Corte di Cassazione, Sez. U, Sentenza n. 6072 del 2013, dep. il 12/03/2013

[…]

Esposizione del fatto

La Corte d’appello di Trento, con decreto depositato in cancelleria il 18 ottobre 2011, rigettò la domanda di equa riparazione proposta 1’8 maggio 2011 dalla disciolta società […] s.n.c. . (in prosieguo indicata come […]) e dai soci sigg.ri […], i quali si erano lamentati dell’eccessiva durata di un giudizio civile, tuttora pendente, cui detta società aveva partecipato. La domanda fu rigettata in base al rilievo che la società […] considerarsi estinta, essendo stata cancellata dal registro delle imprese sin dal 22 aprile 2004, e che i soci non avevano mai personalmente partecipato al giudizio della cui eccessiva durata si dolevano.
I sigg.ri […], il primo anche nella dichiarata qualità di legale rappresentante della società […], hanno proposto ricorso per cassazione, al quale il […] ha resistito con controricorso.
La seconda sezione civile, con ordinanza n. 16606 del 2012, ha sollecitato la rimessione del ricorso alle sezioni unite per la definizione della questione di massima di particolare importanza consistente nell’individuare la sorte delle sopravvenienze attive scoperte dopo la cancellazione di una società dal registro delle imprese o dei residui patrimoniali attivi non liquidati prima della cancellazione, con l’ulteriore interrogativo, specifico dei giudizi per equa riparazione promossi a norma della legge n. 89 del 2001, consistente nello stabilire se il diritto in tale sede azionato possa dirsi sussistente nel patrimonio sociale ab initio, e quindi già al tempo della cancellazione dal registro, o se invece si configuri come una mera pretesa, rispetto alla quale sarebbe da valutare il significato della sopravvenuta decisione della società di farsi cancellare dal registro delle imprese.
Il ricorso è stato pertanto discusso all’odierna udienza dinanzi alle
sezioni unite.

Ragioni della decisione

1. La corte è chiamata a prendere posizione su un nodo tematico – gli
effetti della cancellazione delle società dal registro delle imprese, dopo la
riforma organica del diritto societario attuata dal d. 1gs n. 6 del 2003 – in
parte già esaminato da alcune sentenze delle sezioni unite nel corso
dell’anno 2010. Giova dir subito che non v’è ragione per rimettere qui in
discussione i principi in quelle sentenze affermati, dalle quali occorre
invece partire, senza ovviamente ripercorrerne l’intero percorso
motivazionale ma ricapitolandone brevemente i punti salienti, per cercare
di far chiarezza su una serie di ulteriori ricadute derivanti dalla
suaccennata riforma del diritto societario.
Con le sentenze nn. 4060, 4061 e 4062 del 2010 le sezioni unite di
questa corte hanno ravvisato nelle modifiche apportate dal legislatore al
testo dell’art. 2495 c.c. (rispetto alla formulazione del precedente art.
2456, che disciplinava la medesima materia) una valenza innovativa.
Pertanto, la cancellazione di una società di capitali dal registro delle
imprese, che nel precedente regime normativo si riteneva non valesse a
provocare l’estinzione dell’ente, qualora non tutti i rapporti giuridici ad
esso facenti capo fossero stati definiti, è ora invece da considerarsi
senz’altro produttiva di quell’effetto estintivo: effetto destinato ad operare
in coincidenza con la cancellazione, se questa abbia avuto luogo in epoca
successiva al 1 gennaio 2004, data di entrata in vigore della citata riforma,
o a partire da quella data se si tratti di cancellazione intervenuta in un
momento precedente. Per ragioni di ordine sistematico, desunte anche dal
disposto del novellato art. 10 della legge fallimentare, la stessa regola è
apparsa applicabile anche alla cancellazione volontaria delle società di
persone dal registro, quantunque tali società non siano direttamente
interessate dalla nuova disposizione del menzionato art. 2495 e sia
rimasto per loro in vigore l’invariato disposto dell’art. 2312 (integrato, per
le società in accomandita semplice, dal successivo art. 2324). La
situazione delle società di persone si differenzia da quella delle società di
capitali, a tal riguardo, solo in quanto l’iscrizione nel registro delle imprese
dell’atto che le cancella ha valore di pubblicità meramente dichiarativa,
superabile con prova contraria. Ma è bene precisare che tale prova
contraria non potrebbe vertere sul solo dato statico della pendenza di
rapporti non ancora definiti facenti capo alla società, perché ciò
condurrebbe in sostanza ad un risultato corrispondente alla situazione
preesistente alla riforma societaria. Per superare la presunzione di
estinzione occorre, invece, la prova di un fatto dinamico: cioè che la
società abbia continuato in realtà ad operare – e dunque ad esistere – pur
dopo l’avvenuta cancellazione dal registro. Ed è questa soltanto la
situazione alla quale la successiva sentenza n. 4826 del 2010 ha poi
ricollegato anche la possibilità che, tanto per le società di persone quanto
per le società di capitali, si addivenga anche d’ufficio alla “cancellazione
della pregressa cancellazione” (cioè alla rimozione della cancellazione dal
registro in precedenza intervenuta), in forza del disposto dell’art. 2191
c.c., con la conseguente presunzione che la società non abbia mai cessato
medio tempore di operare e di esistere.
