Cass civ. lav., Ordinanza n. 28287 del 2019, dep. il 04.11.2019

[…]

LA CORTE, visti gli atti e sentito il consigliere relatore, OSSERVA che
con ricorso depositato il 26 novembre 2014 […] e […] S.p.a. proponevano opposizione avverso le ordinanze – ingiunzioni, nn. 592-14 e 593-14, mediante le quali la Direzione Territoriale […] aveva intimato al primo, in qualità di trasgressore, siccome presidente del consiglio di amministrazione della società, e alla seconda, quale obbligata solidale, il pagamento di euro 241mila471,23 a titolo di sanzioni amministrative, più spese di notifica per complessivi euro 241.486,43 a seguito della contestata violazione degli articoli 3, 7 e 9 co. I della legge n. 68 del 1999, accertata con precedente verbale d’ispezione in data 7 dicembre 2009 “per non aver coperto la prescritta quota di appartenenti alle categorie dei disabili, decorsi sessanta giorni dalla data nella quale è insorto l’obbligo della loro assunzione, per cause imputabili al datore di lavoro (inosservanza dei termini e delle modalità previste dalla convenzione stipulata per l’assunzione dei disabili in data 24 maggio 2004) relativamente lavoratori e nei periodi di seguito indicati” per un totale di 4719 giornate lavorative di scopertura. Le pretese sanzionatorie facevano riferimento al mancato rispetto della convenzione di programma, intervenuta il 24 maggio 2004 tra […] S.p.A. e la Provincia […] -servizio di collocamento privato- ai sensi dell’articolo 11, co. I, della L. n. 68 del 1999. I ricorrenti avevano chiesto l’annullamento delle opposte ordinanze, rilevando la tardività della loro emissione ed eccependo l’insussistenza degli illeciti contestati sotto il profilo del dolo e della colpa, atteso che l’azienda aveva fatto il possibile per adempiere agli obblighi assunti, tenuto conto della situazione di mercato, mentre l’Amministrazione provinciale non aveva provveduto all’avviamento numerico di lavoratori disabili, cui era tenuta, con la conseguenza che […] era stata parzialmente inadempiente all’obbligo di copertura della quota di riserva per il periodo contestato. Il giudice di primo grado, disattendendo i motivi dell’opposizione, aveva ritenuto la fondatezza degli illeciti accertati in sede amministrativa, nonché la correttezza delle sanzioni applicate, rigettando quindi il ricorso; gli opponenti, quindi, con citazione del 24 febbraio 2016, avevano appellato la sentenza n. 3359/ 2015, pronunciata dal Tribunale di Verona, lamentando l’omessa valutazione delle giustificazioni addotte a sostegno dell’assenza di colpevolezza, il cui onere probatorio era carico dell’Amministrazione per l’applicazione delle sanzioni, ai sensi dell’articolo 15, comma 4, della legge n. 68/1999; la Corte d’Appello di Venezia con sentenza n. 2340 in data 18 ottobre – 3 novembre 2016 rigettava l’interposto gravame, condannando di conseguenza parte appellante al pagamento delle relative spese e dando atto della sussistenza a carico della stessa dei presupposti relativi all’applicazione dell’articolo 13 comma uno quater d.P.R. 115 del 2002 in ordine al raddoppio del contributo unificato; in proposito la Corte territoriale ha osservato come il giudice di primo grado non avesse operato alcuna “inammissibile inversione dell’onere della prova”, dedotta invece da parte appellante, atteso che una volta accertato il fatto oggettivo della commissione dell’illecito, pacifico nel caso in esame, ricadeva sull’opponente l’onere di dimostrare i fatti impeditivi della pretesa sanzionatoria. Richiamando, tra l’altro, sul punto la pronuncia delle Sezioni unite di questa Corte, n. 10508 del 1995, la Corte veneziana ha rilevato che l’onere di provare di aver agito senza colpa e dolo, stante la presunzione iuris tantum di colpevolezza, è posto a carico del trasgressore e che inoltre ricade sull’opponente l’onere di dimostrare la sussistenza di causa di giustificazione, o di errore di fatto o dell’errore sul precetto scusabile. Inoltre, a giudizio della Corte distrettuale, la buona fede è invocabile soltanto se la mancanza di coscienza dell’illiceità del fatto deriva non da semplice ignoranza della legge, ma da elementi positivi, ossia da ragionevoli circostanze che abbiano indotto il soggetto a convincersi della liceità della propria condotta e risulti che il trasgressore abbia fatto tutto quanto possibile per conformarsi al precetto di legge. Era evidente che tali circostanze non sussistevano nel caso in esame.
