Corte di Cassazione, Sez. 3, Sentenza n. 12245 del 1998, dep. il 2/12/1998

[…]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

[…], assumendo di essere proprietario di un fabbricato in […], sul quale la […] s.p.a. aveva collocato abusivamente delle apparecchiature telefoniche, conveniva la predetta innanzi al giudice di pace di Vitulano, per sentirla condannare, accertata l’illegittimità delle installazioni, al risarcimento del danno. La convenuta deduceva l’infondatezza della domanda, chiedendone il rigetto, giacché le apparecchiature erano al servizio del […]o, titolare di utenza telefonica, e pertanto, ai sensi dell’art. 232 del DPR 29 marzo 1973 n. 156, l’attore non aveva diritto ad alcuna indennità e ancor meno al chiesto risarcimento.
Con sentenza n. 1 del 3 ottobre 1995 il giudice adito ha accolto la domanda e condannato la […] a pagare all’attore, a titolo di risarcimento, lire 1.300.000, oltre agli interessi legali dalla domanda.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre la società soccombente, sulla base di cinque motivi.
Resiste con controricorso l’intimato.
La ricorrente ha depositato una memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

È preliminare il rilievo della infondatezza dell’eccezione di inammissibilità del ricorso, a sostegno della quale il resistente, premesso che è stato sottoscritto il 21 novembre 1995 dagli avvocati […], muniti di mandato giusta procura speciale autenticata dal notaio […] il successivo 28 novembre 1995, sostiene che la procura speciale di cui all’art. 365 c.p.c. dev’essere, a pena di nullità, anteriore o coeva alla sottoscrizione e non alla notificazione dell’atto.
Si può facilmente rispondere, in primo luogo, che, avendo la ricorrente menzionato la procura speciale del 28 novembre 1995 (rilasciata per l’appunto in tale data, col n. di rep. 115783) nel preambolo del ricorso, questo non può essere stato redatto e sottoscritto se non dopo il rilascio della procura, sicché l’indicazione, in calce al medesimo, della data del 21 novembre 1995 è dovuta a un semplice errore materiale.
In secondo luogo la data della redazione e sottoscrizione del ricorso è giuridicamente, dal punto di vista processuale, indifferente, giacché come è del resto desumibile dal coordinato disposto del 2 e 3 comma dell’art. 125 c.p.c., è necessario e sufficiente che la procura speciale sia anteriore o coeva alla notificazione dell’atto, la quale coincide con l’instaurazione del rapporto processuale d’impugnazione, avvenuta, nel presente giudizio, il 6 dicembre 1995 (cfr. Cass. 7 aprile 1997 n. 2970; 30 gennaio 1997 n. 927; 4 dicembre 1996 n. 10813; 20 settembre 1996 n. 8372).
Col primo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione di legge, la nullità della sentenza e del procedimento nonché il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 n. 3, 4 e 5 c.p.c., in relazione agli artt. 311, 319 e 320 comma 3 e 4 c.p.c., 71, 72, 73 e 74 disp. att., 165 comma 1 , c.p.c. ai principi generali del codice di rito, all’art. 24 della Costituzione e al fondamentale principio del contraddittorio, la ricorrente sostiene che l’attore, all’atto della costituzione in cancelleria, aveva l’obbligo di depositare i documenti offerti in comunicazione. Viceversa la relazione tecnica di parte e il titolo di proprietà furono depositati solo nella seconda udienza del 19 settembre 1995, nella quale il giudice di pace ritenne la causa matura per la decisione e la trattenne a sentenza, violando il contraddittorio, perché la società non fu messa in grado di controdedurre alla documentazione soltanto allora prodotta.
Dall’art. 320 c.p.c. si desume inoltre che la parte ha l’onere di produrre e chiedere i mezzi di prova in sede di costituzione o al massimo nella prima udienza, a pena di decadenza. L’udienza successiva è infatti prevista solo per le produzioni o per la richiesta di prove diverse da quelle già offerte in comunicazione rese necessarie dalle attività svolte dalle parti nella prima udienza e non per sanare precedenti decadenze o rimediare a precedenti errori processuali.
Queste censure non hanno pregio.
Avendo depositato il titolo di proprietà il 1 giugno 1995 al momento della costituzione in cancelleria (art. 319 1 comma c.p.c., come sost. dall’art. 28 della legge 21 novembre 1991 n. 374, istitutiva del giudice di pace), nella seconda udienza del 19 settembre 1995, come attesta la stessa sentenza (p. 3 e 4), l’attore depositò solo la consulenza tecnica di parte, con allegato l’estratto catastale; per cui l’asserita decadenza concernerebbe solo la produzione di quest’ultimo documento.