2. Ferme tali premesse, si tratta ora di mettere meglio a fuoco le
conseguenze che ne possono derivare in ordine ai rapporti,
originariamente facenti capo alla società estinta a seguito della
cancellazione dal registro, che tuttavia non siano stati definiti nella fase
della liquidazione, o perché li si è trascurati (li si potrebbe allora definire
“residui non liquidati”) o perché solo in seguito se ne è scoperta l’esistenza
(li si suole definire “sopravvenienze”).
Converrà farlo tenendo separati, per maggiore chiarezza espositiva, i
rapporti passivi, cioè quelli implicanti l’esistenza di obbligazioni gravanti
sulla società, dai rapporti attivi, in forza dei quali prima della cancellazione
la società poteva vantare diritti; e converrà esaminare anzitutto i profili di
diritto sostanziale e poi le conseguenze che se ne debbano trarre sul piano
processuale.
3. Il legislatore del codice civile, anche in occasione della già ricordata
riforma del diritto societario, si è preoccupato espressamente soltanto di
disciplinare la sorte dei debiti sociali rimasti insoddisfatti dopo la
cancellazione della società dal registro.
Il secondo comma del citato art. 2495 (riprendendo, peraltro, quanto
già stabiliva in proposito il secondo comma del previgente art. 2456)
stabilisce, a tal riguardo, che i creditori possono agire nei confronti dei soci
della dissolta società di capitali sino alla concorrenza di quanto questi
ultimi abbiano riscosso in base al bilancio finale di liquidazione. E’ prevista,
inoltre, anche la possibilità di agire (deve intendersi, però, per
risarcimento dei danni) nei confronti del liquidatore, se il mancato
pagamento del debito sociale è dipeso da colpa di costui; ma di tale
ulteriore previsione non occorre qui occuparsi, non essendo stata
esercitata azione alcuna contro il liquidatore nella vertenza in esame.
Un’analoga disposizione è dettata, per le società in nome collettivo, dal
secondo comma del pure già citato art. 2312, salvo che, in tal caso, pur
dopo la dissoluzione dell’ente ma coerentemente con le caratteristiche del
diverso tipo societario, non opera la limitazione di responsabilità di cui
godono i soci di società di capitali. La stessa regola si ripropone per la
società in accomandita semplice, ma l’ultrattività dei principi vigenti in
pendenza di società fa sì che, anche dopo la cancellazione, l’accomandante
risponda solo entro i limiti della sua quota di liquidazione (art. 2324).
Lo scarno tessuto normativo cui s’è fatto cenno non sembra autorizzare
la conclusione che, con l’estinzione della società derivante dalla sua
volontaria cancellazione dal registro delle imprese, si estinguano anche i
debiti ancora insoddisfatti che ad essa facevano capo. Se così fosse, si
finirebbe col consentire al debitore di disporre unilateralmente del diritto
altrui (magari facendo venir meno, di conseguenza, le garanzie, prestate
da terzi, che a quei debiti eventualmente accedano), e ciò pare tanto più
inammissibile in un contesto normativo nel quale l’art. 2492 c.c. neppure
accorda al creditore la legittimazione a proporre reclamo contro il bilancio
finale di liquidazione della società debitrice, il cui deposito prelude alla
cancellazione. Ipotizzare – come pure si è fatto da taluni – che la
volontaria estinzione dell’ente collettivo comporti, perciò, la cessazione
della materia del contendere nei giudizi contro di esso pendenti per
l’accertamento di debiti sociali tuttora insoddisfatti significherebbe imporre
un ingiustificato sacrificio del diritto dei creditori; sacrificio che non
verrebbe sanato dalla possibilità di agire nei confronti dei soci, alle
condizioni indicate dalla citata disposizione dell’art. 2495, se quest’azione
fosse concepita come diversa ed autonoma rispetto a quella già intrapresa
verso la società, non foss’altro che per la necessità di dover riprendere il
giudizio da capo con maggiori oneri e col rischio di non riuscire a reiterare
le prove già espletate.
