[…]
FATTO
Si deve premettere che l’appellante sig. […], in data 14 febbraio 1990 sottoscriveva una convenzione di lottizzazione con il Comune di […], al fine della realizzazione sia di capannoni artigianali, sia di fabbricati residenziali e in virtù di tale convenzione ed in asserita conformità alla variante al P.R.G. n. 2/2006, presentava il 22 dicembre 2008 una d.i.a. al Comune di […] per l’edificazione di un fabbricato destinato a civile abitazione.
Con il presente gravame l’appellante impugna la sentenza, meglio specificata in epigrafe, con cui il T.A.R. Lombardia – su ricorso degli odierni appellati – ha disposto:
— l’annullamento della d.i.a. n. […] del 22 dicembre 2008, destinata alla realizzazione di un fabbricato di civile abitazione;
— la demolizione delle opere edilizie private del titolo;
— il risarcimento dei danni nei confronti dei ricorrenti pari ad € 3.000;
— il pagamento, in solido con il Comune di […], delle spese per la verificazione per € 1.500;
— il pagamento, in solido con il Comune di […], delle spese di lite per € 2.500.
L’appello è affidato alla denuncia della carenza di interesse dei ricorrenti in primo grado, all’errata applicazione dell’art. 19 della l. n. 241/1990; al sostanziale rispetto delle Norme Tecniche di Attuazione ed all’erroneità della condanna al risarcimento in forma specifica e per equivalente.
L’istanza cautelare, finalizzata alla sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata, è stata accolta con ordinanza n. 1235 del 27 marzo 2012, sul presupposto della necessità di approfondire taluni aspetti inerenti all’entità ed alla natura delle opere realizzate.
Gli appellati, costituitisi in giudizio, hanno replicato ai singoli motivi di appello del sig. […] e concluso per la conferma della sentenza di primo grado.
Con memoria corredata da fotografie e disegni tecnici dell’8 aprile 2014, l’appellante ha sottolineato le tesi a supporto delle proprie argomentazioni.
Chiamata all’udienza pubblica del 13 maggio 2014, uditi i patrocinatori delle parti, la causa è stata ritenuta in decisione.
DIRITTO
L’appello è infondato.
_1.§. Preliminarmente va affrontata l’eccezione, che non sarebbe stata rilevata dal TAR, per cui, stante la diversità delle quote a cui sarebbero poste le abitazioni delle varie parti, i ricorrenti in primo grado sarebbero stati carenti di interesse. Inoltre l’abitazione degli appellati sarebbe ubicata di fronte a quella dell’appellante e sarebbe separata da quest’ultima dalla Strada Provinciale […]. Per l’appellante la mera vicinitas degli edifici non sarebbe sufficiente a fondare l’interesse al ricorso, come configurato dall’art. 100 c.p.c.. Sarebbe altresì mancata nel caso la prova concreta del danno inferto agli appellati.
Il motivo è infondato.
Se, in linea generale, l’interesse a ricorrere nel processo amministrativo è caratterizzato dagli stessi requisiti che qualificano l’interesse ad agire di cui al citato art. 100 c.p.c., in materia edilizia la giurisprudenza più recente (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22 gennaio 2013 n. 361; Consiglio di Stato, Sez. IV, 17 settembre 2012 n. 4926; Consiglio di Stato, sez. IV, 29 agosto 2012 n. 4643; Consiglio di Stato, sez. IV, 10 luglio 2012 n. 4088; C.G.A. della Regione Siciliana Sent. 4 giugno 2013 n. 553) ha da tempo specificato che:
— la c.d. “vicinitas”, cioè la una situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell’intervento costruttivo autorizzato, è sufficiente a radicare la legittimazione del confinante;
— non è necessario accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino o no un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione in quanto la realizzazione di interventi che comportano un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio che è pregiudizievole “in re ipsa” in quanto consegue necessariamente dalla maggiore tropizzazione (traffico, rumore), dalla minore qualità panoramica, ambientale, paesaggistica; e dalla possibile diminuzione di valore dell’immobile;
— ciò esime, di norma, il Giudice da qualsiasi necessità di accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino o non un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione.
Nella fattispecie in esame, se deve peraltro prescindersi dalla dedotta ubicazione, frontista o limitrofa che sia, del terreno di proprietà degli uni e dell’altro, dagli atti versati risulta peraltro evidente il collegamento sussistente fra la proprietà degli odierni appellati e le opere contestate dagli stessi, ed il nocumento collegabile alla riduzione del cono visivo causata dall’edificazione del fabbricato di proprietà dell’appellante.