Tuttavia dalla motivazione della sentenza impugnata (nella qual è solo detto, genericamente e senza alcun esplicito e diretto riferimento a determinate fonti di prova, che “l’istruttoria” avrebbe “dato prevalente conferma ai fatti allegati dall’attore”) non si evince che il predetto documento abbia avuto una qualche influenza nella decisione, posto che, come meglio si spiegherà in seguito, questa non è ancorata ad alcuna descrizione dello stato dei luoghi ne’ del percorso o della destinazione dei cavi che si assumono installati dalla società concessionaria sull’immobile dell’attore. Data la ritualità della produzione del primo documento (peraltro, bisogna aggiungere, nemmeno decisivo al fine dell’accoglimento della domanda, giacché della proprietà dell’immobile il giudice di pace nella motivazione non si occupa affatto ne’ menziona alcun titolo, ragion per cui non è dato sapere se l’abbia ritenuta, per implicito, ininfluente, ovvero, a torto o a ragione, incontestata, ovvero ancora positivamente dimostrata) e l’irrilevanza, nell’economia della motivazione, del secondo, di nulla la ricorrente ha interesse a dolersi, restando così assorbita ogni altra questione sollevata col motivo in esame.
Col secondo motivo, deducendo la violazione e falsa applicazione di legge, la nullità della sentenza e del procedimento, nonché il vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 n. 3, 4 e 5 c.p.c., in relazione agli artt. 152, 154, 180 2 comma (seconda parte), 183 comma 5 , 184, 311 e 320 c.p.c., 24 e 100 Cost., e al principio del contraddittorio, la ricorrente afferma che il termine assegnato dal giudice di pace per il deposito delle note (4 settembre 1995) era perentorio ne’ fu comunque prorogato prima della scadenza. Illegittimamente perciò il giudice di pace consentì all’attore l’esibizione oltre tale termine, impedendo alla società di replicare.
Nemmeno questa censura è meritevole di accoglimento.
Come è pacifico, il giudice di pace concesse alle parti un termine fino al 4 settembre 1995 per il deposito di note e tale termine, giammai prorogato, non fu rispettato dall’attore, il quale depositò le note solo il 16 settembre 1995.
Poiché, in forza del rinvio disposto dall’art. 311 c.p.c., al procedimento innanzi al giudice di pace si applicano, per tutto ciò che non è espressamente regolato, le norme del procedimento innanzi al tribunale, deve riconoscersi al giudice di pace la facoltà di autorizzare, a norma dell’art. 180 2 comma (seconda parte) c.p.c., il deposito di difese scritte, entro un termine discrezionalmente fissato, che nessuna norma definisce perentorio e che pertanto deve intendersi ordinatorio (art. 152 2 comma c.p.c.). Ne consegue che l’attore, depositando in ritardo le note, non è incorso in alcuna decadenza, atteso il principio che l’atto posto in essere dopo la scadenza del termine ordinatorio resta pienamente valido (Cass. 2 settembre 1995 n. 9288; 5 maggio 1990 n. 3748; 22 febbraio 1988 n. 1835; 16 luglio 1968 n. 2566). Naturalmente potrebbe configurarsi nella predetta inosservanza una violazione del principio del contraddittorio, qualora circostanze di fatto o argomenti esposti nelle note dall’attore fossero stati recepiti nella sentenza impugnata, ma di ciò non si duole la ricorrente, la quale non può nemmeno legittimamente addurre di non aver potuto replicare, giacché, quando il giudice, non valendosi della facoltà di assegnare per il deposito termini diversi (art. 83 bis disp. att. C.p.c.), fissi un termine unico per ambo le parti, la replica non è ammessa.
Col terzo mezzo (violazione e falsa applicazione di legge, nullità della sentenza e del procedimento, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi, ai sensi dell’art. 360 n. 3, 4 e 5 c.p.c., in relazione agli artt. 24, 101 comma 2 , 87 e 111 della Cost., 4 e 5 della l. 20 marzo 1865 n. 2248 All. E, 113 2 comma, 132 n. 4 c.p.c. e 118 disp. att. E 2043 c.c.) la ricorrente rileva come il giudice di pace, giudicando secondo equità, non possa violare le norme della Costituzione o i principi fondamentali dell’ordinamento o del rapporto dedotto in causa ne’ le disposizioni sostanziali di natura imperativa e inderogabile o comunque poste a tutela di interessi generali, come per l’appunto l’art. 232 del T.U. 29 marzo 1973 n. 156, in base al quale il proprietario non può chiedere alcun indennizzo o risarcimento per le apparecchiature telefoniche installate per soddisfare la sua richiesta di utenza. Erroneamente poi il giudice di pace ritiene essere il cit. DPR un atto di normazione secondaria, da disapplicare, qualora dovesse prevedere la possibilità di una servitù coattiva di telefonia, perché contrastante col principio codicistico del “numerus clausus” delle servitù coattive, atteso che il T.U., compilato su delega conferita al Governo con l’art. 6 della l. 20 ottobre 1970 n. 775 ed emanato dal Presidente della Repubblica ai sensi dell’art. 87 della Costituzione, ha valore di legge ordinaria e speciale, salva, s’intende, la possibilità per il giudice di pace di sollevare una questione di illegittimità costituzionale.
