti principi. In particolare laddove ha ritenuto (sulla base invero del giudizio emergente dalle tre esperite C.T.U.) la condotta dal medico nel caso mantenuta come non integrante ipotesi di responsabilità, pur in assenza della prova da parte del medesimo, in ossequio al combinato disposto di cui all’art. 1218 c.c., art. 1176 c.c., comma 2 e art.2236 c.c., dell’essere tale esito dovuto a causa a sè non imputabile.
Al riguardo, in violazione della regola di ripartizione dell’onere della prova nel caso applicantesi, la corte di merito ha infatti rigettato la domanda per non avere il danneggiato dato la prova che “lo stato morboso acquisito dal neonato sia stato causato dall’ossigenazione praticata nell’incubatrice, senza considerare che la patologia riscontrata nella specie è a genesi multifattoriale, nel senso che, se può essere provocata dall’ossigenoterapia, può essere anche causata da tutta una serie di fattori diversi quali la prematurità, il basso peso alla nascita, trasfusioni praticate, sofferenza perinatale, stress respiratorio, apnee recidivanti”. E ciò pur mettendo (contraddittoriamente) in rilievo fattori che in realtà tali “fattori furono presenti, sia pure in parte, nella vicenda in esame poiché il piccolo […] accusò sofferenza perinatale, soffrì di stress respiratori e di crisi apnoiche recidivanti mentre per prematurità (32 settimane di gestazione invece di 30) e peso presentato alla nascita (gr. 1.620 in luogo di gr. 1.250) aveva invece superato i limiti del rischio R.O.P. indicati nel programma congiunto di neonatologia dell’università di Harvard 1975/1990”.
Ancora, la corte di merito ha disatteso i suindicati principi laddove ha escluso che “i sanitari nella vicenda in esame abbiano colpevolmente omesso di praticare accertamenti diagnostici che avrebbero consentito una diagnosi tempestiva della retinopatia ed una conseguente eliminazione o riduzione degli effetti della malattia, come invece sostengono gli appellanti nella parte dell’impugnazione in cui si dolgono che mai al piccolo paziente sarebbe stato esplorato il fondo oculare attraverso l’esame oftalmoscopico e che neanche al momento delle dimissioni gli sarebbe stata effettuata o prescritta una visita oculistica”, in quanto “sulla base del protocollo vigente all’epoca dei fatti” i sanitari non erano “tenuti a sottoporre il piccolo paziente ad alcuna visita oculistica” ovvero “a prescriverla all’atto delle dimissioni”.
Ancora, laddove ha escluso la configurabilità in capo ai medesimi “alcuna colpa” per “non aver richiesto una consulenza oculistica allorquando il neonato presentò episodio di congiuntivite nel corso della tredicesima giornata di vita, trattandosi di patologia ben nota ad uno specialista pediatra, dalla quale, come risulta dalla cartella clinica, il paziente guarì dopo appena tre giorni (perizia prof. Romano)”, asserendo che come sottolineato dal giudice di prime cure la corte di merito osserva che “tale accertamento involge problematiche collegate alla c.d. causalità omissiva, su cui si sono pronunciate recentemente le Sezioni Unite della Cassazione”, e che, mentre prima la giurisprudenza “era orientata nel senso che doveva ritenersi sussistente il nesso di causalità tra l’evento dannoso e la condotta omissiva del sanitario qualora adottandosi il comportamento dovuto ed omesso, vi sarebbero state serie ed apprezzabili probabilità di successo”, era venuto ormai ad affermarsi il contrario orientamento secondo cui il nesso causale può “ritenersi sussistente soltanto qualora, adottandosi il comportamento omesso, l’evento sarebbe stato impedito con elevato grado di probabilità vicino alla certezza e cioè in una percentuale quasi prossima a cento”.
Oltre a violare il suindicato principio di c.d. vicinanza alla prova o di riferibilità, e ancor più propriamente il criterio della maggiore possibilità per il debitore onerato di fornire la prova, inammissibilmente richiedendo al danneggiato di fornire una prova rientrante per converso nella sfera di dominio del medico (l’esecuzione della prestazione consistendo nell’applicazione di regole tecniche sconosciute al danneggiato in quanto estranee alla comune esperienza, e viceversa proprie del bagaglio del debitore come nel caso specializzato nell’esecuzione di una professione protetta), a tale stregua la corte di merito ha fatto invero erroneamente applicazione nel caso della regola civilistica in tema di nesso di causalità.