Ma se allora, anche per non vulnerare il diritto di difesa tutelato dall’art.
24 della Costituzione, deve escludersi che la cancellazione dal registro, pur
provocando l’estinzione dell’ente debitore, determini al tempo stesso la
sparizione dei debiti insoddisfatti che la società aveva nei riguardi dei terzi,
è del tutto naturale immaginare che questi debiti si trasferiscano in capo a
dei successori e che, pertanto, la previsione di chiamata in responsabilità
dei soci operata dal citato art. 2495 implichi, per l’appunto, un
meccanismo di tipo successorio, che tale è anche se si vogliano rifiutare
improprie suggestioni antropomorfiche derivanti dal possibile
accostamento tra l’estinzione della società e la morte di una persona fisica.
La ratio della norma dianzi citata, d’altronde, palesemente risiede
proprio in questo: nell’intento d’impedire che la società debitrice possa,
con un proprio comportamento unilaterale, che sfugge al controllo del
creditore, espropriare quest’ultimo del suo diritto. Ma questo risultato si
realizza appieno solo se si riconosce che i debiti non liquidati della società
estinta si trasferiscono in capo ai soci, salvo i limiti di responsabilità nella
medesima norma indicati. Il dissolversi della struttura organizzativa su cui
riposa la soggettività giuridica dell’ente collettivo fa naturalmente
emergere il sostrato personale che, in qualche misura, ne è comunque alla
base e rende perciò del tutto plausibile la ricostruzione del fenomeno in
termini successori (sembra dubitarne Cass. 13 luglio 2012, n. 11968, ma
in base ad una motivazione in buona parte imperniata sulla disposizione
dell’art. 36, terzo comma, del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 602, operante
solo nello specifico settore del diritto tributario). Puntualmente autorevole
dottrina ha affermato che la responsabilità dei soci trova giustificazione nel
“carattere strumentale del soggetto società: venuto meno questo, i soci
sono gli effettivi titolari dei debiti sociali nei limiti della responsabilità che
essi avevano secondo il tipo di rapporto sociale prescelto”.
Persuade di ciò anche il fatto che il debito del quale, in situazioni di tal
genere, possono essere chiamati a rispondere i soci della società
cancellata dal registro non si configura come un debito nuovo, quasi
traesse la propria origine dalla liquidazione sociale, ma s’identifica col
medesimo debito che faceva capo alla società, conservando intatta la
propria causa e la propria originaria natura giuridica (si veda, in
argomento, Cass. 3 aprile 2003, n. 5113). Come, nel caso della persona
fisica, la scomparsa del debitore non estingue il debito, ma innesca un
meccanismo successorio nell’ambito del quale le ragioni del creditore sono
destinate ad essere variamente contemperate con quelle degli eredi, così,
quando il debitore è un ente collettivo, non v’è ragione per ritenere che la
sua estinzione (alla quale, a differenza della morte della persona fisica,
concorre di regola la sua stessa volontà) non dia ugualmente luogo ad un
fenomeno di tipo successorio, sia pure sui generis, che coinvolge i soci ed
è variamente disciplinato dalla legge a seconda del diverso regime di
responsabilità da cui, pendente societate, erano caratterizzati i pregressi
rapporti sociali.
Nessun ingiustificato pregiudizio viene arrecato alle ragioni dei creditori,
del resto, per il fatto che i soci di società di capitali rispondono solo nei
limiti dell’attivo loro distribuito all’esito della liquidazione. Infatti, se la
società è stata cancellata senza distribuzione di attivo, ciò evidentemente
vuol dire che vi sarebbe stata comunque incapienza del patrimonio sociale
rispetto ai crediti da soddisfare. D’altro canto, alla tesi – pure in sé
certamente plausibile – che limita il descritto meccanismo successorio
all’ipotesi in cui i soci di società di capitali (o il socio accomandante della
società in accomandita semplice) abbiano goduto di un qualche riparto in
base al bilancio finale di liquidazione, ravvisandovi una condizione da cui
dipenderebbe la possibilità di proseguire nei confronti di detti soci l’azione
originariamente intrapresa dal creditore sociale verso la società (tesi
propugnata da Cass. 16 maggio 2012, nn. 7676 e 7679, nonché da Cass.