Infatti, parte opponente aveva sostenuto che l’obbligo di copertura delle quote di riserva era stato puntualmente osservato “fino a quando la crisi generale del mercato aveva temporaneamente imposto all’azienda un arresto sulle nuove assunzioni” (pag. 16 – 18 del ricorso) e che la Provincia […] non aveva provveduto, come invece suo dovere, all’avviamento numerico del personale iscritto nelle liste di collocamento mirato. Al riguardo la Corte distrettuale, in primo luogo, ha osservato che il quadro normativo di riferimento prevedeva appositi meccanismi correttivi che consentivano, in presenza di determinati presupposti, al datore di lavoro di chiedere esenzioni o sospensioni dall’obbligo di assunzione. Inoltre, nel caso di specie la stipula della convenzione non impediva, qualora ne ricorressero le condizioni, di accedere all’istituto dell’esonero parziale, ma nessuna di tali possibilità era stata utilizzata dalla […]. Di conseguenza, le generiche asserzioni sulla crisi di mercato, che avrebbero impedito alla società di rispettare il programma di assunzioni previsto dalla convenzione stipulata il 24 maggio 2004, non potevano certo escludere la sussistenza della condotta, perfettamente idonea ad integrare l’illecito previsto dal combinato disposto degli articoli 3, 7 e 9, comma primo, della legge n. 68/1999, che sanzionava la mancata copertura della prescritta quota di appartenenti alle categorie dei disabili. Quanto, poi, alla questione della chiamata nominativa e degli obblighi gravanti sulle parti, ad avviso della Corte territoriale, era documentalmente provato che a seguito della stipula della convenzione la Provincia […] aveva avviato la procedura di presentazione di ben venti candidature da parte dell’Istituto Don Calabria e dei SIL delle ASL 20 e 22, ottemperando così ai propri obblighi. Parte opponente aveva sostenuto che la chiamata nominativa del soggetto disabile da inserire nell’organizzazione aziendale era facoltativa per il datore di lavoro, di modo che il comportamento tale da manifestare l’intento di non esercitare detta prerogativa determinava la necessità di una procedura di avviamento numerico da parte della Provincia competente per territorio. L’assunto, però, non era condivisibile, a giudizio della Corte veneziana, considerato che la facoltatività della chiamata nominativa si riferiva a datori di lavoro non sottoscrittori di convenzione. La ratio legis delle convenzioni di programma risiedeva nella volontà di concordare procedure di inserimento agevolate, tali da consentire soluzioni condivise e idonee a conseguire l’obiettivo di trovare adeguata sistemazione lavorativa ai soggetti disabili mediante l’assolvimento dell’obbligo in maniera graduale e programmata. Non a caso tali procedure vedevano il coinvolgimento di enti formativi, nella specie l’istituto Don Calabria e i servizi sanitari, il cui apporto diventava determinante nel ridurre in termini di percentuale l’eventualità che i soggetti in tal modo selezionati non risultassero idonei alle mansioni previste. Nessuna norma della legge n. 68/1999 presupponeva che l’inadempimento datoriale agli obblighi assunti con la sottoscrizione della convenzione di programma si verificasse solo a seguito della procedura di avviamento numerico da parte della Provincia competente. Né poteva ritenersi che la Provincia avesse avallato tale interpretazione della legge con la diffida del 18 ottobre 2007, con la quale la società opponente era stata avvertita che se non avesse rispettato gli obblighi assunti con la convenzione si sarebbe proceduto all’avviamento numerico dei lavoratori disabili e quindi alla segnalazione di obblighi rispettivi. Conformemente a quanto