[…]
RITENUTO IN FATTO
1. È impugnata la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Brescia – in parziale riforma della pronuncia resa dal tribunale presso la medesima città – ha assolto […] dal reato ascrittogli per non aver commesso il fatto ed ha concesso ad […] il beneficio della non menzione, confermando nel resto la sentenza con la quale questi ultimi erano stati condannati alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi otto di reclusione ciascuno per il reato (capo e) previsto dagli articoli 110 codice penale e 181, comma 1 bis, Lettera a) Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 perché in concorso fra loro, […] in qualità di richiedente, […] in qualità di direttore dei lavori, […] in qualità di esecutore dei lavori, realizzavano sull’immobile di via […], immobile vincolato e dichiarato di notevole interesse pubblico con decreto ministeriale 1 giugno 1963, opere edili, consistite nella trasformazione del piano sottotetto con un nuovo volume avente copertura piana a terrazzo, senza la prescritta autorizzazione paesistica – disapplicata l’autorizzazione paesaggistica n. 146 del 2004 in quanto rilasciata a seguito di falsa rappresentazione della realtà – e/o comunque in totale difformità dalla stessa, essendo le opere realizzate difformi da quelle indicate nella prescritta autorizzazione (ritenendo pertanto illegittimo il successivo provvedimento di certificazione di compatibilità paesaggistica n. 7 del 2007 rilasciato sensi dell’articolo 181, commi 1 ter e quater, medesima normativa). In […], accertato in data 1 agosto 2006, in permanenza fino al 15 marzo 2007 (data del sequestro).
2. Per la cassazione dell’impugnata sentenza, ricorrono il Procuratore generale presso la Corte di appello di Brescia e, tramite i rispettivi difensori, […].
2.1. Il Procuratore generale, con un unico complesso motivo, lamenta la violazione della legge penale (articolo 606, comma 1, lettera b), codice di procedura penale in relazione all’articolo 181, commi 1 bis, 1 ter e 2, decreto legislativo n.42 del 2004) sul rilievo che erroneamente i giudici del merito hanno ritenuto non potersi ordinare la rimessione in pristino dello stato dei luoghi in quanto l’applicazione della stessa sarebbe ostacolata dal positivo completamento della procedura di compatibilità paesaggistica ed omettendo di considerare che tale obbligo si colloca su un piano diverso ed autonomo rispetto a quello dei poteri della pubblica amministrazione e delle valutazioni della stessa, configurandosi come conseguenza necessaria sia dell’esigenza di recuperare l’integrità dell’interesse tutelato, sia del giudizio di disvalore che il legislatore ha dato all’attuazione degli interventi modificativi del territorio in zone di particolare interesse ambientale. Ne deriva che in sede penale non rilevano eventuali difformi valutazioni espresse dall’autorità preposta alla tutela del vincolo circa l’idoneità offensiva dell’opera realizzata. Peraltro la difformità posta in essere non consiste, secondo il ricorrente, in un intervento di minima entità cosicché non sarebbe applicabile la previsione di quell’articolo 181, comma 1 ter, decreto legislativo n. 42 del 2004. Infine, osserva il ricorrente che, in tema di reati paesaggistici, il rilascio del certificato di compatibilità paesaggistica non determina autonomamente l’esclusione dell’ordine di rimessione in pristino, in quanto compete sempre al giudice l’accertamento dei presupposti di fatto e giuridici che lo legittimano. Nella specie, invece, sembrerebbe che la Corte territoriale abbia pretermesso ogni esame in ordine a tale aspetto, quasi che fosse sufficiente acquisire agli atti il certificato di compatibilità paesaggistica per escludere l’ordine di ripristino.
2.2. […] affida il ricorso a tre motivi di gravame.
2.2.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione (art. 606, comma 1, lettera e) cod. proc. pen.), quale vizio risultante dal testo del provvedimento impugnato, con riguardo alla ritenuta mancata maturazione del termine prescrizionale del reato alla data della pronuncia della sentenza impugnata, sul rilievo che erroneamente la Corte d’appello non ha ritenuto cessata la permanenza del reato al momento dell’accertata sospensione volontaria dei lavori edili.