Con la quarta censura, denunziando il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo (art. 360 n. 5 c.p.c., in relazione agli artt. 132 n. 4 c.p.c. e 118 disp. att.), la ricorrente lamenta come il giudice di pace non abbia fornito alcuna spiegazione in ordine ai criteri adottati per pervenire alla conclusione che sia dovuto un risarcimento per l’uso di una parte del fabbricato dell’attore, resosi necessario non per fornire il servizio telefonico a terzi (circostanza questa che non ha trovato conferma alcuna nell’istruttoria) bensì per fornirla allo stesso attore.
Col quinto motivo infine la […], deducendo la violazione e falsa applicazione di legge, la nullità della sentenza e del procedimento e il vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 n. 3, 4 e 5 c.p.c., in relazione agli artt. 101 Cost., 115 e 116 c.p.c. e ai principi fondamentali in tema di istruzione probatoria, assume che il giudice di pace ha fatto indebito ricorso ai fatti notori, i quali non si identificano certo con le conoscenze personali del giudice; e nella specie il giudice di pace non poteva sapere, in mancanza di qualsiasi istruttoria al riguardo, se sul fabbricato dell’attore esistessero apparecchiature telefoniche ne’ tantomeno se queste servissero l’utente proprietario o inquilini o condomini o anche terzi utenti, atteso che trattasi di uno specifico giudizio tecnico e la consulenza tecnica non fornisce lumi in proposito. Nel caso presente la controparte non ha fornito alcuna prova dei fatti dedotti in giudizio ma è solo emerso che le apparecchiature servono l’utente proprietario; e peraltro le stesse prove articolate non erano idonee a dimostrare che le apparecchiature in questione servano anche altri utenti diversi dal proprietario o dagli inquilini o condomini. Giova ribadire, conclude la ricorrente, che le limitazioni legali della proprietà in materia di telecomunicazioni sono disciplinate dall’art. 232 del T.U. cit. in base al quale, quando le condutture servono il proprietario utente, non è dovuta alcuna indennità ne’ è configurabile in tal caso un’illecita installazione che possa esser fonte di risarcimento del danno.
Queste ultime tre censure, da esaminare per le loro connessioni, in un unico contesto, appaiono, nei sensi che saranno appresso precisati, fondate e quindi meritevoli di accoglimento. L’art. 232 del D.P.R. 29 marzo 1973 n. 156, disciplinando le “limitazioni legali” connesse agli impianti di telecomunicazioni, dispone, al secondo comma, che “il proprietario o il condominio non può opporsi all’appoggio di antenne, di sostegni, nonché al passaggio di condutture, fili o qualsiasi altro impianto nell’immobile di sua proprietà occorrente per soddisfare le richieste di utenza degli inquilini o dei condomini”. Soggiunge l’ultimo comma del medesimo articolo che in tal caso “al proprietario non è dovuta alcuna indennità”.
A norma del successivo art. 233, “fuori dei casi previsti dall’articolo precedente, le servitù occorrenti al passaggio con appoggio dei fili, cavi ed impianti connessi (…) sono imposte, in mancanza del consenso del proprietario (…), con decreto del prefetto, ai sensi dell’art. 46 della legge 25 giugno 1865 n. 2359”. L’indennità da pagarsi al proprietario per l’imposizione della servitù va calcolata “in base all’effettiva diminuzione del valore del fondo, all’onere che ad esso si impone ed al contenuto della servitù (art. 234 DPR cit.).
A norma infine dell’art. 95 del regolamento approvato con R.D. 19 luglio 1941 n. 1198, ancora in vigore, il richiedente l’abbonamento al servizio telefonico, che sia anche proprietario dell’immobile in cui deve installarsi il telefono, ha l’obbligo di concedere gratuitamente all’esercente il servizio telefonico l’appoggio e il passaggio nel fondo di sua proprietà per i sostegni e le condutture telefoniche occorrenti.