Non vi sono quindi dubbi sull’interesse a ricorrere degli odierni appellati
_2.§. Nel merito del contendere, l’appellante ritiene errata la decisione del giudice di prime cure che avrebbe ritenuto ammissibile la proposizione, da parte dei ricorrenti, dell’azione di annullamento avverso la d.i.a. del sig. […], alla luce della recente giurisprudenza e della legislazione vigente in materia. Per l’appellante la tutela dei terzi che si ritengano lesi da un’attività iniziata previa presentazione di d.i.a. (o s.c.i.a.) è affidata:
— alle azioni avverso il silenzio-inadempimento dell’amministrazione, ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 31 e 117 c.p.a.;
— o all’azione di accertamento;
— ovvero all’azione di condanna dell’amministrazione all’emanazione del provvedimento richiesto.
Nella fattispecie, invece, gli odierni appellati avrebbero proposto in primo grado un’inammissibile ordinaria azione di annullamento della d.i.a..
L’assunto è privo di pregio.
Certamente, come è noto, con la decisione n. 15 del 29 luglio 2011, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato – dopo aver ripercorso i pregressi contrasti giurisprudenziali interni a questa materia – ha chiarito che:
– la d.i.a. “…non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo ma costituisce un atto privato volto a comunicare l’intenzione di intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge … ”,
— il silenzio, opposto dall’amministrazione alla richiesta del terzo che si ritenga leso dallo svolgimento dell’attività dichiarata con la d.i.a., debba essere configurato come provvedimento tacito, per cui il terzo controinteressato all’esercizio dell’attività denunciata può tutelarsi mediante l’azione impugnatoria, ex art. 29 c.p.a. la quale deve essere proposta nell’ordinario termine decadenziale di sessanta giorni, che decorre dal momento della piena conoscenza dell’adozione dell’atto lesivo (art. 41, comma 2, c.p.a.). Detta conoscenza si acquisisce non con il mero inizio dei lavori ma con il loro completamento. Laddove sia indubbio che la piena conoscenza della presentazione della d.i.a. si collochi in un momento anteriore al decorso del termine per l’esercizio del potere inibitorio, il dies a quo coinciderà con il decorso del termine per l’adozione delle doverose misure interdittive.
Successivamente alla sent. n. 15/2011, il legislatore ha inciso sulla stessa materia con il D.L. n. 138 del 13 agosto 2011 (convertito in l. n. 148 del 2011) ma la normativa de quo non risulta applicabile al caso in esame, stante l’entrata in vigore successiva – 17 settembre 2011 – rispetto alla presentazione della d.i.a. – 22 dicembre 2008 -.
Dunque, nessun dubbio può sussistere in ordine all’ammissibilità dell’impugnativa il cui ricorso è stato depositato il 10 marzo 2010 (in data molto risalente rispetto alla ricordata decisione della Plenaria del 29 luglio 2011) e quindi in conformità alle indicazioni di questa Sezione (cfr. ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 4 maggio 2010, n. 2558; 24 maggio 2010, n, 3263; 8 marzo 2011, n. 1423).
Nel caso in esame, come sarà evidente anche in seguito, al di là della qualificazione formale della d.i.a., l’attività oggetto della stessa era comunque illegittima.
Per cui del tutto legittimamente, all’epoca dei fatti, i ricorrenti in primo grado hanno richiesto, ed ottenuto, l’annullamento dell’atto dalla cui attuazione illegittima insorgevano dei pregiudizi concreti e personali nelle proprie situazioni giuridiche soggettive.
In definitiva dunque, stante l’inapplicabilità ratione temporis della sopravvenuta disposizione di cui all’art. 19 co. 6-ter l. n. 241/1990 deve denegarsi che, in relazione alle incertezze giurisprudenziali e dottrinarie in materia, l’azione di impugnazione avverso la d.i.a., presentata dagli odierni appellati, dovesse essere dichiarata inammissibile.
_3.§ L’appellante ritiene, altresì, priva di fondamento l’affermazione dalla sentenza, relativamente alla violazione della norme tecniche di attuazione di cui alla variante n. 2 del 2006, in quanto pur essendo stata accertata la difformità fra il piano di spiccato effettivo e quello invece inserito nella d.i.a., la sua edificazione sarebbe stata complessivamente conforme alle disposizioni relative all’altezza massima dei fabbricati.