2.2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la manifesta illogicità della motivazione della sentenza (art. 606, comma 1, lettera e) cod. proc. pen.), vizio risultante dal testo del provvedimento impugnato, con riguardo alla ritenuta offensività della condotta ascritta all’imputato.
2.2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia la manifesta illogicità della motivazione della sentenza (art. 606, comma 1, lettera e) cod. proc. pen.), vizio risultante dal testo del provvedimento impugnato, con riguardo alla sussistenza del dolo richiesto per l’integrazione del reato quell’articolo 181, comma 1 bis lettera a) del decreto legge relativo numero 42 del 2004.
2.3. […] affida il ricorso a tre motivi di gravame.
2.3.1. Come il primo motivo il ricorrente deduce da erronea applicazione della legge penale nonché la mancanza e la manifesta il logicità e contraddittorietà della motivazione (art. 606, comma 1, lettere b) ed e) cod. proc. pen.) sul rilievo che, avuto riguardo alla natura delle lievi difformità riscontrate, non è stata ritenuta l’inoffensività del fatto o la mancanza del dolo.
2.3.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta l’erronea applicazione della legge penale in relazione alla disciplina della prescrizione nonchè la manifesta illogicità e la contraddittorietà della motivazione (art. 606, comma 1, lettere b) ed e) cod. proc. pen.), vizio risultante dal testo del provvedimento impugnato, sul rilievo che egli, essendo stato sostituito nel febbraio 2006 dal […], non ebbe da quel momento alcun ruolo nella vicenda, con la conseguenza che, a quel momento, deve ritenersi cessata nei suoi confronti la condotta delittuosa.
2.4. […] affida il ricorso a due motivi di gravame.
2.4.1. Con il primo motivo ricorrente denuncia la violazione della legge penale nonché il travisamento del fatto e la carenza ed illogicità della motivazione (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), codice di procedura penale in relazione all’articolo 181, comma 1 , decreto legislativo n. 42 del 2004) per violazione del principio di materialità e per mancanza di offensività della condotta.
2.4.2. Con il secondo motivo lamenta la violazione di norme processuali per la indeterminatezza del capo d’imputazione e per la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza (articolo 606, comma 1, lettera c) codice di procedura penale in relazione agli articoli 429 e 521 stesso codice), essendo stata l’imputazione stata formulata con riferimento alla concessione dei permessi e delle autorizzazioni sulla base di una ritenuta induzione in errore degli organi preposti al rilascio e la condanna comminata sulla base di difformità rilevate con riferimento ai permessi ed alle autorizzazioni regolarmente rilasciate
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Vanno esaminate, nell’ordine logico, le impugnazioni proposte dalle parti private.