In tale ultimo caso nessuna servitù è invero concepibile, in quanto, essendo l’appoggio e il passaggio indispensabili per fornire un servizio nell’interesse esclusivo del proprietario del fondo e da lui richiesto, alla costituzione della servitù osterebbe il principio “nemini res sua servit”.
Anche del secondo comma dell’art. 232 cit. è facile rinvenire la “ratio” considerando per quanto riguarda il rapporto tra il proprietario e l’inquilino, che il primo deve consentire al secondo il pieno godimento dell’immobile locato (l’uso del telefono rientrando indubbiamente in tale pienezza di godimento); e, per quanto riguarda il rapporto tra il proprietario e il condominio, che in base all’art. 1102 c.c. i comproprietari debbono consentire l’uso particolare che della cosa comune ognuno di loro voglia fare, fin quando detto uso non rechi loro danno ovvero non impedisca loro un uso consimile.
Dal complesso coordinato di tutte le disposizioni citate si desume che, quando una conduttura (o un filo o un cavo) passante attraverso un fondo sia destinata al servizio, oltre che del proprietario del fondo medesimo, anche di utenti vicini, essa costituisce, per la parte di servizio resa a questi ultimi, oggetto di un diritto di servitù; non potendo certo ammettersi che, dovendo il proprietario del fondo consentire gratuitamente il “passaggio con appoggio” attraverso il proprio fondo delle condutture telefoniche necessarie a collegare il proprio apparecchio telefonico, debba per ciò stesso consentire, sempre gratuitamente, la destinazione di esso al collegamento anche di apparecchi telefonici di terzi proprietari o inquilini di immobili vicini, nonché il passaggio sul proprio fondo delle diramazioni a ciò necessarie. Beninteso, dovendo l’indennità essere proporzionata al sacrificio imposto al proprietario, essa non avrebbe ragione di essere corrisposta nel solo caso che la conduttura installata al servizio di terzi, oltre che del proprietario del fondo attraverso cui passa, non comporti per lui alcun sacrificio economicamente apprezzabile (cfr., per tutto quanto fin qui esposto, Cass. 22 gennaio 1988 n. 481). L’art. 233 cit., che prevede la costituzione della servitù di telefonia solo per contratto o per atto amministrativo autoritativo, esclude per converso che la società concessionaria del servizio possa invocare la disciplina dell’art. 1032 c.c. in tema di costituzione di servitù coattive,la cui tipicità (“numerus clausus”) non ne permette l’estensione fuori dei casi espressamente considerati (Cass. S.U. 16 gennaio 1986 n. 207). Qualora infine la società concessionaria del servizio telefonico, installando sull’altrui proprietà cavi, appoggi o altre apparecchiature destinate, in assenza dei due soli ricordati titoli legittimanti, anche o esclusivamente al servizio di terzi proprietari o inquilini di altri immobili, imponga, in via di fatto, un peso corrispondente all’esercizio di una servitù di telefonia, incorre in un’attività lesiva del diritto di proprietà. Un siffatto comportamento legittima il privato a chiedere il risarcimento del danno per l’indebita compressione del suo diritto dominicale e, se non sia nemmeno assistito da piani esecutivi debitamente approvati e dichiarati di pubblica utilità ai sensi dell’art. 185 del D.P.R. cit., e non sia quindi ricollegabile all’esercizio di poteri autoritativi della pubblica amministrazione, ad agire altresì per la rimozione delle opere abusive (cfr. Cass. S.U. 26 luglio 1994 n. 6962; 19 gennaio 1991 n. 517; 16 gennaio 1986 n. 207 cit. e 3 ottobre 1989 n. 3963, quest’ultima in tema di elettrodotto).
Premessa questa sommaria ma indispensabile esposizione dei principi di diritto regolanti la servitù di telefonia, deve riconoscersi che il giudice di pace, giudicando secondo equità, ha ammesso l’attore al risarcimento del danno, liquidato in lire 1.300.000, senza rendere conto del procedimento logico attraverso cui è pervenuto al riconoscimento di tale diritto, ma solo genericamente osservando, in apertura della motivazione, “che l’istruttoria ha dato prevalente conferma ai fatti allegati dall’attore”, ad avviso del quale ultimo, come riferito nella parte narrativa della sentenza impugnata, le apparecchiature telefoniche installate dalla convenuta sarebbero “utilizzabili non solo dallo stesso proprietario dell’immobile ma anche da altri utenti”.