ritenuto dal primo giudicante, anche secondo la Corte d’Appello, si trattava infatti di due iniziative distinte e autonome, una dall’altra, ed in ogni caso la Provincia anche dopo la diffida aveva avviato la procedura di presentazione di candidature da parte dell’istituto Don Calabria e dei SIL, cui […] non aveva dato alcun riscontro. Era acclarata, pertanto, la volontà della società di non procedere agli inserimenti concordati dei lavoratori disabili, disattendendo così gli obblighi assunti. In definitiva, secondo la Corte veneta, non vi erano dubbi circa la sussistenza degli illeciti contestati, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo; avverso l’anzidetta pronuncia hanno proposto ricorso per cassazione […] e […] S.p.a., come da atto in data 17 /19 gennaio 2017 (notifica poi rinnovata in virtù di decreto presidenziale ex artt. 377, co. 3, e 291 c.p.c. in data 16-10-2017), ricorso affidato a tre motivi, cui ha resistito l’Ispettorato […] mediante controricorso del 6 dicembre 2017; parte ricorrente, inoltre, ha depositato memoria illustrativa in vista dell’adunanza in camera di consiglio, fissata per il sei marzo 2019;

CONSIDERATO che

con il primo motivo o ricorrenti hanno denunciato violazione, errata interpretazione e/o falsa applicazione degli articoli 2697 c.c. 15 della legge n. 68 del 1969 nonché 6 del decreto legislativo n. 150 del 2011, laddove con l’impugnata decisione era stata esclusa, nel caso di specie, l’inversione dell’onere probatorio, tanto più che doveva applicarsi l’anzidetto articolo 6, comma 11, secondo cui il giudice accoglie l’opposizione quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell’opponente. Di conseguenza, la prova della responsabilità di quest’ultimo, coerentemente al sistema disciplinante l’onere della prova in materia, incombeva sull’ente impositore. È stato richiamato, inoltre, l’articolo 15, comma quattro, della cit. legge n. 68, secondo cui «Trascorsi sessanta giorni dalla data in cui sorge l’obbligo di assumere soggetti appartenenti alle categorie di cui all’articolo 1, per ogni giorno lavorativo durante il quale risulti non coperta, per cause imputabili al datore di lavoro, la quota dell’obbligo di cui all’articolo 3, il datore di lavoro è tenuto al versamento, a titolo di sanzione amministrativa, al fondo di cui all’articolo 14, di una somma pari a lire 100.000 al giorno per ciascun lavoratore disabile che risulta non occupato nella medesima giornata». Tale norma, secondo parte ricorrente, alla luce pure dei chiarimenti ministeriali forniti come da circolare del Ministero del Lavoro in data 18 marzo 2003, n. 325, andava letta nel senso che non basta la semplice scopertura per integrare la fattispecie di cui all’articolo 15, co. 4°, essendo necessario altresì verificare, al fine dell’irrogazione delle conseguenti sanzioni amministrative, il rifiuto e / o l’ostacolo all’assunzione obbligatoria del lavoratore avviato dai servizi competenti allorché datore di lavoro abbia tempestivamente presentato il prospetto informativo -valente come richiesta di avviamento numerico- e comunque fatto richiesta in tal senso come in sua facoltà, e /o comunque legittimamente confidato nell’avviamento numerico da parte degli uffici competenti.
Nella fattispecie la Corte di appello, ritenuti assolti da parte della Provincia i propri obblighi inerenti alla chiamata nominativa, aveva ritenuto non condivisibile l’assunto circa la facoltatività diretta chiamata per il datore di lavoro, donde la necessità di una procedura di avviamento numerico da parte della provincia, poiché la facoltatività della chiamata nominativa si riferiva ai soli datori di lavoro non sottoscrittori di convenzione.