I gravami sono fondati esclusivamente e limitatamente all’eccepita prescrizione del reato, mentre essi sono manifestamente infondati nel resto con la conseguenza che non è possibile ipotizzare l’applicabilità di cause di proscioglimento nel merito di immediata evidenza
2. E’ qui sufficiente ricordare, in aggiunta alle corrette considerazioni espresse in parte qua dalla Corte del merito, come, ai fini della lamentata mancanza di lesività in ordine al fatto di reato ascritto agli imputati ricorrenti, questa Corte abbia recentemente affermato il principio di diritto in base al quale, in tema di reati ambientali, il positivo accertamento di compatibilità paesaggistica dell’abuso edilizio eseguito in zona vincolata non esclude la punibilità del reato di pericolo di cui all’art. 181, comma 1 -bis, D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, che non richiede per la sua integrazione un effettivo pregiudizio per l’ambiente, in quanto il rilascio di tale provvedimento non implica “automaticamente” che l’opera realizzata possa ritenersi “ex ante” inoffensiva o inidonea a compromettere il bene giuridico tutelato (Sez. 3, n. 21029 del 03/02/2015, Dell’Utri, Rv. 263978), tanto sul rilievo che il principio di offensività deve essere inteso come attitudine della condotta a porre in pericolo il bene protetto. Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha dato conto della fondamentale circostanza che l’area, nel suo complesso e non il singolo immobile, era stata dichiarata di notevole interesse pubblico, tanto che il decreto ministeriale istitutivo del vincolo aveva imposto “l’obbligo di presentare alla competente Soprintendenza, per la preventiva approvazione, qualsiasi progetto di lavori che si intendessero effettuare nella zona”, tenuto altresì conto che fra le ragioni del vincolo vi era non solo il pregio architettonico dei singoli edifici, ma altresì “il quadro naturale di particolare importanza visibile da vari punti del centro urbanistico”. Pertanto i giudici, dandone congrua motivazione, hanno valutato l’intervento idoneo a compromettere gli interessi paesaggistici pervenendo alla corretta conclusione circa la sussistenza di un’effettiva messa in pericolo del paesaggio, oggettivamente insita nella minaccia ad esso portata e valutabile come tale ex ante, nonché una violazione dell’interesse dalla P.A. ad una corretta informazione preventiva ed all’esercizio di un efficace e sollecito controllo.
3. Quanto poi alla questione circa la sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo in capo al committente, la Corte territoriale ha spiegato, con logica ed adeguata motivazione priva di vizi logici e pertanto sottratta al controllo di legittimità, che i lavori abusivi comportavano la posa, per tutta l’estensione della superficie di copertura del palazzo, sulla quale erano stati realizzati tredici appartamenti, di una struttura di travi metalliche (alte ciascuna 27 centimetri) appositamente progettata, sulla quale è stata poi ulteriormente posata una soletta in lamiera grecata riempita poi di conglomerato cementizio di tipo alleggerito, “ancorché più costoso” (dati tratti dal computo metrico estimativo delle opera eseguite in difformità). Da ciò, sulla base di una massima di esperienza generalizzata, è stato tratto il logico convincimento che lavori di una tale portata e talmente costosi dovevano essere stati effettuati dall’impresa esecutrice con l’espresso consenso del committente, potendo una libera iniziativa in tal senso esporre la ditta esecutrice ed il direttore dei lavori a una controversia legale che infatti non si è materializzata e neppure è stata allegata, risolvendosi la doglianza in una apodittica affermazione circa la asserita mancanza dell’elemento soggettivo del reato, circostanza che comunque di certo porta ad escludere l’ipotizzabilità una causa di esclusione della responsabilità di immediata evidenza.
