Corte Cass., Sez. 1, Sent. n. 10161 del 2016, dep. 18/05/2016

[…]

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di impugnazione l’Istituto di credito deduce, ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’ art. 21 del D.Lgs. n. 58 del 1998 (TUF), nonché degli artt. 28 e 29 Reg. Consob n. 11522 del 1° luglio 1998. Contesta che la Corte d’Appello avrebbe errato nel considerare insufficiente, ai fini dell’adempimento degli obblighi di informazione gravanti sull’Istituto di credito, la frase “si conferma l’operazione non adeguata, come da voi comunicato”, contenuta nel modello di ordine predisposto dalla banca e sottoscritto dal cliente. A parere della ricorrente, avrebbe quindi ritenuto che unica forma consentita per fornire le doverose informazioni in merito all’adeguatezza dell’investimento fosse quella scritta.

Il motivo è infondato.

La Corte territoriale ha preso atto che gli ordini di acquisto sottoscritti da […] presentavano la specifica approvazione per iscritto, diretta a “confermare l’operazione non adeguata come da Voi comunicato”; ma ha nondimeno condiviso la decisione di prime cure secondo cui una simile informazione era insufficiente allo scopo di legge. Al riguardo, merita conferma il valore attribuito in sentenza al rilievo formale che la relativa casella sull’ordine di acquisto non risultava neppure barrata; come pure a quello sostanziale che le espressioni innanzi riportate si risolvevano in mera clausola di stile, che “non dà sufficiente contezza di ciò che è stato effettivamente riferito al cliente in rapporto all’operazione domandata … manca la prova – íncombente sulla banca intermediaria – prima di dare attuazione ad un ordine, ancorché scritto, di aver fornito all’investitore un’informazione adeguata in concreto”. Il principio di diritto della non rispondenza della condotta della banca al paradigma normativo appare dunque correttamente enunciato. La Banca, per contro, non ha provato – e neppure ha chiesto di provare – che un’idonea informazione fosse stata fornita, in concreto, all’investitore: apparendo la formula riassuntiva ricordata, sottoposta all’investitore e da lui sottoscritta, senz’altro inadeguata a tal fine. Questa Corte ha avuto occasione di precisare che la dichiarazione resa dal cliente, su modulo predisposto dalla banca e da lui sottoscritto, della propria consapevolezza, in virtù delle informazioni ricevute, della rischiosità dell’investimento, inadeguato rispetto al suo stesso profilo di investitore, può acquisire efficacia esimente, attestando l’avvenuto assolvimento dell’obbligo di informazione incombente sull’intermediario, solo quando l’investitore abbia sottoscritto un testo recante indicazioni specifiche delle avvertenze ricevute: sia sulla mancata quotazione del titolo, sia sulla non rispondenza alla scelta prudenziale

degli investimenti fino ad allora effettuati (Cass. sez. I, sent. 6.3.2015, m. 4620).

Con il secondo motivo si censura, ancora ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’ art. 21 del D.Lgs. n. 58 del 1998 (TUF), e dell’ artt. 28 Reg. Consob n. 11522 del 1° luglio 1998: sotto il profilo che la Corte distrettuale avrebbe errato nel confermare l’affermazione di responsabilità anche per omessa informazione sull’andamento delle obbligazioni dello Stato argentino, in epoca successiva all’acquisto.