Ha infatti omesso di considerare che, giusta orientamento già delineatosi (anche) nella giurisprudenza di legittimità (v. Cass., 16/10/2007, n. 21619), poi confermato dalle Sezioni Unite civili di questa Corte, stante la diversità del regime probatorio applicabile in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi, nell’accertamento del nesso causale in materia civile vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 576 ). Le Sezioni Unte hanno al riguardo in particolare sottolineato che ai sensi degli artt. 40 e 41 c.p., un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano – d una valutazione ex ante – del tutto inverosimili (v. Cass., 8/7/2010, n. 16123; Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 576), avendo al riguardo questa Corte già avuto modo di precisare che “in una diversa dimensione di analisi sovrastrutturale del (medesimo) fatto, la causalità civile ordinaria, attestata sul versante della probabilità relativa (o variabile), caratterizzata, specie in ipotesi di reato commissivo, dall’accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale, secondo modalità semantiche che, specie in sede di perizia medico-legale, possono assumere molteplici forme espressive (serie ed apprezzabili possibilità, ragionevole probabilità ecc.), senza che questo debba, peraltro, vincolare il giudice ad una formula peritale, senza che egli perda la sua funzione di operare una selezione di scelte giuridicamente opportune in un dato momento storico: senza trasformare il processo civile (e la verifica processuale in ordine all’esistenza del nesso di causa) in una questione di verifica (solo) scientifica demandabile tout court al consulente tecnico: la causalità civile, in definitiva, obbedisce alla logica del più probabile che non” (così Cass., 16/10/2007, n. 21619). Si è da questa Corte ulteriormente posto in rilievo che l’adozione del criterio della probabilità relativa (anche detto criterio del “più probabile che non”) si delinea invero in una analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, nella loro irripetibile unicità, sicché la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica deve essere attentamente valutata e valorizzata in ragione della specificità del caso concreto, senza limitarsi ad un meccanico e semplicistico ricorso alla regola del 51%, ma dovendo farsi luogo ad una compiuta valutazione dell’evidenza del probabile (in tali termini v., da ultimo, Cass., 21/7/2011, n. 15991, ove così esemplificato, in tema di danni da trasfusione di sangue infetto: se “le possibili concause appaiono plurime e quantificabili in misura di dieci, ciascuna con un’incidenza probabilistica pari al 3%, mentre la trasfusione attinge al grado di probabilità pari al 40%, non per questo la domanda risarcitoria sarà per ciò solo rigettata – o geneticamente trasmutata in risarcimento da chance perduta, dovendo viceversa il giudice, secondo il suo prudente apprezzamento che trova la sua fonte nella disposizione di legge di cui all’art. 116 c.p.c., valutare la complessiva evidenza probatoria del caso concreto e addivenire, all’esito di tale giudizio comparativo, alla più corretta delle soluzioni possibili”).
Senza sottacersi che laddove la causa del danno rimanga al fine ignota, le conseguenze non possono certamente ridondare a scapito del danneggiato (nel caso, del paziente), ma gravano sul presunto responsabile che la prova liberatoria non riesca a fornire (nel caso, il medesimo e/o la struttura sanitaria), il significato di tale presunzione cogliendosi – come sopra esposto – nel principio di generale favor per il danneggiato, nonché della rilevanza che assume al riguardo il principio della colpa obiettiva, quale violazione della misura dello sforzo in relazione alle circostanze del caso concreto adeguato ad evitare che la prestazione dovuta arrechi danno (anche) a terzi, senza peraltro indulgere a soluzioni radicali, essendo attribuita la possibilità di liberarsi dalla responsabilità (cfr., in diverso ambito, Cass., 20/2/2006, n. 3651). Nè può d’altro canto trascurarsi che, in caso di concretizzazione del rischio che la regola violata tende a prevenire, in base al principio del nesso di causalità specifica non può prescindersi dalla considerazione del comportamento dovuto e della condotta nel singolo caso in concreto mantenuta, e il nesso di causalità che i danni conseguenti a quest’ultima astringe rimane invero presuntivamente provato (cfr. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 584;
Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 582. E, da ultimo, Cass., 27/4/2011, n. 9404; Cass., 29/8/2011, n. 17685). Alla stregua di quanto sopra rilevato ed esposto dell’impugnata sentenza s’impone pertanto la cassazione in relazione, con rinvio alla Corte d’Appello di Napoli, che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo dei suindicati disattesi principi applicazione.
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