4. E’ invece fondato il primo motivo di gravame sollevato da […], estensibile agli altri ricorrenti, con il quale è stata eccepita la prescrizione del reato sul rilievo che il lavori erano stati sospesi, primadell’emanazione del provvedimento di sequestro, dalla cui data è stata ritenuta cessata la permanenza del reato. Sul punto, è il caso di precisare che la Corte territoriale (pag. 19 e 20 della sentenza impugnata) non ha affatto contestato che i lavori fossero stati sospesi, dato che, a seguito di un sopralluogo del 9 febbraio 2007, i1 funzionario del Comune, […], aveva accertato che i lavori erano stati effettivamente sospesi perché nessuna opera era stata realizzata dal precedente accertamento dell’ 1 agosto 2006. Tuttavia, in data 13 marzo 2007, il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Milano aveva disposto il sequestro preventivo del cantiere, eseguito il successivo 15 marzo 2007, e dal provvedimento di sequestro riemesso in data 20 dicembre 2007 dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Brescia, al quale gli atti erano stati trasmessi per competenza. La Corte del merito, sulla base di tale scansione temporale, ha affermato il principio di diritto secondo il quale la cessazione della permanenza del reato paesaggistico si ha con l’ultimazione dei lavori per il completamento dell’opera ovvero con la sospensione degli stessi per provvedimento cogente ed ha quindi individuato nel decreto di sequestro eseguito il 15 marzo 2007 la data di cessazione della permanenza, argomentando invece che l’ordine di sospensione dei lavori non avrebbe potuto determinare un analogo risultato, trattandosi di un provvedimento di tipo cautelare di natura interinale, per sua natura provvisorio e destinato a perdere efficacia se nel termine di quarantacinque giorni l’amministrazione competente non avesse emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, quale per esempio il sequestro questo il cantiere. Siccome nel caso concreto l’ordine di sospensione dei lavori emanato dal Comune di Milano non era stato seguito dal sequestro amministrativo, la Corte d’appello bresciana ha ritenuto che tale provvedimento non era idoneo a far cessare la permanenza dei reati in materia edilizia di tutela paesistica, con la conseguenza che la circostanza che nel cantiere i lavori non erano proseguiti, a decorrere dall’emanazione dell’ordine di sospensione, non faceva venire meno la permanenza poiché si era trattato di una situazione di mero fatto, atteso che l’ordine di sospensione doveva considerarsi decaduto allo spirare del quarantacinquesimo giorno dal 29 agosto 2006 (data della sua emanazione) e che i lavori non erano ultimati ed avrebbero potuto riprendere in qualsiasi momento. Nel pervenire a tale conclusione, la Corte distrettuale ha disatteso la consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la permanenza del reato di edificazione abusiva, anche in danno degli interessi paesaggistici, termina, con conseguente consumazione della fattispecie di reato, o nel momento in cui, per qualsiasi causa volontaria o imposta, cessano o vengono sospesi i lavori abusivi, ovvero, se i lavori sono proseguiti anche dopo l’accertamento e fino alla data del giudizio, in quello della emissione della sentenza di primo grado (Sez. 3, n. 29974 del 06/05/2014, P.M. in proc. Sullo, Rv. 260498; Sez. 3, n. 43147 del 08/10/2003, Genova, Rv. 226498; Sez. 3, n. 8563 del 14/01/2003, Gargiulo, Rv. 224980; Sez. 3, n. 38136 del 25/09/2001, Triassi, Rv. 220351). Da ciò consegue che, stante la natura permanente del reato, la consumazione perdura per tutto il tempo in cui continua l’attività edilizia illecita, ed il suo momento di cessazione va individuato o nella sospensione dei lavori, sia essa volontaria o imposta “ex auctoritate”, tanto a seguito di sospensione amministrativa quanto per intervenuto sequestro penale, o nella ultimazione dei lavori per il completamento dell’opera o, infine, nella sentenza di primo grado, ove i lavori siano proseguiti dopo l’accertamento e sino alla data del giudizio. Quindi anche la sospensione volontaria dal proseguire i lavori, quale desistenza consistente in un comportamento inequivoco di definitiva cessazione della condotta antigiuridica, comporta la cessazione della permanenza del reato di costruzione abusiva, anche se la violazione sia stata commessa in zona protetta dal vincolo paesaggistico, sicché non occorre che la sospensione sia stata necessariamente imposta ex auctoritate o che l’ordine di sospensione debba essere efficace e non perento. Ciò che rileva, e che deve essere rigorosamente provato o risultare dagli atti, è che l’attività antigiuridica sia cessata in quanto con la sua interruzione, volontaria o imposta, viene meno l’ulteriore compromissione del bene giuridico tutelato. Nel caso di specie, dal testo del provvedimento impugnato, emerge che, dopo l’ordine di sospensione, i lavori