Corte di Cassazione, Sez. 1, Sentenza n. 15177 del 2000, dep. il 24 novembre 2000

[…]

Svolgimento del processo

Con atto di citazione del 14 maggio 1988, il Fallimento di […] espose al Tribunale di Taranto che la moglie del fallito ([…]) aveva venduto a […], con scrittura privata autenticata del […] 1987, un immobile sito in Martina Franca che non era di sua esclusiva proprietà, avendolo acquistato in regime di comunione legale (prima della convenzione di separazione dei beni stipulata il […] 1983) con il marito […].
Il Fallimento chiese, pertanto. al giudice che fosse dichiarato nullo o fosse annullato il menzionato atto di compravendita, di disporne la revoca ai sensi dell’art. 67 L.F., o, almeno, di pronunziarne l’inefficacia del negozio nella quota di proprietà del fallito, a norma dell’art. 66 L.F.
La sentenza con la quale il Tribunale respinse la domanda fu riformata dalla Corte d’appello di Lecce – sez. distaccata di Taranto – la quale dichiarò inefficace rispetto alla massa dei creditori del fallimento l’atto di compravendita in questione, relativamente alla quota parte di proprietà del fallito […].
In particolare, il giudice ha ritenuta provata la domanda revocatoria dalle seguenti circostanze: nell’atto pubblico di compravendita il prezzo del bene intero fu indicato in lire 80 milioni (di per sè pochi, in considerazione delle caratteristiche del bene), mentre lo stesso giorno dell’atto il […], nel chiedere un mutuo ad un istituto di credito, dichiarò che il valore della sola sua quota ammontava a lire 107 milioni; è da presumere che la […], che con il coniuge […] conviveva e condivideva interessi domestici ed economici, conoscesse i problemi finanziari nel quali da tempo versava il marito (che fu dichiarato fallito due mesi dopo la stipula dell’atto in questione); l’acquirente […] è cugina della venditrice; ancora oggi la venditrice ed il marito abitano nell’appartamento venduto nel lontano 1987; tra maggio e giugno del 1987 la […] aveva venduto altre sue proprietà a parenti o affini, mostrando un innegabile intento di sottrarre tutti i suoi beni immobili al vincolo della fideiussione da lei prestata per il marito e proprio nell’imminenza del deposito da parte di quest’ultimo del ricorso per la dichiarazione del suo stesso fallimento.
Contro la sentenza della Corte leccese hanno proposto ricorso sia […] (svolgendo quattro motivi), sia […] (svolgendo quattro motivi). Contro entrambi i risorsi resiste con controricorso il fallimento.

Motivi della decisione

I ricorsi, siccome proposti contro la medesima sentenza, vanno riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c.
I – I motivi proposti dalle ricorrenti nei rispettivi ricorsi costituiscono gli uni la pedissequa ripetizione degli altri, sicché può procedersi ad un’unica esposizione del loro contenuto.
Con il primo motivo di ricorso le ricorrenti – lamentando la violazione e falsa applicazione di legge, nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione – sostengono che “nell’ordinamento non esiste principio o norma in grado di determinare l’assorbimento nella disciplina fallimentare di un atto negoziale compiuto tra soggetti estranei alla procedura concorsuale ed avente ad oggetto un bene che non è mai entrato nella disciplina patrimoniale dell’imprenditore fallito … in maniera del tutto singolare e per nulla condivisibile la Corte (l’appello di Taranto ha assoggettato al sistema revocatorio di citi all’art. 67 della legge fallimentare il contratto con il quale la sig.ra […] ha acquistato dalla […], di professione insegnante ed in regime di separazione dei beni, un’abitazione di proprietà esclusiva della venditrice … in modo aprioristico ed apodittico, i giudici di merito sono giunti all’aberrante determinazione di dichiarare inefficace, nei confronti della massa dei creditori del fallimento del […], una quota parte della. compravendita intercorsa tra la sig.ra […] e la sig.ra […], entrambe assolutamente estranee alla procedura fallimentare”.
