Corte di Cassazione, Sez. 1, Sentenza n. 9394 del 2011, dep. il 27/04/2011

[…]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con atto notificato il 14 dicembre 1999 al Comune di […], il Consorzio [….] promosse il procedimento arbitrale previsto nella concessione con la quale l’ente aveva affidato al consorzio la progettazione e la realizzazione di interventi di edilizia residenziale ai sensi del titolo 8^ della L. 14 maggio 1981, n. 219, e chiese la risoluzione del contratto per colpa del committente e il pagamento dei corrispettivi ancora dovuti, e il risarcimento dei danni. Il Comune eccepì il difetto di competenza degli arbitri, stante l’applicabilità alla controversia del divieto di arbitrato, stabilito dal D.L. 11 giugno 1998, n. 180, art. 3, comma 2, conv. in legge con la L. 3 agosto 1998, n. 267.
2. Con lodo depositato il giorno 1 giugno 2001, il collegio arbitrale respinse l’eccezione del Comune e accolse in parte la domanda del consorzio. Il comune propose impugnazione avanti alla Corte d’appello di Napoli notificandola il 15 marzo 2002 al consorzio presso il suo difensore nel procedimento arbitrale. La corte dispose la rinnovazione della notificazione all’ente presso la sua sede, e l’adempimento ebbe luogo il 16 aprile 2004 nel termine perentorio assegnato. Il consorzio, che nel 2003 aveva notificato il lodo in forma esecutiva al Comune, insieme al precetto, si costituì a seguito della rinotificazione dell’atto d’impugnazione, eccependone la tardività e resistendo nel merito. Con sentenza 3 dicembre 2004, la corte territoriale ha accolto l’impugnazione e ha dichiarato la nullità del lodo per incompromettibilità della materia ad arbitri.
3. Per la cassazione di questa sentenza, non notificata, il consorzio ricorre con atto notificato in data 24 maggio 2005, per tre motivi, illustrati anche con memoria.
Il Comune di […] resiste con controricorso notificato in data 29 giugno 2005.

MOTIVI DELLA DECISIONE

4. Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione degli artt. 291, 156 e 164 c.p.c., art. 828 c.p.c., commi 1 e 2.
Si sostiene che l’impugnazione proposta avverso il lodo arbitrale era inammissibile, perché notificata nel domicilio eletto dalla parte nel procedimento arbitrale, e perché la rinnovazione della notificazione, avvenuta dopo il decorso del termine lungo per l’impugnazione, oltre che dopo il decorso del termine breve decorrente dalla notifica del lodo, non poteva sanare la decadenza dall’impugnazione nel frattempo intervenuta. Secondo il ricorrente, per il principio di auto^responsabilità, che impone di non gravare il notificante di conseguenze pregiudizievoli non collegate con attività dipendenti dalla sua sfera di disponibilità, il notificante che scelga il soggetto cui indirizzare la notifica di un atto dovrebbe rispondere dell’errore della relativa individuazione, senza la possibilità di godere di sanatoria indiscriminata ex tunc, allorquando usando dell’ordinaria diligenza avrebbe potuto rinnovare l’atto nel rispetto dei termini di decadenza.
4.1. Il motivo è infondato. Si deve premettere che il giudizio di impugnazione di lodo arbitrale è strutturato come giudizio di unico grado davanti alla corte d’appello (salvo il successivo ricorso per cassazione), e non già come giudizio di appello (proprio questa differenza è all’origine della nullità della notificazione eseguita presso il difensore domiciliatario a norma dell’art. 330 c.p.c.). L’art. 291 c.p.c, che prevede la rinnovazione della notificazione dell’atto introduttivo laddove il giudice ravvisi in essa un vizio che ne comporti la nullità, suscettibile di sanatoria ex art. 156 c.p.c., con l’effetto che la rinnovazione impedisce ogni decadenza, si applica dunque, nell’impugnazione di lodo arbitrale, direttamente, e non già in forza delle disposizioni in materia d’impugnazione, contenute nel titolo terzo del libro secondo del codice di rito.