Detta interpretazione, tuttavia, ad avviso dei ricorrenti, era in contrasto con la legge n. 68 del 1999, introducendo una inammissibile disparità di trattamento, in violazione del principio di uguaglianza ex art. 3 della Costituzione, tra datore di sottoscrittori di convenzione e datori di lavoro non sottoscrittori, laddove ai primi, pur intenzionati ad adempiere ai propri obblighi e che non abbiano reperito idonee candidature, fosse precluso di ricorrere all’avviamento numerico. Al contrario, non era rinvenibile alcuna norma di legge con obbligo per il datore di lavoro, che abbia sottoscritto una convenzione, della chiamata nominativa. Tale obbligatorietà contrasterebbe essa stessa con la ratio della legge n. 68, dal momento che al datore di lavoro, pur intenzionato ad adempiere, ma che non abbia trovato personale idoneo, non potrebbe ritenersi precluso di ricorrere all’avviamento numerico, facendone domanda alla Provincia, come avvenuto nel caso di specie, pena un’ingiustificata disparità di trattamento, però non fondata in alcun modo sulla ratio della legge n. 68, contrariamente a quanto asserito dal giudice di appello. Tale interpretazione era stata confermata dalla nota circolare del Ministero del Lavoro, n. 325 del 18 marzo 2003 (… se la funzione primaria delle amministrazioni provinciali riguardo al collocamento obbligatorio si individua nel perseguire la sistemazione lavorativa delle categorie svantaggiate, e non già in quella del perseguimento delle sanzioni amministrative a carico del datore di lavoro, il servizio competente dovrebbe impegnarsi principalmente a curare il conseguimento di tale obiettivo, indirizzando ed attuando ogni possibile iniziativa con le risorse disponibili, compreso l’avviamento numerico … e quindi sostituendosi ai datori di lavoro in caso di rinuncia alla facoltà di ricorrere alla richiesta nominativa). Secondo parte ricorrente la circolare aveva altresì chiarito che la mancata chiamata nominativa non è di per sé elemento che faccia scattare la sanzione prevista, in quanto gli uffici sono, comunque, tenuti a procedere con l’avviamento mediante selezione da graduatoria. Tanto avrebbe dovuto condurre ad escludere, ai sensi del citato articolo 15, comma 4, e giusta il corretto riparto degli oneri probatori nel caso di specie, in base pure ai richiamati artt. 2697 e 6 comma 11, l’applicabilità di qualsivoglia sanzione;
con il secondo motivo di ricorso è stata denunciata la violazione dell’articolo 1362 c.c. in combinato con l’articolo 15 della legge n. 68 del 1999, in relazione all’affermazione secondo cui la Provincia […] con la diffida del 18 ottobre 2007 -mediante cui la stessa avvertiva la società che se non avesse rispettato gli obblighi assunti con la convenzione si sarebbe proceduto all’avviamento numerico di lavoratori disabili e quindi alla segnalazione agli organi ispettivi- non avrebbe avallato l’interpretazione del surriferito 15, per cui l’inadempimento datoriale agli obblighi assunti con la sottoscrizione della convenzione di programma si verifica solo a seguito della procedura di avviamento numerico da parte della provincia competente – Violazione degli articoli 1362 e 1366 c.c. in combinato con gli articoli 15 della legge n. 68 del 1999 e 3 della legge 689 del 1981, laddove l’impugnata sentenza aveva omesso di considerare comunque alla stregua di legittima scusante la diffida della Provincia in data 18 ottobre 2007, in quanto avallante e comprovante il legittimo affidamento dell’azienda nel futuro avviamento numerico da parte della Provincia, ciò in relazione all’articolo 360 comma primo nn. 3 e 5 c.p.c.. Secondo parte ricorrente, errata risultava l’interpretazione operata dalla Corte territoriale, che aveva inteso inverato l’illecito al mero verificarsi della scopertura, in violazione di quanto disposto dall’articolo 15 comma 4 della legge n. 68 del 1999, laddove aveva trascurato che sul piano soggettivo debbono rilevare comunque -precludendo la configurabilità della fattispecie l’applicabilità della sanzione la non imputabilità del datore di lavoro, la sua buona fede, la correttezza del comportamento in generale tenuto e l’oggettiva scusabilità del comportamento a fronte di elementi positivi che ne sono prova. Nella specie la Corte territoriale aveva omesso di considerare, senza fornire alcuna motivazione al riguardo, che la Provincia con la diffida del 18 ottobre 2007 (con la quale aveva letteralmente avvertito […] che se non avesse rispettato gli obblighi assunti con la convenzione si sarebbe proceduto all’avviamento numerico dei lavoratori disabili e quindi alla segnalazione agli obblighi ispettivi) se anche non avesse avallato l’interpretazione della legge nel senso della facoltatività della chiamata nominativa, aveva comunque ingenerato un legittimo affidamento in tal senso, determinante la scusabilità, sulla scorta di tale erroneo convincimento, della mancata copertura. Quindi, anche laddove si fosse ritenuto che la scopertura di per sé configurasse illecito, la Corte distrettuale avrebbe dovuto tenere in debita considerazione il comportamento della Provincia, che aveva ingenerato un legittimo affidamento nell’azienda, precludente, come