Assume la ricorrente che la Corte d’Appello sarebbe incorsa in una “clamorosa violazione e falsa applicazione degli art. 21 TUF e 28, Regolamento Intermediari”, confondendo gli obblighi che gravano sull’intermediario in sede di negoziazione dei titoli con quelli che sullo stesso gravano nella fase successiva all’acquisto, pretendendo di imporre “all’intermediario un onere di analisi nel continuo degli investimenti effettuati dai propri clienti con l’obbligo di attivarsi per sollecitare il cliente ad un’operazione di dísinvestimento“: nonostante l’art. 28 del Regolamento Intermediari Consob preveda simili obblighi solo in relazione al compimento di un’operazione avente ad oggetto strumenti derivati o warrants, oppure nel caso in cui sia in corso con il cliente un rapporto di gestione di portafoglio. Benché fondata, sul piano astratto del principio di diritto, la censura non appare idonea ad infirmare la decisione impugnata. E’ da escludere infatti che sia predicabile, in tesi generale, un obbligo di informazione successivo alla concreta erogazione del servizio, invocando il disposto di cui all’art. 21, comma 1, lettera b) del D.Lgs, n. 58 del 1998 (TUF), secondo cui l’intermediario deve operare in favore dei propri clienti “in modo che essi siano sempre adeguatamente informati”: sul presupposto che l’avverbio “sempre”, utilizzato dal legislatore, imponga all’intermediario un costante monitoraggio sulle fluttuazioni dei titoli acquistati suo tramite, al fine di suggerirne, con tempestività, l’eventuale disinvestimento. L’apparente latitudine della norma va, per contro, circoscritta all’ipotesi di un contratto di servizio di gestione del portafoglio o un servizio di consulenza (arti., comma 5 lett.d e art.6 lett. f, T.U.F.: Cass., sez.1 30 gennaio 2013 n.2185), o per operazioni in strumenti derivati e warrants e per le gestioni patrimoniali – nella specie, non allegate – sulla base del Regolamento intermediari Consob integrativo della norma primaria (art.28, terzo e quarto comma: Gli intermediari autorizzati informano prontamente e per iscritto l’investitore appena le operazioni in strumenti derivati e in warrant da lui disposte per finalità diverse da quelle di copertura abbiano generato una perdita, effettiva o potenziale, pari o superiore al 50% del valore dei mezzi costituiti a titolo di provvista e garanzia per l’esecuzione delle operazioni. Il valore di riferimento di tali mezzi si ridetermina in occasione della comunicazione all’investitore della perdita, nonché in caso di versamenti o prelievi. Il nuovo valore di riferimento è prontamente comunicato all’investitore. In caso di versamenti o prelievi è comunque comunicato all’investitore il risultato fino ad allora conseguito. Gli intermediari autorizzati informano

prontamente e per iscritto l’investitore ove il patrimonio affidato nell’ambito di una gestione si sia ridotto per effetto di perdite, effettive o potenziali, in misura pari o superiore al 30% del controvalore totale del patrimonio a disposizione alla data di inizio di ciascun anno, ovvero, se successiva, a quella di inizio del rapporto, tenuto conto di eventuali con ferimenti o prelievi. Analoga informativa dovrà essere effettuata in occasione di ogni ulteriore riduzione pari o superiore al 10% di tale controvalore).

E tuttavia, resta egualmente non vulnerata la statuizione attinente all’omessa informazione preventiva dei rischi dell’operazione, che, rivestendo natura di inadempimento contrattuale – con riferimento agli obblighi legali riconnessi alla fase esecutiva del contratto-quadro – e carattere di gravità, giustifica di per sé la risoluzione del contratto.

Tanto deve osservarsi anche a prescindere dalla corretta osservazione della Corte d’Appello, la quale ha sottolineato che nella comparsa di risposta in primo grado la Banca, odierna ricorrente aveva affermato di aver evidenziato al […] che “molto spesso l’elevato flusso cedolare dei titoli è sinonimo di maggior rischio di oscillazione dei rendimenti, vista anche l’instabilità politico-economica dei paesi sudamericani emittenti i titoli, nonché la consistenza della somma da investire per l’acquisto dello stesso titolo, e quindi del giudizio sulla rischiosità dell’investimento operato dalle maggiori Agenzie specializzate in materia che non sono poi tante (rating)” : a riprova, oltre ogni ragionevole dubbio, che l’Istituto era a conoscenza del notevole rischio dell’operazione.

