Corte di Cassazione. Sez. 1, Sentenza n. 9066 del 2017, dep. il 07/04/2017

 

[…]

FATTI DI CAUSA

1. — Con atto di citazione notificato il 20 marzo 2005, […] deduceva di avere conferito incarico, in data 23 febbraio 2000, a […] — oggi […] — di acquistare obbligazioni della Provincia di Buenos Aires 10,75% per un valore complessivo di € 259.058,93 e obbligazioni Argentina 10% dell’importo nominale di € 193.000,00, a fronte delle quali aveva sostenuto l’esborso della somma di € 167.552,00; rilevava altresì che nel dicembre 2001 si era verificato il noto default con l’azzeramento dei titoli; domandava pertanto che il Tribunale di Como dichiarasse alternativamente la nullità degli ordini di acquisto per difetto di forma e per violazione di norme imperative, l’annullamento dei medesimi ordini di acquisto per violazione dell’art. 1395 c.c. e la risoluzione del rapporto di mandato in essere tra le parti, nonché degli ordini di acquisto sopra citati, per inadempimento dell’istituto di credito; chiedeva altresì la condanna di controparte alla restituzione delle somme versate e al risarcimento dei danni sofferti.
La successiva sentenza del Tribunale di Como, con cui erano rigettate le domande attrici, era impugnata da […].
2. — Nella resistenza di […], la Corte di appello di Milano, con sentenza depositata il 21 febbraio 2012, respingeva il gravame. Riteneva il giudice distrettuale essere infondato l’assunto dell’appellante secondo cui la banca non aveva adempiuto agli obblighi di informazione che su di essa gravavano: rilevava, in proposito, che […] aveva ricevuto e sottoscritto, nella fase iniziale dell’operazione, il documento sui rischi generali, oltre che l’informativa relativa all’acquisto di prodotti finanziari negoziati fuori dai mercati; osservava, inoltre, che il profilo di rischio dell’investitore poteva considerarsi adeguato alle operazioni oggetto di causa; aggiungeva che in occasione dell’acquisto dei bond argentini la banca aveva fornito al cliente specifica informazione sui rischi connessi a tale tipo di investimento. La Corte di Milano riteneva poi insussistente il conflitto di interessi dedotto dall’appellante, osservando come lo stesso era stato prospettato quale mera conseguenza dalla negoziazione in contropartita diretta.
3. — Contro tale sentenza […] ricorre per cassazione facendo valere quattro motivi di impugnazione illustrati da memoria. Resiste con controricorso […].

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. — Il primo motivo lamenta insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla questione relativa all’adeguatezza delle operazioni di acquisto. Ricorda il ricorrente che la Corte di merito aveva impropriamente, desunto tale adeguatezza dall’acquisto, da parte dello stesso istante, di altri titoli (obbligazioni della Turchia e del Brasile), caratterizzati da rendimento elevato e da rischiosità addirittura superiore a quella che presentavano le obbligazioni argentine: nondimeno le considerazioni del giudice di secondo grado erano erronee e si basavano sul travisamento di una risultanza documentale.
Inoltre la Corte territoriale aveva ritenuto adeguate entrambe le operazioni di acquisto poste in atto, nonostante in occasione del primo investimento la banca non avesse fornito alcuna informativa specifica: aveva quindi omesso di spiegare per quale ragione la prima operazione fosse valida, nonostante non fosse stato adempiuto l’obbligo informativo.
1.1. — Con il secondo motivo è denunciato un error in judicando in relazione all’adeguatezza delle operazioni di acquisto, con riferimento all’art. 21 t.u.f. (d.lgs. n. 58/1998) e agli artt. 26 e 29 reg. Consob n. 11522/1998. Dopo aver ricordato che il cit. art. 29 disponeva che gli intermediari dovessero astenersi dall’effettuare operazioni non adeguate per tipologia, oggetto, frequenza e dimensione, il ricorrente osserva che le due operazioni di cui trattasi non risultavano conformi, alla stregua degli indicati parametri, agli altri investimenti da lui effettuati. D’altro canto — aggiunge l’istante —, il divieto, fatto all’intermediario, di dare esecuzione all’operazione, in mancanza di ordine scritto, non poteva ritenersi escluso in ragione del fatto che il cliente avesse in precedenza acquistato altri titoli a rischio.