esimente, ex art. 3 della L. n. 689/1981, l’applicabilità della sanzione. Vi era stata errata interpretazione ed applicazione degli artt. 1362 e ss. cc, nonché 3 L. n. 689/81 in relazione all’art. 15 L. n. 68/1999, in punto di rilevanza del comportamento della Provincia ai fini del giudizio di non imputabilità / scusabilità della scopertura della quota di riserva. In particolare, la Corte veneziana aveva errato nel non tenere in alcuna considerazione che il comportamento della Provincia, ente competente a procedere all’avviamento numerico, aveva ingenerato, con un atto espressione del proprio corrispondente potere, un legittimo affidamento in […], tale da escludere la colpevolezza e comunque da inverare i presupposti per la scusabilità della scopertura; con ciò, di conseguenza, precludendo, se non la configurabilità dell’illecito, quantomeno l’applicabilità della sanzione in relazione alla regola di giudizio di cui all’articolo 6 del decreto legislativo n. 150 del 2011. In effetti, dopo avere sbrigativamente e fallacemente, opinato che nessuna norma della legge 68 presupponeva che l’inadempimento datoriale agli obblighi assunti con la sottoscrizione della convenzione di programma si verificasse solo a seguito della procedura di avviamento numerico da parte della provincia competente, la Corte territoriale aveva ritenuto che con il proprio agire la Provincia non avesse avallato tale interpretazione, né reso scusabile l’omissione di […]. Così deliberando la Corte aveva, però, trascurato -sebbene occorrente ai fini della scusabilità e quindi della responsabilità ex citato art. 6 – il dato documentale della diffida 18 ottobre 2007, emessa della Provincia […]. La Corte territoriale, in particolare, aveva omesso di considerare non solo che il tenore della dichiarazione contenuta nella diffida ex articolo , 1362 c.c. era inequivocabile, ma che, provenendo dall’ente competente a provvedere alla richiesta di avviamento numerico, era idonea in generale ex articolo 1366 c.c. nella società legittimo affidamento circa il successivo adempimento da parte della Provincia ai propri obblighi in materia, cui era condizionata la sanzionabilità della scopertura, per cui anche in materia di atti amministrativi occorre pure fare riferimento al canone della buona fede nell’interpretazione del provvedimento. Anche nei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione opera il principio inoltre di legittimo affidamento che tutela la posizione del soggetto il quale subisca pregiudizio a causa di un comportamento obiettivamente equivoca bile della pubblica amministrazione, che frustra una sua aspettativa legittima di buona fede proprio perché ingenerata dal factum principis, peraltro corroborata dalla citata circolare ministeriale. Nella specie la comunicazione della Provincia aveva ingenerato un affidamento legittimo sulla situazione (inapplicabilità della sanzione fintanto che la Provincia non avesse proceduto all’avviamento numerico dalla medesima equivocamente preannunciato) connessa all’esercizio del potere preannunciato dalla pubblica amministrazione e nel quale la società aveva pertanto in totale buona fede confidato. Inoltre, la decisione sul punto appariva in palese contraddizione con la chiara interpretazione letterale dell’atto di diffida esaminato dal collegio e comunque con l’interpretazione che secondo buona fede di esso aveva potuto fare e dare il destinatario. L’omessa considerazione della diffida della Provincia in data 18 ottobre 2007, come causa di insorgenza di legittimo affidamento del destinatario, rappresentava violazione delle norme di legge, che prevedono l’esimente della buona fede, pacificamente applicabile anche all’illecito amministrativo disciplinato dalla legge 689 del 1981 e rilevante come causa di esclusione della responsabilità amministrativa (citandosi sul punto Cass. 6 aprile 2011 n. 7885 nonché 23 ottobre 2003 n. 14107);
con il terzo motivo è stata denunciata la violazione falsa applicazione degli articoli 15 comma quattro della legge n. 68 del 1999, 416 e 115 c.p.c. in relazione all’omesso rilievo delle altre giustificazioni dedotte da […] a sostegno della scusabilità del proprio comportamento, non specificamente contestate dalla DTL – art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. (mancata specifica contestazione da parte opposta di quant’altro allegato con l’atto di opposizione, di modo che dovevano ritenersi pacifiche le seguenti circostanze. I fatti esposti da parte opponente a giustificazione della non imputabilità del contestato inadempimento, e che l’opposta DTL aveva del tutto superficialmente contestato come “argomenti di circostanza”, da ritenersi dunque pacifici secondo i ricorrenti, riguardavano: modesta dimensione aziendale dei punti vendita […] e necessaria intercambiabilità dei ruoli da parte del personale dipendente impiegato; eliminazione barriere architettoniche; mancato superamento dei colloqui dai soggetti contattati; difficoltà logistica, all’epoca dei fatti, di inserimento del personale; periodo di crisi generale e sensibile arresto economico del mercato che aveva frenato qualsiasi opportunità di nuove assunzioni.