Con il secondo motivo le ricorrenti – lamentando la violazione e falsa applicazione dell’art. 67 legge fall., la mancanza di presupposti oggettivi e soggettivi, l’omesso esame di un punto centrale della controversia – affermano che le presunzioni di conoscenza dello stato d’insolvenza, di cui alla menzionata norma, possono operare solo nei confronti dell’avente causa dal fallito e non anche nel confronti dei terzi; in altri termini, legittimato passivo nell’azione revocatoria è colui che ha compiuto gli atti negoziali di cui si chiede la revoca. Sicché, anche in sede di revocatoria assume rilievo la circostanza che, al momento dell’atto depauperatorio, l’accipiens conoscesse effettivamente o avrebbe potuto conoscere con ordinaria prudenza lo stato d’insolvenza dell’imprenditore, valendo la prova della inscientia decoctionis ad escludere l’utile esperimento dell’azione recuperatoria. Tuttavia, i giudici del merito non hanno considerato che nel caso di specie l’atto negoziale assoggettato a revocatoria non è stato realizzato dal fallito e, pertanto, non hanno esaminato i presupposti soggettivi richiesti dall’art. 67 legge fall.
Con il terzo motivo le ricorrenti – lamentando l’omessa, insufficiente, contraddittorio, la motivazione, la violazione degli artt. 27211 e 2729 c.c., l’illogicità – contestano gli argomenti utilizzati dal giudice per ritenere provata l’azione in oggetto ed, in particolare, quanto alla discrepanza tra il valore dichiarato in contratto relativamente all’intero bene (L 80 milioni) e quello dichiarato dal fallito per il solo 50% dell’immobile al fine di ottenere un mutuo (L 107 milioni), affermano che la richiesta di mutuo, prodotta in giudizio dal curatore in mancanza di una formale acquisizione agli atti del fallimento, non può assumere valore di prova in quanto il curatore che esercita l’azione revocatoria è terzo e non può servirsi della documentazione del fallito. Aggiungono che la valutazione di L 107 milioni, oltre ad essere atecnica e frutto di una personale opinione del […], non contrasta di molto con il prezzo dichiarato in contratto, posto che tale stima non veniva riferita al 50% dell’immobile (come erroneamente ritenuto in sentenza), ma all’intero appartamento.
Le ricorrenti ritengono non correttamente motivata la sentenza neppure in relazione alla conoscenza dello stato d’insolvenza che il giudice ha attribuito alla […]: infatti, la convivenza coniugale, quando non v’è partecipazione nell’impresa, non è di per sè prova di conoscenza dello stato d’insolvenza commerciale del coniuge. Peraltro, il fatto che la […] avesse prestato fideiussioni per gli affidamenti che le banche andavano concedendo al marito è significativo della sua fiducia nella solvibilità del coniuge e del convincimento che lo stesso si trovasse in una situazione di normale esercizio dell’attività.
Infine, con il quarto motivo le ricorrenti – lamentando l’omesso esame di fatti decisivi, l’erroneità e l’illegittimità, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1445, 2644, 2697, 2699, 2700 c.c. e 42 Cost. – censurano il fatto che il giudice non abbia valutato la posizione soggettiva della acquirente […], disattendendo le prove documentali dalle quali emergeva la sua inscientia decoctionis, per avere ella “acquistato, non già da un imprenditore, ma da un’insegnante in regime di separazione dei beni, un appartamento di proprietà esclusiva della venditrice – circostanze, tutte, attestate nell’atto di compravendita”. In presenza di tali dati obiettivi – si aggiunge – non è stata fornita dalla curatela alcuna prova circa l’asserita titolarità del 50% del bene in capo al fallito, ne’ è stato adeguatamente dimostrato come l’azione recuperatoria proposta in danno della […] potesse superare il limite di cui all’art. 1445 c.c., che esclude la possibilità di annullamento nei confronti dei terzi in buona fede i quali abbiano acquistato a titolo oneroso; derivandone, così, la lesione del diritto di proprietà sancito dalla menzionata disposizione costituzionale.
II – I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, sono, come si vedrà, in parte infondati ed in parte inammissibili.