1.2. — Il terzo mezzo prospetta un ulteriore vizio di violazione di legge in relazione all’obbligo di informazione a carico del intermediario, con riferimento all’art. 21 t.u.f. e agli artt. 26, 28 e 29 reg. Consob n. 11,522/1998. Rileva il ricorrente che l’adozione delle incombenze informative debba rispondere a criteri di effettività e concretezza e, che l’adempimento del correlativo obbligo gravante sull’intermediario vada accertato e valutato sulla base delle specifiche informazioni, relative al singolo contratto, che vengano fornite al cliente. Nella fattispecie, invece, la banca aveva omesso di evidenziare come il bond argentino fosse incorso, durante l’anno, e segnatamente nel periodo in cui il proprio cliente stava acquistando il secondo lotto di obbligazioni, in pesanti declassamenti da parte delle società di rating; la controricorrente avrebbe quindi dovuto segnalare per iscritto e in modo chiaro che sussisteva, anche nell’immediato, un’elevata probabilità di default: default che aveva avuto luogo a distanza di circa due mesi dall’acquisto dei titoli. In concreto, la Corte di merito non aveva tenuto conto che, in relazione alla prima operazione, l’istituto bancario aveva omesso «addirittura di consegnare l’informativa» e che solo in occasione del secondo acquisto gli era stato trasmesso un documento avente ad oggetto i «rischi connessi a investimenti in prodotti finanziari ‘strutturati’ di ‘Paesi emergenti’ o ‘ad alto rendimento’». In conseguenza, la banca aveva mancato di fornire una informazione attagliata al singolo prodotto finanziario e aveva fatto uso di un documento il cui contenuto era generico, standardizzato e utilizzabile in diverse situazioni. Tale
documento, infatti, non forniva alcuna indicazione quanto alle possibili vicende future dei titoli acquistati e non ne indicava neppure il rating; non specificava quali titoli fossero negoziati fuori dai mercati e non spiegava le conseguenze che discendevano da tale evenienza.
2. — Il terzo motivo è fondato, con conseguente assorbimento dei primi due.
I doveri di informazione imposti dall’art. 21 t.u.f. e dal reg. Consob n. 11522/1998 all’intermediario finanziario nella prestazione dei servizi di investimento hanno notoriamente ad oggetto doveri di informazione «passiva» (c.d. know your costumer rule), consistenti nella richiesta delle informazioni indicate all’art. 28, lett. a) reg. cit., sia in doveri di informazione «attiva» (c.d. know the security rule), che culminano nell’obbligo di segnalare al cliente l’inadeguatezza dell’operazione e di astenersi dall’effettuarla, salvo il cliente manifesti per iscritto o su supporto durevole la chiara volontà di procedere all’operazione stessa.
Tale obbligo di informazione «attiva» ha una connotazione di specificità. Come questa Corte ha ricordato di recente, esso deve sostanziarsi nella rappresentazione, all’investitore, della natura, della quantità e della qualità dei prodotti finanziari, oltre che nella formulazione delle indicazioni atte a dar conto della loro rischiosità (Cass. 21 aprile 2016, n. 8089). In particolare — è stato ancora sottolineato —, l’obbligo informativo ha ad oggetto la natura e le caratteristiche peculiari del titolo, con particolare riferimento alla rischiosità del prodotto finanziario offerto, la precisa individuazione del soggetto emittente, non essendo sufficiente la mera indicazione che si tratta di un «Paese emergente», il rating nel periodo di esecuzione dell’operazione ed il connesso rapporto tra il rendimento e il rischio, eventuali carenze di informazioni circa le caratteristiche concrete del titolo (situazioni cd. di “grey market”) e l’avvertimento circa il pericolo di un imminente default dell’emittente (Cass. 26 gennaio 2016, n. 1376).