4.2. Circa gli effetti della sanatoria si deve poi osservare quanto segue. Il vizio del quale si discute attiene alla notificazione dell’impugnazione del lodo arbitrale – perché eseguita presso il difensore domiciliatario nel procedimento arbitrale, invece che presso la parte personalmente – e non all’atto notificato, d’impugnazione del lodo, non toccando il suo contenuto, nel quale erano correttamente indicate le parti, e in particolare quella contro la quale è diretta l’azione, nonché il lodo oggetto dell’impugnazione e i motivi di questa. Nel sistema vigente, peraltro, la stessa nullità della citazione per assoluta incertezza del nome o del domicilio del convenuto, o delle persone che lo rappresentano o l’assistono (art. 163 c.p.c., n. 2) è suscettibile di sanatoria mediante rinnovazione della citazione nel termine perentorio indicato dal giudice, e la rinnovazione sana i vizi e gli effetti sostanziali e processuali della domanda, che si producono sin dal momento della prima notificazione (art. 164 cpv. c.p.c.). Non si può dunque dubitare che la nullità della mera notificazione dell’atto intrinsecamente immune da vizi sia sanata retroattivamente dalla sua rinnovazione nel termine assegnato a tal fine dal giudice, e che l’art. 291 c.p.c., laddove afferma che la rinnovazione impedisce ogni decadenza, si riferisca agli effetti sia sostanziali e sia processuali della domanda. La formulazione testuale della disposizione, tanto più se considerata in relazione al principio sancito dall’art. 164 c.p.c., che fa salva la stessa editio actionis nel caso già ricordato di nullità della vocatio in ius, non consente di limitare la sanatoria della nullità ai soli effetti conservativi delle facoltà processuali del convenuto contumace incolpevole.
La stessa disposizione, inoltre, avendo a presupposto di applicazione la nullità della notificazione dell’atto introduttivo – vizio che, diversamente dall’inesistenza, è suscettibile di sanatoria ex art.156 c.p.c. – non distingue tra i casi nei quali la nullità sarebbe imputabile al notificante – come, secondo il ricorrente, dovrebbe ritenersi nel caso di notificazione dell’impugnazione del lodo al difensore domiciliatario nel procedimento arbitrale – e quelli in cui il notificante sia esente da colpa. Da ciò consegue che l’errore del notificante non costituisce un criterio per delimitare l’area di applicazione della disposizione.
4.3. L’applicabilità dell’art. 291 c.p.c., comma 1, con specifico riferimento all’impugnazione del lodo arbitrale, è stata peraltro affermata ripetutamente da questa corte anche a sezioni unite (Sez. un. 3 marzo 2003 n. 3075, 2 aprile 2003 n. 5074 e succ. conformi delle sezioni semplici), e, per le ragioni appena indicate, non si ravvisano negli argomenti svolti dal ricorrente validi motivi per discostarsi dall’orientamento consolidato.
5. Con il secondo motivo si denuncia l’erroneità dell’interpretazione secondo cui il divieto di arbitrato, introdotto dall’art. 3, comma 2 del d.l. 11 giugno 1998 n. 180. convertito in legge dalla L. 3 agosto 1998, n. 267, si applicherebbe anche alla realizzazione dei programmi edilizi di cui al titolo 8^ L. n. 219 del 1981.
5.1. Il motivo è infondato. Su tutte le complesse questioni sollevate dal consorzio ricorrente questa corte ha già avuto modo di pronunciarsi in altro giudizio (v. Cass. 3 giugno 2010 n. 13464), e il ricorso non offre ragioni sostanzialmente diverse da quelle già esaminate, e in quella sede respinte. Deve pertanto ribadirsi che, in tema di controversie relative ad appalti di opere pubbliche, la distinzione, nell’ambito della L. 14 maggio 1981, n. 219, dei provvedimenti organici per la ricostruzione e lo sviluppo dei territori colpiti da calamità naturali dall’intervento statale per l’edilizia residenziale per […] non comporta una diversità di disciplina relativamente alla facoltà di accesso all’arbitrato; ne consegue che, come precisato dal D.L. 7 febbraio 2003, n. 15, art. 1, comma 2 quater (convertito con modificazioni nella L. 8 aprile 2003, n. 62), alle controversie derivanti dall’esecuzione di opere pubbliche nell’ambito di programmi di ricostruzione nei territori colpiti da calamità naturali, compresi quelli di cui al titolo Vili della L. n. 219 del 1981, continua ad applicarsi il divieto di deferimento ad arbitri previsto dal D.L. 11 giugno 1998, n. 180, art.3, comma 2 (convertito con modificazioni dalla L. 3 agosto 1998, n.267), dovendosi ritenere che tale disposizione, avente carattere speciale, non sia stata abrogata dalla L. 11 febbraio 1994, n. 109, art. 32, comma 4 bis (introdotto dalla L. 1 agosto 2002, n. 166, art.7, comma 7, lett. v), e che il citato art. 1, comma 2 quater, contenga una norma interpretativa, avente efficacia retroattiva.