II.1 – Va, innanzitutto, chiarito che, nonostante le generiche affermazioni contrarie contenute nei ricorsi, il giudizio di merito ha inconfutabilmente accertato che l’immobile in oggetto era, al momento della vendita, in regime di comunione legale tra i coniugi […], per essere stato acquistato (nel 1976) prima della scelta del regime di separazione (U) marzo 1983), e che l’atto di compravendita in favore della […] fu stipulato nel maggio del 1987 con l’intervento della sola […], pochi mesi prima del fallimento del coniuge […]. Il primo quesito posto nel ricorsi consiste nello stabilire se è ammissibile l’azione revocatoria fallimentare nell’ipotesi in cui il fallito non abbia partecipato all’atto da revocare.
La soluzione della questione, che non trova precedenti nella giurisprudenza di questa Corte, rende necessario il preliminare chiarimento della natura giuridica e degli effetti degli atti compiuti, da uno solo dei coniugi, su beni in comunione legale.
A tal riguardo, il secondo comma dell’art. 180 c.c. stabilisce che gli atti eccedenti la straordinaria amministrazione (come la compravendita in oggetto) spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi. L’art. 184 c.c. afferma, poi, che gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro coniuge e da questo non convalidati sono annullabili, se riguardano beni immobili, a seguito di azione che può essere proposta dal coniuge, il cui consenso era necessario, entro un anno dalla data in cui ha avuto conoscenza dell’atto. Già la giurisprudenza costituzionale (Corte cost. 10 marzo 1988, n. 311) ha chiarito che dalla disciplina della comunione legale risulta una struttura normativa difficilmente riconducibile alla comunione ordinaria. Questa è una comunione per quote, quella è una comunione senza quote; nell’una le quote sono oggetto di diritto individuale dei singoli partecipanti (art, 2825 c.c.) e delimitano il potere di disposizione di ciascuno sulla cosa comune (art. 1103); nell’altra i coniugi non sono individualmente titolari di un diritto di quota, bensì solidalmente titolari, in quanto tali, di un diritto avente per oggetto i beni della comunione (art. 189, 2^ comma). Nella comunione legale la quota non è un elemento strutturale, ma ha soltanto la funzione di stabilire la misura entro cui i beni della comunione possono essere aggrediti dai creditori particolari (art. 189), la misura della responsabilità sussidiaria di ciascuno dei coniugi con i propri beni personali verso i creditori della comunione (art. 190), e infine la proporzione in cui, sciolta la comunione, l’attivo e il passivo saranno ripartiti tra i coniugi o i loro eredi (art. 194).
Da tali argomenti s’è fatto, dunque, conseguire che ciascun coniuge ha il potere di disporre dei beni della comunione. Il consenso dell’altro, richiesto dal modulo dell’amministrazione congiuntiva adottato dall’art. 180, 2^ comma, per gli atti di straordinaria amministrazione, non è un negozio (unilaterale) autorizzativo nel senso di atto attributivo di in potere, ma piuttosto nel senso di atto che rimuove un limite all’esercizio di un potere. Esso è un requisito di regolarità del procedimento di formazione dell’atto di disposizione, la cui mancanza, ove si tratti di bene immobile o mobile registrato, si traduce in un vizio del negozio (questi argomenti sono stati, poi, ampiamente recepiti dalla giurisprudenza di legittimità. Tra le varie, cfr., soprattutto, Cass. 2 febbraio 1995, n. 1252). Tutto ciò premesso e tornando alla questione che oggi ci interessa, può affermarsi che la compravendita dell’immobile, stipulata dalla […] in favore della […], ha pienamente esplicato i suoi effetti relativamente all’intero bene e, quindi, anche relativamente alla “quota” di comunione spettante al (poi fallito) […], il quale non ha proposto l’azione d’annullamento concessagli dal secondo comma dell’art. 184 c.c.