E’ evidente, allora, che l’obbligo di cui trattasi non è assolto attraverso informazioni di carattere generale afferenti l’attività di investimento, quand’anche essa sia riferita a particolari tipologie di prodotti finanziari. In particolare, l’obbligo informativo non può esaurirsi nella consegna agli investitori del documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari, previsto dall’art. 28, 10co., lett. b) reg. Consob n. 1152/1998, e richiamato dalla sentenza impugnata per dar conto dell’adempimento dell’obbligo stesso da parte dell’intermediario: lo si desume dal 3° co. dello stesso art. 28, con il quale si prevede che gli intermediari autorizzati non possano effettuare operazioni o prestare il servizio di gestione se non dopo aver fornito all’investitore informazioni adeguate sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni della specifica operazione o del servizio, la cui conoscenza sia necessaria per effettuare consapevoli scelte di investimento o disinvestimento. Quest’ultima previsione fa comprendere, infatti, come l’intermediario sia tenuto a prestare un’attività informativa ulteriore rispetto a quella consistente nella consegna del predetto documento sui rischi generali.
L’obbligo della banca non può ritenersi assolto nemmeno attraverso la comunicazione relativa ai rischi connessi agli investimenti in prodotti finanziari «strutturati» in «Paesi emergenti»: e ciò in considerazione del carattere generico e standardizzato di una informazione siffatta. Infatti, l’informativa – che la stessa Corte di appello rileva essere stata fornita con esclusivo riferimento alla seconda operazione, posta in atto il 25 settembre 2001 (sicché non potrebbe comunque rilevare per il primo investimento, risalente al 23 febbraio 2000) – non fornisce alcuna specifica indicazione quanto ai concreti rischi dell’investimento posto in essere, essendo innegabile che non tutti i titoli di «Paesi emergenti» presentino il medesimo rating (si veda, in motivazione, Cass. 26 gennaio 2016, n. 1376 cit.) e risultando parimenti evidente che, a seconda dei casi, ciascuno di tali Paesi possa essere interessato, o non interessato, nel tempo, a diverse vicende, più o meno prevedibili: come, appunto, il noto default che colpì le obbligazioni argentine pochi mesi dopo il loro acquisto da parte di […]. In sé considerata, la comunicazione in esame non consente quindi di ritenere che il cliente fosse adeguatamente informato, secondo quanto prescrive, in termini generali, l’art. 21, 1° co. lett. b) t.u.f., e secondo quanto precisa, nella declinazione applicativa di tale norma di legge, il cit. art. 28 reg. Consob.
Né la carenza dell’attività informativa può essere colmata dal rilievo, svolto dalla Corte di merito, per cui il ricorrente aveva investito in titoli obbligazionari di Paesi che presentavano un rendimento e una rischiosità elevata (addirittura superiore, è esposto, ai bond argentini). Vero è, infatti, che, giusta l’art. 31, 10 co. reg. Consob n. 11522/1998, nei rapporti tra intermediari autorizzati e operatori qualificati non si applica l’art. 28: ma è altrettanto vero che l’acquisto di titoli a rischio non basta a rendere l’investitore un operatore qualificato ai sensi della normativa regolamentare dettata dalla Consob (Cass. 29 ottobre 2010, n. 22147; Cass. 25 giugno 2008, n. 17340; cfr. pure Cass. 19 gennaio 2016, n. 816).
In conclusione, dunque, la Corte di appello avrebbe dovuto correlare l’adempimento dell’obbligo informativo a comunicazioni circostanziate riferite al titolo negoziato: ciò che, del resto, la stessa banca assume di essersi offerta di provare nel corso del giudizio di merito (pag. 17 del controricorso, ove è menzione del fatto che essa rappresentò al cliente le ragioni dell’elevato grado di rischio dell’operazione finanziaria).