Il giudicante dunque non solo non ha chiarito da quale fonte probatoria abbia appreso della presenza, contestata dalla controparte, di cavi destinati anche al servizio di “altri utenti”, ma, ciò che ancora più conta, non ha spiegato chi siano eventualmente questi “altri utenti”; se cioè siano condomini o inquilini del medesimo immobile (come al più sembra disposta ad ammettere la ricorrente) o siano invece terzi estranei, proprietari o inquilini di altri immobili, atteso che solo in quest’ultimo caso sarebbe configurabile, in danno dell’immobile dell’attore, l’imposizione di una servitù di fatto potenzialmente produttiva di un danno risarcibile, nessun comportamento illegittimo essendo altrimenti imputabile alla società concessionaria e corrispondentemente nessun ristoro patrimoniale potendo essere riconosciuto all’attore.
Seppure si voglia ritenere che, in base alla nuova formulazione dell’art. 113 2 comma c.p.c., il giudice di pace, nel decidere secondo equità le cause di valore non eccedente i due milioni, non sia più obbligato all’osservanza, come già il conciliatore, dei “principi regolatori della materia”, ossia delle linee essenziali e qualificanti dei singoli istituti o rapporti giuridici dedotti in causa, è certo e indubitabile che egli, oltre ad essere vincolato alle norme processuali, non può essere ritenuto libero da ogni condizionamento ricavabile dal sistema e imposto dal principio di legalità, non potendo la giurisdizione di equità porsi in contrasto, per lo meno, con le norme della Costituzione e con i principi generali dell’ordinamento (limite peraltro ritenuto senza contrasti insito nella stessa giurisdizione di equità del conciliatore anche prima del correttivo imposto all’art. 113 2 comma c.p.c., con la salvezza dei “principi regolatori della materia”, dall’art. 3 della legge 30 luglio 1984 n. 399; cui la giurisprudenza aggiungeva l’ulteriore limite del rispetto delle norme imperative stabilite a tutela di interessi generali: Cass. 19 febbraio 1981 n. 1039). Orbene, non è dubbio che rientri tra i principi generali dell’ordinamento quello dell’art. 2043 c.c. (norma per l’appunto codificata, anche dal punto di vista letterale, come disposizione di principio o clausola generale di responsabilità, abbisognevole, per essere applicata, di una concreta traduzione in singole fattispecie), per cui può pretendere di essere risarcito soltanto colui che abbia subito, ad opera di un terzo, per dolo o colpa, un danno ingiusto: il quale ultimo, nella materia della telefonia, è ricavabile “e contrario” dalle disposizioni dei già cit. artt. 232 e 233 del D.P.R. n. 156 del 1973, a norma dei quali la società concessionaria agisce “non jure” e “contra jus” soltanto quando, senza il consenso del proprietario e senza l’atto amministrativo autoritativo, imponga all’altrui proprietà un peso destinato a favore di terzi estranei, diversi cioè tanto dall’utente richiedente il servizio (art. 95 Reg. cit.) quanto dai condomini o inquilini del medesimo stabile.
Applicando un risarcimento per un preteso danno ingiusto, senza previamente accertare la sussistenza di questo, ossia l’illecita imposizione, sull’immobile dell’attore, di un peso al servizio (anche) di terzi estranei, il giudice di pace da un lato ha omesso di giustificare, in punto di fatto, sul tema essenziale della controversia, le ragioni del suo convincimento, con un chiaro vizio di motivazione non semplicemente insufficiente ma addirittura inesistente (cfr. in relazione alle sentenze del conciliatore, Cass.2 maggio 1996 n. 4011); dall’altro ha disatteso il ricordato principio fondamentale dell’ordinamento, così incorrendo nei due errori, intimamente connessi, di attività processuale e di esorbitanza dai confini naturali della giurisdizione di equità, sostanzialmente denunciati dalla ricorrente e tali da imporre la cassazione della sentenza.
Resta così assorbita ogni altra questione, inclusa quella della natura giuridica del T.U. approvato col D.P.R. n. 156 del 1973, che il giudice di pace, in forma dubitativa e senza alcuna influenza sul “decisum” oggi censurato, sembra ritenere un atto di normazione secondaria, e che invece è bene sottolineare, racchiude una normativa avente forza e valore di legge ordinaria, ai sensi degli artt. 76, 77 1 comma e 87 5 comma Cost., in quanto emanato dal potere esecutivo in base alla delega conferitagli con l’art. 4 della legge 18 marzo 1968 n. 249, come sost. dall’art. 6 della legge 28 ottobre 1970 n. 775.
Quale giudice di rinvio si designa […]