6. Con il terzo motivo, denunciando la violazione o falsa applicazione dell’art. 806 c.p.c. e delle norme sull’autonomia contrattuale alla luce degli artt. 3, 24, 41 e 111 Cost., si deduce che la normativa sul divieto dell’arbitrato dovrebbe essere correttamente intesa nel senso dell’impossibilità di sottoscrizione di nuove clausole compromissorie o nuovi compromessi, e non anche, con effetto retroattivo, nel senso dell’inibizione della valida costituzione di collegi arbitrali sulla scorta di clausole compromissorie già vigenti tra le parti con “forza di legge” con riferimento alla legge vigente all’epoca della detta sottoscrizione. A favore di questa conclusione militerebbero la tutela dell’affidamento nella sicurezza giuridica e il fondamento costituzionale dell’arbitrato.
6.1. Anche questo motivo è infondato. La sopravvenienza del divieto di arbitrato nella materia di cui si tratta non ha avuto l’effetto di rendere retroattivamente nulla la clausola compromissoria originariamente valida del contratto, ma, analogamente a quanto questa corte ha ritenuto in casi analoghi di rapporti di durata, nei quali sopravvengano norme che incidono sull’autonomia negoziale dei privati, esclusivamente quello di sancirne l’inefficacia per il futuro (cfr. Cass. 29 agosto 2005 n. 9099 in materia di applicazione della legge sulla trasparenza bancaria alla fideiussione omnibus; non diversa, del resto, è la soluzione offerta, sul punto, da Cass. 18 settembre 2003 n. 13739, ricordata dallo stesso ricorrente, in tema di interessi ultralegali). Non può conseguentemente porsi alcun problema di retroattività, o di ragionevolezza della supposta deroga all’art. 11 preleggi. La disposizione contenuta nel cit. D.L. n. 180 del 1992, art. 3, comma 2, lo prevede del resto espressamente, facendo salvi i lodi già emessi, e le domande di arbitrato già proposte alla data di entrata in vigore del decreto. La disposizione – che venendo incontro all’esigenza di chiarezza sulla disciplina intertemporale, nella quale il legislatore dispone di poteri discrezionali, non può essere giudicata inutile per il solo fatto di applicare il principio tempus regit actum – non può essere forzata fino al punto da far salvi anche per l’avvenire i compromessi e le clausole compromissorie già stipulati, e intenzionalmente non considerati.
6.2. Neppure si può sostenere che l’alterazione dell’equilibrio contrattuale previsto originariamente dalle parti implicherebbe in questo caso un conflitto irriducibile con norme costituzionali, sì da imporre un’interpretazione diversa, costituzionalmente orientata, più di quanto ciò non avvenga in ogni altro caso in cui una disposizione di legge, introducendo un limite all’autonomia privata, incida su diritti soggettivi già venuti ad esistenza. È necessario ricordare che il principio costituzionale di portata generale, che viene in considerazione a questo riguardo, è quello che riserva l’esercizio della funzione giurisdizionale a magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario (art.102 Cost.), al quale si collega quello per il quale nessuno può essere distolto dal giudice naturale “precostituito per legge” (art.25 Cost.). L’estensione dell’autonomia privata alla compromissione in arbitri, ponendosi in deroga ai principi appena ricordati, richiedeva una giustificazione in altre norme della Costituzione, e tale giustificazione è stata individuata nell’art. 24 Cost., considerando la scelta dell’arbitrato come uno dei possibili modi di disporre, “anche in senso negativo”, del diritto di cui all’art. 24 Cost., comma 1 (Corte Cost. sent. n. 127 del 1977). Non altrettanto pertinente è invece il richiamo all’art. 41 Cost., perché, anche a non considerare che nella fattispecie di causa sono direttamente coinvolti interessi pubblici, l’area di applicazione dell’art. 806 c.p.c., eccede largamente quella dell’iniziativa economica privata.