3. — Il quarto motivo denuncia un error in judicando in relazione all’obbligo, a carico del intermediario, di informare l’investitore dell’esistenza di una situazione di conflitto di interessi, con riferimento all’art. 21 t.u.f. e all’art. 27 reg. Consob n. 11522/1998. Lamenta il ricorrente che, avendo riguardo alle operazioni per cui è causa, la banca versava in conflitto di interessi e che tale conflitto non era stato segnalato dall’intermediario, come invece imposto dal cit. art. 27. Evidenzia l’istante che la contrattazione era avvenuta in contropartita diretta e che, in tale circostanza, l’intermediario è sempre portatore di un interesse proprio nella vendita di titoli di sua proprietà; la Corte distrettuale aveva invece ritenuto che il conflitto di interessi ricorresse solo quando l’intermediario perseguisse uno scopo diverso e ulteriore rispetto a quello del privato. Aggiunge il ricorrente che la soluzione seguita dal giudice dell’impugnazione non spiegava la ragione per la quale l’esistenza del conflitto fosse stata segnalata al momento del suo primo acquisto. Inoltre, sempre secondo il ricorrente, la negoziazione in contropartita diretta determinerebbe un conflitto di interessi ove l’ordine impartito dal cliente sia stato suggerito o
sollecitato dall’intermediario per soddisfare interessi diversi e ulteriori rispetto a quelli del cliente: ciò che era accaduto nella fattispecie.
3.1. — Il motivo non è fondato.
Ha sostenuto la Corte di appello che il conflitto di interessi era fatto discendere «dalla mera negoziazione in contropartita diretta», senza che fosse stata allegata, da parte dell’appellante, la partecipazione della banca al collocamento dei titoli.
Ora, la negoziazione in contropartita diretta costituisce uno dei servizi di investimento al cui esercizio l’intermediario è autorizzato, al pari della negoziazione per conto terzi, come si evince dalle definizioni contenute nell’art. 1 t.u.f., essendo essa una delle modalità con le quali l’intermediario può dare corso ad un ordine di acquisto o di vendita di strumenti finanziari impartito dal cliente. Ne deriva che l’esecuzione dell’ordine in conto proprio non comporta, di per sé sola, l’annullabilità dell’atto ai sensi degli artt. 1394 o 1395 c.c. (Cass. 9 giugno 2016, n. 11876; Cass. 22, dicembre 2011, n. 28432).
A fronte di tale rilievo non vale ovviamente opporre che la banca segnalò il conflitto di interessi in occasione della prima operazione di acquisto: a prescindere dal fatto che l’istante, in spregio del principio di autosufficienza, nemmeno precisa da quale atto processuale ricavi la circostanza addotta, è di solare evidenza che il nominato conflitto, di cui si dibatte, non possa farsi dipendere da un convincimento erroneo, tale da ispirare, in una o più occasioni, un comportamento non dovuto.
Inammissibile è, da ultimo, la deduzione secondo cui il conflitto di interessi sussisterebbe in quanto l’ordine impartito dal cliente era stato consigliato a […] da […]. Tale deduzione risulta infatti estranea alla prospettazione su cui, secondo quanto rilevato in sentenza, l’odierna ricorrente ha fondato la propria pretesa (vale a dire: la «mera negoziazione in contropartita diretta»). Non risulta, in altri termini, che la Corte di merito fosse chiamata a pronunciarsi sulla questione in esame. E’ noto, del resto, che ove, con il ricorso per cassazione, siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare ilmerito della suddetta questione (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675; cfr. pure: Cass. 28 luglio 2008, n. 20518; Cass. 26 febbraio 2007, n. 4391; Cass. 12 luglio 2006, n. 14599; Cass. 2 febbraio 2006, n. 2270).
4. — In conclusione, va accolto il terzo motivo, con assorbimento dei primi due e rigetto del quarto.
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