9 novembre 2012, n. 19453), sembra da preferire quella che individua
invece sempre nei soci coloro che son destinati a succedere nei rapporti
debitori già facenti capo alla società cancellata ma non definiti all’esito
della liquidazione (anche, come si dirà, ai fini processuali), fermo però
restando il loro diritto di opporre al creditore agente il limite di
responsabilità cui s’è fatto cenno. Il successore che risponde solo intra
vires dei debiti trasmessigli non cessa, per questo, di essere un
successore; e se il suaccennato limite di responsabilità dovesse rendere
evidente l’inutilità per il creditore di far valere le proprie ragioni nei
confronti del socio, ciò si rifletterebbe sul requisito dell’interesse ad agire
(ma si tenga presente che il creditore potrebbe avere comunque interesse
all’accertamento del proprio diritto, ad esempio in funzione dell’escussione
di garanzie) ma non sulla legittimazione passiva del socio medesimo.
Della correttezza della ricostruzione sistematica dell’istituto in termini
(almeno lato sensu) successori è d’altronde lo stesso legislatore a fornire
un indizio assai significativo, disponendo che la domanda proposta dai
creditori insoddisfatti nei confronti dei soci possa essere notificata, entro
un anno dalla cancellazione della società dal registro, presso l’ultima sede
della medesima società (art. 2495 cit., secondo comma, ultima parte).
Non interessa qui soffermarsi sulle perplessità che da talune parti sono
state solevate quanto all’idoneità di tale disposizione ad assicurare
adeguatamente il diritto di difesa dei soci nei cui confronti la domanda sia
proposta. Importa notare come il legislatore, inserendo siffatta previsione
processuale nel corpo di un articolo del codice civile, si sia palesemente
ispirato al secondo comma dell’art. 303 c.p.c., che consente, entro l’anno
dalla morte della parte, di notificare l’atto di riassunzione agli eredi
nell’ultimo domicilio del defunto: testimonianza evidente di una visione in
chiave successoria del meccanismo in forza del quale i soci possono esser
chiamati a rispondere dei debiti insoddisfatti della società estinta. Ed è
appena il caso di aggiungere che, per ovvie ragioni di coerenza
dell’ordinamento, la medesima conseguenza sistematica non potrebbe non
esser tratta anche per quel che concerne gli effetti successori della
cancellazione dal registro di una società di persone che non abbia liquidato
interamente i rapporti pendenti, quantunque a questo tipo di società non
si applichi la speciale disposizione del citato secondo comma dell’art. 2495.
4. Meno agevole è individuare la sorte dei residui attivi non liquidati e
delle sopravvenienze attive della liquidazione di una società cancellata dal
registro, perché il legislatore ne tace.
4.1. E’ ben possibile che la stessa scelta della società di cancellarsi dal
registro senza tener conto di una pendenza non ancora definita, ma della
quale il liquidatore aveva (o si può ragionevolmente presumere che
avesse) contezza sia da intendere come una tacita manifestazione di
volontà di rinunciare alla relativa pretesa (si veda, ad esempio, la
fattispecie esaminata da Cass. 16 luglio 2010, n. 16758); ma ciò può
postularsi agevolmente quando si tratti, appunto, di mere pretese,
ancorché azionate o azionabili in giudizio, cui ancora non corrisponda la
possibilità d’individuare con sicurezza nel patrimonio sociale un diritto o un
bene definito, onde un tal diritto o un tal bene non avrebbero neppure
perciò potuto ragionevolmente essere iscritti nell’attivo del bilancio finale
di liquidazione. Ad analoghe conclusioni può logicamente pervenirsi nel
caso in cui un diritto di credito, oltre che magari controverso, non sia
neppure liquido: di modo che solo un’attività ulteriore da parte del
liquidatore – per lo più consistente nell’esercizio o nella coltivazione di
un’apposita azione giudiziaria – avrebbe potuto condurre a renderlo
liquido, in vista del riparto tra i soci dopo il soddisfacimento dei debiti
sociali. In una simile situazione la scelta del liquidatore di procedere
senz’altro alla cancellazione della società dal registro, senza prima
svolgere alcuna attività volta a far accertare il credito o farlo liquidare, può
ragionevolmente essere interpretata come un’univoca manifestazione di
volontà di rinunciare a quel credito (incerto o comunque illiquido)
privilegiando una più rapida conclusione del procedimento estintivo. Ma
quando, invece, si tratta di un bene o di un diritto che, se fossero stati
conosciuti o comunque non trascurati al tempo della liquidazione, in quel
bilancio avrebbero dovuto senz’altro figurare, e che sarebbero perciò stati
suscettibili di ripartizione tra i soci (al netto dei debiti), un’interpretazione
abdicativa della cancellazione appare meno giustificata, e dunque non ci si
può esimere dall’interrogarsi sul regime di quei residui o di quelle
sopravvenienze attive.