non sono stati ripresi ed anzi l’interruzione dell’attività antigiuridica è stata accertata anche da un sopralluogo (del 9 febbraio 2007) che ha preceduto di appena un mese il provvedimento di sequestro penale. Quindi dal 29 agosto 2006 (data dell’ordine di sospensione), ed anche oltre il termine di quarantacinque giorni, al 13 marzo 2007 alcuna attività edificatoria è stata compiuta e neppure la sentenza impugnata dà atto che il sequestro (il cui decreto non è stato rinvenuto agli atti) sia stato emesso per impedire un’attività di prosecuzione dei lavori che fosse stata, per avventura, ripresa dopo l’ottemperanza all’ordine di sospensione, avendo invece affermato che i lavori non erano ancora ultimati e che essi potevano riprendere in qualsiasi momento, con ciò attestando che, alla data del sequestro, gli interventi abusivi non erano ripresi. Ha pertanto errato la Corte d’appello nell’affermare che il reato è stato consumato in data 15 marzo 2007 (data del sequestro) e non in data 29 agosto 2006 quando i lavori furono sospesi, quantunque a seguito dell’ordinanza emessa dall’autorità amministrativa, e non più ripresi. Pertanto, tenuto anche conto dell’unica sospensione del termine di prescrizione (un mese e venticinque giorni) emergente dagli atti, la causa estintiva del reato è maturata in data 23 aprile 2014 e dunque anteriormente alla pronuncia della sentenza di appello del 10 luglio 2014, con la conseguenza che, in presenza di uno specifico motivo di impugnazione in tal senso, il giudice di secondo grado avrebbe dovuto dichiarare estinto il reato per intervenuta prescrizione. La sentenza impugnata va pertanto annullata senza rinvio essendo il reato estinto per prescrizione e ciò assorbe anche la doglianza formulata da […] con il secondo motivo di ricorso, peraltro infondato, perché, qualora già risulti una causa di estinzione del reato, la sussistenza di una nullità non è rilevabile nel giudizio di legittimità, in quanto l’inevitabile rinvio al giudice del merito è incompatibile con il principio dell’immediata applicabilità della causa estintiva (Sez. U, n. 1021 del 28/11/2001, dep. 11/01/2002 Cremonese, Rv. 220511).
5. Il ricorso del Procuratore generale è, in astratto, fondato posto che la sanzione specifica della rimessione in pristino ha una funzione direttamente ripristinatoria del bene offeso e quindi si riconnette al preminente interesse di giustizia sotteso all’esercizio dell’azione penale. Peraltro l’obbligo di ripristino si colloca su un piano diverso ed autonomo rispetto a quello dei poteri della pubblica amministrazione e delle valutazioni della stessa, configurandosi come conseguenza necessaria sia dell’esigenza di recuperare l’integrità dell’interesse tutelato, sia del giudizio di disvalore che il legislatore ha dato all’attuazione di interventi modificativi del territorio in zone di particolare interesse ambientale (Sez. 3, n. 4135 del 20/02/1998, Settimi A., Rv. 210504; Sez. 3, n. 3195 del 13/11/2008, dep. 23/01/2009, P.G. in proc. Amico, Rv. 242175). Tuttavia la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione impedisce, per pacifica giurisprudenza di questa Corte, la pronuncia da parte del giudice penale dell’ordine di rimessione in pristino. Infatti, l’ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi a spese del condannato, previsto per il reato paesaggistico, va obbligatoriamente emesso, ai sensi dell’art. 181, comma 2, d.lgs. n. 42 del 2004, con la sentenza di condanna o con sentenze a questa equiparate (come la sentenza di applicazione della pena su accordo delle parti e, in tal caso, pure in difetto di accordo, o il decreto penale di condanna), in quanto si tratta di statuizioni obbligatorie e sottratte alla disponibilità delle parti (Sez. 3, n. 24087 del 07/03/2008, Caccioppoli, Rv. 240539). Ne consegue che, in mancanza dell’emanazione di una sentenza di condanna o ad essa equiparata, l’ordine di rimessione in pristino non va emesso o, se disposto, va revocato nel caso di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione dal giudice dell’impugnazione, fermo restando l’autonomo potere dovere dell’autorità amministrativa di disporlo o di riattivarlo (Sez. 3, n. 4798 del 06/02/2003, dep. 06/02/2004, Buono, Rv. 229346; Sez. 3, n. 51010 del 24/10/2013, Criscuolo, Rv. 257916; Sez. 3, n. 42703 del 07/07/2015, Pisani, non mass.).
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