Intervenuto il fallimento del coniuge comunista che non ha partecipato all’atto, è pertanto ammissibile l’azione revocatoria fallimentare, quale unico rimedio esperibile dalla curatela per ottenere la declaratoria d’inefficacia dell’atto in relazione alla quota dell’immobile spettante al fallito. Nè, all’esperimento dell’azione dell’art. 67 legge fall., osta la circostanza che il fallito stesso non abbia partecipato al negozio, posto che (come s’è visto) il suo (mancato) consenso non è atto attributivo di poteri, bensì mero requisito di regolarità del procedimento di formazione dell’atto di disposizione. In altri termini, può affermarsi che il coniuge che non ha prestato il consenso all’atto dispositivo, ne’ lo ha convalidato, ma che, al contempo, non ha neppure esperito l’azione d’annullamento del secondo comma dell’art. 184 c.c. assume, attraverso l’implicita convalida, la posizione di contraente occulto (per quanto riguarda la propria quota), rendendo così proponibile l’azione revocatoria fallimentare, secondo il modello ed i presupposti previsti dall’art.67 legge fall. II.2 – Affermata l’inammissibilità dell’azione revocatoria, può ora passarsi ad esaminare di ricorso che attengono alla dichiarazione della sua fondatezza dal giudice di merito ed a tal proposito va ricordato che questi ha ritenuto fondata l’azione sia in relazione al primo comma dell’art. 67 legge fall., sia in relazione al secondo comma della stessa disposizione normativa. Il primo comma (n. 1) dell’art. 67 prevede che sono revocati, salvo che l’altra parte non conosceva lo stato d’insolvenza del debitore, gli atti a titolo oneroso compiuti nel due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento, in cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano notevolmente ciò che a lui è stato dato o promesso. A riguardo s’è già visto che il giudice ha valorizzato la notevole discrepanza esistente tra il valore dell’intero immobile dichiarato nell’atto di compravendita (L 80 milioni) e quello dichiarato lo stesso giorno dal […] in relazione alla sua sola quota (L 107 milioni) all’istituto di credito per conseguire un finanziamento. Il giudizio di merito reso in proposito è insindacabile da questa Corte di legittimità, posto che esso è sorretto dai requisiti della congruità e della logicità. Infatti, la sentenza impugnata spiega che se “è di comune esperienza che i contraenti, al fine di sfuggire alla esosità del fisco, sono soliti determinarsi a dichiarare nei negozi traslativi un prezzo inferiore a quello reale, e, di contro, nella domanda di mutuo, si tende a indicare una valutazione del bene offerto in ipoteca superiore a quella reale, non può però revocarsi in dubbio che giammai tali dati possono essere così esageratamente distanti come nel caso che ci occupa. Laddove poi certamente la banca mutuante, almeno, avrebbe svolto le indagini solite per verificare la fondatezza delle dichiarazioni di stima rese dal […] nella domanda di mutuo. Si deve perciò concludere che in realtà il prezzo indicato nella scrittura privata del 14 maggio 1987 ha il carattere di sproporzione rispetto al valore senz’altro maggiore dell’appartamento (e, del box), previsto dal n. 1 del c. 1 dell’art.67 legge fall.”. Nè la controparte – al di là della generica affermazione che l’immobile fu acquistato non da un imprenditore, ma da un’insegnante in regime di separazione dei beni – ha fornito la prova dell’inscientia decoctionis.
I motivi di ricorso che riguardano tale parte della sentenza impugnata vanno, dunque, respinti.
Quanto ai motivi relativi, poi, alla parte della sentenza che afferma l’esistenza anche della prova relativa alla fondatezza della revocatoria ai sensi del secondo comma dell’art. 67 legge fai]. (ossia quella parte della sentenza in cui è ritenuta provata la consapevolezza da parte della […] dello stato d’insolvenza di suo marito), va riflettuto sul fatto che il giudice, dopo aver accertato l’esistenza dei presupposti del primo comma, n. 1, della menzionata disposizione, s’è prodigato nell’accertamento (positivo) dell’esistenza dei presupposti anche per la revocatoria del secondo comma. Che le due ipotesi siano poste in via alternativa (nel senso che la prova dei presupposi] di una sola delle due e sufficiente per la revoca dell’atto) è dimostrato dall’avverbio utilizzato nell’incipit del secondo comma (“sono altresì revocati…”). Pertanto, in fase d’impugnazione si verifica che, allorquando è respinto il gravame relativo ad uno dei due accertamenti, il ricorrente è privo d’interesse all’impugnazione relativa all’altro accertamento, poiché, se anche quest’ultima fosse accolta, nessun esito favorevole deriverebbe alla sua posizione.
Tali motivi vanno, pertanto, dichiarati inammissibili. […]