Con il terzo motivo di impugnazione l’Istituto di credito ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1453 cod. civ., degli artt. 21 e 23 del D.Lgs. n. 58 del 1998 (TUF), nonché degli artt. 21, 27, 28, 29 e 30 Reg. Consob n. 11522 del l.° luglio 1998. Rileva, al riguardo, che la Corte d’Appello avrebbe violato la legge, giacché, pur avendo espressamente riconosciuto che le violazioni degli obblighi di informazione “attengono alla fase precontrattuale se vengono considerati in rapporto al singolo contratto di negoziazione”, ha poi accolto la domanda di risoluzione degli ordini d’acquisto; condividendo i rilievi del giudice di prime cure, secondo cui l’inadempimento informativo della banca sarebbe proseguito anche a seguito dell’acquisto delle obbligazioni. Tuttavia, secondo la ricorrente, “il sistema non consente che sia accolta una domanda di risoluzione dell’ordine di acquisto di strumenti finanziari per violazione di obblighi informativi”, perché gli obblighi di informazione previsti dal TUF e dal Regolamento Intermediari attengono solo “alla fase delle trattative precontrattuali disciplinate dall’art. 1337 cod. civile”.

Neanche questo motivo appare meritevole di accoglimento. Si è già rilevato come l’inadempimento degli obblighi informativi si collochi all’interno del rapporto negoziale

già instaurato con il contratto-quadro, pur se anteriore ai singoli ordini d’acquisto che ne segnano lo svolgimento funzionale. Ne consegue che ad esso vada riconosciuta natura contrattuale, e non precontrattuale (a prescindere dalla dibattuta questione della riconducibilità di quest’ultima alla fattispecie aquiliana). Non senza aggiungere che, se invece di dichiarare la risoluzione degli ordini d’acquisto, la Corte di merito avesse ritenuto più corretto dichiarare la risoluzione (parziale) del contratto-quadro d’investimento, l’esito del giudizio non sarebbe stato difforme.

I resistenti hanno, a loro volta, proposto ricorso incidentale per violazione dell’art. 1458 cod. civile, perché la Corte di merito, sebbene avesse ravvisato un inadempimento rilevante della Banca ed avesse perciò pronunciato la risoluzione del contratto per cui è causa, ha riconosciuto, nondimeno, il loro il diritto a percepire gli interessi sul capitale investito solamente dalla domanda giudiziale, anziché dalla data in cui l’operazione di acquisto si era perfezionata.

Anche tale censura si palesa infondata.

In proposito, appare corretta la statuizione che l’efficacia retroattiva della risoluzione del contratto per inadempimento non comporta il maturare di interessi sulle somme versate dall’una all’altra parte in esecuzione del contratto, a decorrere dalla data del versamento, atteso che il venir meno ex tunc del vincolo contrattuale rende privo di causa il pagamento già eseguito in forza del contratto successivamente risolto ma, appunto per questo, impone di far capo ai principi sulla ripetizione dell’indebito al fine di qualificare giuridicamente la pretesa volta ad ottenere la restituzione di quel pagamento. Ed in materia di indebito oggettivo, ai sensi dell’art. 2033 cod. civ., il debito dell’accipiens che non versi in mala fede produce interessi solo a seguito della proposizione di un’apposita domanda giudiziale (non essendo sufficiente un qualsiasi atto di costituzione in mora del debitore), perché trova qui applicazione la tutela prevista per il possessore di buona fede – in senso oggettivo – dall’art. 1148 cod. civ., a norma del quale questi è obbligato a restituire i frutti soltanto dalla domanda giudiziale, alla cui data di proposizione retroagiscono gli effetti della sentenza (Cass. sez. 2.8.2006 1 n. 17558; Cass. sez. lI, 14.9.2004 1 n. 18518). Né risulta mai allegata, e tanto meno accertata, nella specie, la mala fede dell’Istituto di credito.

In conclusione, devono essere respinti sia il ricorso principale, che quello incidentale.

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