Di tali circostanze, ostative all’adempimento della convenzione, non contestate ex adverso e determinanti, la Corte d’Appello non aveva tenuto conto, sebbene da considerarsi pacificamente provate tra le parti, unitamente alle ulteriori evidenze probatorie, a conferma dell’assenza di qualsivoglia responsabilità della […] in relazione all’illecito addebitato. Né la Corte veneziana aveva considerato la circostanza, documentale, del fatto che la scopertura contestata fosse soltanto parziale, laddove tale elemento avrebbe dovuto essere valutato in quanto rilevante alla luce della normativa, che imponeva la verifica della colpevolezza, da dimostrarsi a cura dell’ente impositore, al fine di considerare verificato l’illecito e applicabile la conseguente sanzione. Né la Corte di merito aveva considerato la stipula in data 14 aprile 2012 di una nuova convenzione di programma ex articolo 11, comma I, L. n. 68 del 1999);
pertanto, la considerazione, ai fini dell’insussistenza della colpevolezza, della parzialità della scopertura e della generale complessiva correttezza di […] nell’adempimento dei doveri di copertura doveva comportare, in applicazione delle norme indicate, la scusabilità del comportamento tenuto in buona fede dalla società, ossia, nel contesto di crisi, cessare le assunzioni in questione che, soprannumerarie, avrebbero determinato il licenziamento di altri dipendenti, quindi ricorso alla cassa integrazione e / o alla mobilità, ossia le stesse causali che nel quadro normativo di riferimento consentivano l’esecuzione o la sospensione dell’obbligo di assunzione. Nella specie, applicati correttamente gli oneri probatori, il collegio giudicante avrebbe dovuto concludere nel senso che non vi erano prove sufficienti a stabilire la responsabilità degli opponenti sotto il duplice profilo dell’assenza dell’elemento soggettivo, necessario per l’insorgenza di responsabilità, e della inesigibilità di comportamenti ulteriori e diversi da quelli tenuti dagli opponenti, conformemente alla convenzione con la Provincia […] in data 24 maggio 2004. La Corte di merito avrebbe, di conseguenza, dovuto accogliere l’opposizione ai sensi dell’articolo 6 co. 11 del decreto legislativo n. 150 del 2011;
tanto premesso, il ricorso va disatteso in base alle seguenti ragioni;
in primo luogo, parte opponente ha omesso di riportare in modo sufficiente, perciò in violazione dell’art. 366 co. I n. 6 c.p.c., l’accertamento ispettivo di cui alle successive opposte ordinanze, accertamento sul quale decisioni dei giudici di merito, di primo e secondo grado, hanno evidentemente fondato le loro decisioni. Nemmeno risulta riprodotto il testo della convenzione di programma stipulata il 24 maggio 2004, e parimenti dicasi per la corrispondenza che si assume intercorsa dopo la diffida di ottobre 2007 (neanche questa testualmente e per intero trascritta, sebbene ne sia stata contestata l’interpretazione), laddove a tal riguardo parte ricorrente ha dedotto di aver fatto tutto quanto possibile per poter rispettare la convenzione ai fini della pattuita assunzione di disabili. Né risultano adeguatamente trascritte le difese svolte dalla opposta pubblica amministrazione, da cui poter desumere le ammissioni e la pacificità ipotizzate da parte ricorrente, le cui doglianze in questa sede, per altro verso, vanno esaminate nei soli limiti in cui risultano sintetizzati i motivi del gravame a suo tempo interposto, giusta le lettere a) e b) a pag. 10 del ricorso (errato riparto degli oneri probatori nel giudizio di opposizione a ordinanza ingiunzione in prime cure -artt. 2697 c.c. e 6, comma 4, del dl.vo n. 150/2011 ed errata applicazione della regola di giudiziodi cui all’art. 6, co. 11, dl.vo n. 150/2011, in relazione alla fattispecie dell’art. 15, co. 4, I. n. 68/1999, essendo dovere del giudice accogliere l’opposizione quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell’opponente, la cui prova incombe sull’opposto, attore in senso sostanziale; erronea configurazione, nell’ipotesi dell’art. 15, co. 4, I. n. 68/1999, di in caso di responsabilità senza colpa, a prescindere dall’imputabilità all’agente delle cause dell’illecito e della buona fede pur invocata dagli opponenti anche in relazione alla condotta omissiva, suscettibile di equivoci e di antitetico, legittimo