Ora, il fatto che l’art. 806 c.p.c., pur contraddicendo gli artt. 102 e 25 Cost., sia giustificato sul piano costituzionale dall’art. 24 Cost., non comporta che ogni limitazione dell’arbitrato costituisca una violazione dell’art. 24 Cost.. La Corte costituzionale, infatti, ha avuto cura di chiarire che “la discrezionalità di cui il legislatore sicuramente gode nell’individuazione delle materie sottratte alla possibilità di compromesso incontra il solo limite della manifesta irragionevolezza” (Corte cost. sent. n. 376 del 2001). La stessa corte, nel ribadire costantemente che fondamento dell’arbitrato può essere esclusivamente la volontà delle parti e non la legge, ha inteso – nei casi nei quali il problema si era posto concretamente al suo esame, e nei quali quella giurisprudenza si è formata – limitare l’intervento del legislatore diretto ad imporre, e non già a vietare il procedimento arbitrale.
In particolare, l’assunto secondo il quale il procedimento arbitrale sarebbe presidiato dal principio costituzionale del giusto processo, come definito dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti e delle libertà fondamentali e dall’art. 111 Cost., si basa su affermazioni della Corte delle leggi di cui è sostanzialmente disconosciuto il senso chiaramente evincibile dal contesto. Nella giurisprudenza costituzionale si rinviene bensì l’affermazione che – a seguito del congiunto disposto dell’art. 24 Cost., comma 1 (diritto di azione in giudizio e correlativo esercizio, costituzionalmente garantiti) e art. 102 Cost., comma 1 (riserva della funzione giurisdizionale ai giudici ordinari, salve le eccezioni di cui all’articolo seguente) – il fondamento di qualsiasi arbitrato è da rinvenirsi nella libera scelta delle parti: perché solo la scelta dei soggetti può derogare al precetto contenuto nell’art. 102 Cost., comma 1. Ma tale affermazione, con la connessa citazione dell’art. 6 della Convenzione europea (alla quale può ora aggiungersi quella dell’art. 111 Cost.) è sempre in funzione del principio affermato dalla Corte, che l’arbitrato non può essere imposto con legge ordinaria perché si traduce in una sottrazione alla giurisdizione ordinaria, laddove il costituente ha voluto tutelare la concentrazione della funzione giurisdizionale sia nei confronti delle giurisdizioni speciali sia contro altri congegni di sostanziale svuotamento quale l’arbitrato, che non offre le medesime garanzie della giurisdizione ordinaria (Corte cost., sent. n. 127 del 1977).
6.3. Deve pertanto escludersi che la scelta del legislatore, di precludere alla pubblica amministrazione il ricorso al procedimento arbitrale nelle materie considerate, sia manifestamente irragionevole, avendo la corte delle leggi già autorevolmente chiarito, con una valutazione che non è formalmente vincolante ma che questa Corte condivide, che, considerato il rilevante interesse pubblico di cui risulta permeata la materia relativa alle opere di intervento nei territori colpiti da calamità naturali, anche in ragione dell’elevato valore delle relative controversie e della conseguente entità dei costi che il ricorso ad arbitrato comporterebbe per le pubbliche amministrazioni interessate, non è ravvisabile alcuna irragionevolezza nel divieto di arbitrato.
6.4. In conclusione devono essere considerate le pronunce con le quali la Corte costituzionale ha già dichiarato la questione di costituzionalità del D.L. 11 giugno 1998, n. 180, art. 3, comma 2, convertito, con modificazioni, in L. 3 agosto 1998, n. 267, e del D.Lgs. 20 settembre 1999, n. 354, art. 8, comma 1, lett. d), infondata in riferimento agli artt. 3 e 24 nonché – per il supposto eccesso di delega nel D.Lgs. n. 354 del 1999, art. 8, comma 1, lett. d) – art. 76 Cost. (sent. n. 376 del 2001), manifestamente infondata in relazione all’art. 25 Cost. (ord. n. 122 del 2003), e ancora manifestamente infondata in riferimento agli artt. 2, 25, 41 e 97 Cost. (ord. n. 11 del 2003). Tenuto conto di tali pronunce, e sulla base delle premesse già illustrate in ordine all’interpretazione della norma e all’estensione della sua area di applicazione, non si ravvisa alcuna questione di costituzionalità delle disposizioni in esame, che non sia manifestamente infondata.
7. Al rigetto del ricorso segue […]