Conseguentemente, chiede l’applicabilità della disposizione di cui all’art. 34 co. 2-ter del D.P.R. n. 380 del 6 giugno 2001 per il quale “ai fini dell’applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali”.
L’assunto va respinto .
In base alle esatte risultanze della verificazione prodotta in primo grado risulta che:
— lo strumento urbanistico attuativo prevede l’altezza massima dei fabbricati in m. 6,50 per cui considerando che “… la quota reale dei terreni corrisponde, in base ai riscontri misurati sugli elaborati agli atti del Comune di […] alla quota di – m. 3,30, mentre la quota fittizia si trova a – m. 2,90 (ovvero al di sopra del terreno naturale di m. 0,40)” e che “…il piano seminterrato, con riferimento al piano di spiccato intesa come quota esistente si trova, pertanto, per più della metà realizzato fuori terra”;
— “…che la d.i.a. del 2008 ha erroneamente documentato il calcolo dell’altezza del fabbricato dovendosi riferire il conteggio al medesimo piano di spiccato erroneamente individuato”.
Da ciò deve dedursi l’erroneo presupposto su cui si basa il computo dell’altezza del fabbricato eseguito dall’appellante nella parte in cui ha artatamente escluso il piano seminterrato dal conteggio dei piani emergenti e, dunque, dell’altezza massima dell’edificio.
L’eccedenza di m 0.40 delle maggiori edificazioni fuori terra viola, dunque, le misure stabilite dalle norme tecniche di attuazione in una misura ben maggiore al 2% di m.6,50 (pari a m. 0,13): poiché detta eccedenza risulta ben superiore alla ricordata “tolleranza di cantiere”, non è applicabile alla fattispecie l’art. 34 co. 2-ter del D.P.R. n. 380/2001.
_ 4.§. L’appellante censura infine l’erroneità della decisione di primo grado, con la quale è stato condannato alla demolizione delle opere realizzate ed al risarcimento del danno nei confronti degli odierni appellati. L’art. 30 del c.p.a. postulerebbe la sola condanna nei confronti dell’amministrazione, e non potrebbe, viceversa, avere mai ad oggetto l’imposizione di un facere o di un dare nei confronti di un soggetto privato.
L’assunto è privo di pregio.
Innanzitutto va ribadito che la materia oggetto del presente gravame rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’articolo 133 co. 1 lett. a) del c.p.a., il quale stabilisce che “sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, salvo ulteriori previsioni di legge: a) le controversie in materia di: “… silenzio di cui all’art. 31 commi 1, 2 e 3, e provvedimenti espressi adottati in sede di verifica di segnalazione certificata, denuncia e dichiarazione di inizio attività, di cui all’art. 19 comma 6-ter, della legge 7 agosto 1990 n. 241”.
Nell’ambito della giurisdizione esclusiva, il ricorrente può dunque adire il giudice amministrativo, proponendo, ai sensi del primo comma dell’art. 30 del c.p.a., azione di condanna, autonomamente, od anche contestualmente ad altra azione; inoltre, ex comma 2 del medesimo articolo, in queste materie “può essere chiesto il risarcimento del danno da lesione dei diritti soggettivi. Sussistendo i presupposti previsti dall’art. 2058 del codice civile, può essere chiesto il risarcimento del danno in forma specifica”.
Lo specifico richiamo all’art. 2058 c.c. ed al risarcimento del danno da lesione di diritto soggettivo (nel caso di specie, la proprietà) consentono di affermare che, fra i poteri attribuiti al giudice amministrativo, nell’ambito della sua giurisdizione esclusiva, rientrano senz’altro sia la possibilità di ordinare al privato la demolizione delle opere costruite sine titulo – o in virtù un titolo abilitativo venuto meno per effetto di una pronuncia giurisdizionale – e sia l’imposizione del risarcimento, per i danni cagionati in epoca anteriore all’accertamento relativo alla difformità dell’opera alle normative tecniche.
Di qui l’esattezza della decisione impugnata sul punto.
In definitiva, l’attribuzione del potere di condanna alla reintegrazione in forma specifica ed al risarcimento per equivalente è coerente ed implicito nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: non può limitarsi tale potere in virtù della differente configurazione soggettiva nei cui confronti si dirige.
__5. In conclusione, la sentenza impugnata merita integrale conferma, nei sensi di cui sopra e pertanto l’appello deve essere respinto.
In relazione alla natura controversa delle questioni dedotte, sussistono giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese di giudizio. […]