4.2. Escluso, per le ragioni già da principio accennate, che l’esistenza di
tali residui o sopravveniente sia da sola sufficiente a giustificare la revoca
della cancellazione della società dal registro, o che valga altrimenti ad
impedire l’estinzione dell’ente collettivo, sono state prospettate tanto
l’ipotesi di una successione dei soci, per certi versi analoga a quella che si
è visto operare per i residui e le sopravvenienze passive, quanto l’ipotesi
che i beni ed i diritti non liquidati vengano a costituire un patrimonio
adespota, assimilabile alla figura dell’eredità giacente, per la gestione e la
rappresentanza del quale qualunque interessato potrebbe chiedere al
giudice la nomina di un curatore speciale in applicazione analogica degli
artt. 528 e segg. c.c.
Quest’ultima soluzione non è però persuasiva. Troppo dissimili
appaiono, infatti, i presupposti sui quali riposa l’istituto dell’eredità
giacente, e non vi sono ragioni che impongano di ricorrere ad esso in
presenza di altre più plausibili ipotesi ricostruttive.
Il subingresso dei soci nei debiti sociali, sia pure entro i limiti e con le
modalità cui sopra s’è fatto cenno, suggerisce immediatamente che anche
nei rapporti attivi non definiti in sede di liquidazione del patrimonio sociale
venga a determinarsi un analogo meccanismo successorio. Se l’esistenza
dell’ente collettivo e l’autonomia patrimoniale che lo contraddistingue
impediscono, pendente societate, di riferire ai soci la titolarità dei beni e
dei diritti unificati dalla destinazione impressa loro dal vincolo societario, è
ragionevole ipotizzare che, venuto meno tale vincolo, la titolarità dei beni
e dei diritti residui o sopravvenuti torni ad essere direttamente imputabile
a coloro che della società costituivano il sostrato personale. Il fatto che sia
mancata la liquidazione di quei beni o di quei diritti, il cui valore
economico sarebbe stato altrimenti ripartito tra i soci, comporta soltanto
che, sparita la società, s’instauri tra i soci medesimi, ai quali quei diritti o
quei beni pertengono, un regime di contitolarità o di comunione indivisa,
onde anche la relativa gestione seguirà il regime proprio della contitolarità
o della comunione.
5. Occorre ora spostare l’attenzione sul piano processuale, traendo le
conseguenze di quanto appena detto.
E’ del tutto ovvio che una società non più esistente, perché cancellata
dal registro delle imprese, non possa validamente intraprendere una
causa, né esservi convenuta (salvo quanto si dirà a proposito del
fallimento), e che, ove nondimeno residuino diritto o obblighi deducibili in
giudizio, la relativa legittimazione compete invece ai soci, in quanto
successori (questioni ulteriori si pongono qualora la cancellazione
intervenga a causa già iniziata, ma esse non rilevano nella presente
vertenza).
Una sola eccezione va segnalata – ma si tratta, appunto, di
un’eccezione, come tale destinata ad operare sono nello stretto ambito in
cui il legislatore la ha prevista – con riguardo alla disciplina del fallimento.
La possibilità, espressamente contemplata dall’art. 10 I. fall., che una
società sia dichiarata fallita entro l’anno dalla sua cancellazione dal
registro comporta, necessariamente, che tanto il procedimento per
dichiarazione di fallimento quanto le eventuali successive fasi
impugnatorie continuino a svolgersi nei confronti della società (e per essa
del suo legale rappresentante), ad onta della sua cancellazione dal
registro; ed è giocoforza ritenere che anche nel corso della conseguente
procedura concorsuale la posizione processuale del fallito sia sempre
impersonata dalla società e da chi legalmente la rappresentava (si veda, in
argomento, Cass. 5 novembre 2010, n. 22547). E’ una fictio iuris, che
postula come esistente ai soli fini del procedimento concorsuale un
soggetto ormai estinto (come del resto accade anche per l’imprenditore
persona fisica che venga dichiarato fallito entro l’anno dalla morte) e dalla
quale non si saprebbero trarre argomenti sistematici da utilizzare in ambiti
processuali diversi.
6. Traendo le fila del discorso svolto, in relazione alle questioni per le
quali il ricorso è stato portato all’esame delle sezioni unite, si possono
dunque enunciare i seguenti principi di diritto:
“Qualora all’estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione
dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto
giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di
tipo successorio, in virtù del quale: a) le obbligazioni si trasferiscono ai
soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della
liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, essi
fossero o meno illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) si
trasferiscono del pari ai soci, in regime di contitolarità o di comunione
indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della
società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorché azionate o
azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerti o illiquidi la cui
inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale
o extragiudiziale) il cui mancato espletamento da parte del liquidatore
consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato”.
“La cancellazione volontaria dal registro delle imprese di una società, a
partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società medesima,
impedisce che essa possa ammissibilmente agire o essere convenuta in
giudizio.”
7. Facendo applicazione di tali principi nel presente caso, appare
anzitutto evidente che debba esser dichiarato inammissibile il ricorso per
cassazione proposto dalla non più esistente società […].
Quanto al ricorso proposto in proprio dai soci sigg.ri […], va
dichiarato inammissibile il primo motivo, col quale essi denunciano un vizio
di motivazione in cui sarebbe incorsa la corte nell’affermare che solo la
società […], nel frattempo peraltro cancellata dal registro delle imprese,
e non anche i suoi soci personalmente avevano preso parte ai diversi gradi
del giudizio della cui eccessiva durata gli stessi ricorrenti si dolgono.
Una tale censura, se pure quanto i ricorrenti sostengono eventualmente
.. rispondesse al vero, varrebbe ad evidenziare non già un vizio di
motivazione compiuto dal giudice di merito, bensì un errore di percezione
del dato processuale in cui egli sarebbe incorso. Si tratterebbe quindi,
semmai, di un vizio revocatorio, che non è però denunciabile con ricorso
per cassazione.
Infondato è invece il secondo motivo del medesimo ricorso, in cui si
sostiene che i soci, in quanto successori della società estinta, sarebbero
stati legittimati a far valere il diritto all’equo indennizzo maturato in favore
della società medesima.
E’ bensì vero che il diritto all’equo indennizzo sorge per effetto del
protrarsi oltre il limite di ragione del processo di cui il soggetto sia parte,
come può agevolmente dedursi dalla circostanza che l’art. 6, paragrafo 1,
della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle
Libertà fondamentali riconosce alla parte in causa il diritto ad una
decisione in un tempo ragionevole per il fatto stesso di essere parte in
causa: onde non v’è motivo di dubitare che la lesione di quel diritto,
derivante dall’eccessivo protrarsi del giudizio, immediatamente dia luogo
al sorgere del diritto consequenziale della parte ad essere equamente
indennizzata. Sicché non si tratta di una mera aspettativa, ma di un diritto
di credito, che è suscettibile di successivo accertamento ma esiste nel
patrimonio del relativo titolare sin dal momento in cui ne siano maturate le
condizioni; ed in tal senso deve rispondersi all’ulteriore quesito contenuto
nell’ordinanza con la quale è stata sollecitata la rimessione del presente
ricorso all’esame delle sezioni unite.
Non v’è dubbio, però, che nella fattispecie in esame quel credito, sorto
originariamente in capo alla società, che era parte del giudizio lungamente
. protrattosi, risultava controverso e perciò ancora abbisognoso di
accertamento e di liquidazione nel momento in cui la società, nell’aprile del
2004, decise di farsi cancellare dal registro delle imprese. Donde, in base
ai principi dianzi enunciati, è agevole trarre la conseguenza che tale scelta
ha implicato la tacita rinuncia della società al credito in questione, perché
si manifesta incompatibile con la volontà di pervenire al concreto
accertamento ed alla liquidazione del credito stesso, per poter poi
provvedere all’eventuale ripartizione del ricavato tra i soci. I quali, perciò,
non possono qualificarsi come successori della società nella titolarità di un
credito cui la società medesima ha rinunciato.
8. Pertanto il ricorso proposto in proprio dai soci sigg.ri […]
deve essere rigettato, pur dovendosi la motivazione dell’impugnato
provvedimento modificare nei termini sopra enunciati. […]