affidamento, della Provincia – assenza di colpa e di dolo in capo a […] – sussistenza dell’esimente di buona fede, causa di esclusione della responsabilità amministrativa); non è consentito, infatti, anche nel giudizio di legittimità esaminare e valutare questioni e circostanze diverse da quelle dedotte nel precedente grado di merito, se non in quanto desumili da complete allegazioni di parte ricorrente ai sensi del citato art. 366, co. I, e dalla lettura dell’impugnata sentenza (v. da ultimo Cass. II civ. n. 2038 del 24/01/2019: ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente vi abbia provveduto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa. Conforme Cass. n. 20518 del 2008. In senso analogo v. altresì Cass. III civ. n. 14590 del 12/07/2005, secondo cui nel giudizio di cassazione è preclusa alle parti la prospettazione di nuove questioni che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice del merito, perché allo stesso non sollecitati. Ove una determinata questione che implichi un accertamento di fatto non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità ha l’onere di indicare in quale atto del giudizio di merito l’abbia dedotta, così da permettere alla S.C. di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di ogni altro esame. In senso conforme, tra le altre, Cass. nn. 6542, 6656 e 15950 del 2004); va inoltre rilevata, comunque, ancora, l’inammissibilità di tutte le censure nella specie formulate da parte ricorrente in relazione all’art. 360, comma I, n. 5 c.p.c. (indipendentemente anche dalla possibile preclusione, ex art. 348-ter c.p.c., per effetto di doppia conforme decisione di merito in punto di fatto, visto che la sentenza di primo grado, risalente al 15.12.2015, quindi impugnata con atto del 24.02.2016, è stata per intero confermata da quella pronunciata in appello, oggetto di questo giudizio, mediante rigetto del gravame. Cfr. sul punto anche Cass. I civ. n. 26774 del 22/12/2016: nell’ipotesi di “doppia conforme”, prevista dall’art. 348-ter, comma 5, c.p.c. -applicabile, ai sensi dell’art. 54, comma 2, del dl. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012-, il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. -nel testo riformulato dall’art. 54, comma 3, del d.l. n. 83 cit. ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012- deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse. Conforme, tra le altre, Cass. II civ. n. 5528 del 10/03/2014);
invero, alla luce di quanto accertato e deciso, nei sensi sopra indicati, non risulta omesso l’esame di alcun fatto, rilevante e decisivo, in base alla vigente attuale formulazione del succitato art. 360 n. 5, norma che ad ogni modo non consente il sindacato di legittimità in ordine all’apprezzamento delle acquisite emergenze istruttorie operato dai giudici di merito (cfr. Cass. II civ. n. 27415 del 29/10/2018: l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in I. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo; pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
Cfr. analogamente anche Cass. sez. un. Civ. nn. 8053 e 8054 del 2014, nonché Cass. II civ. n. 14802 del 14/06/2017: l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del dl. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nel cui paradigma non è inquadrabile la censura concernente la omessa valutazione di deduzioni difensive.
Cass. Sez. 6 – 3, n. 22598 del 25/09/2018: in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012, non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111, sesto comma, Cost. e, nel processo civile, dall’art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c.. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c..
Similmente Cass. III civ. n. 23940 del 12/10/2017: in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia. Inoltre, secondo Cass. n. 23940/2017, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012.
V. ancora Cass. Sez. 6 – 5, n. 11863 del 15/05/2018: la deduzione avente ad oggetto la persuasività del ragionamento del giudice di merito nella valutazione delle risultanze istruttorie attiene alla sufficienza della motivazione ed è, pertanto, inammissibile ove trovi applicazione l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nella formulazione novellata dal dl. n. 83 del 2012, conv., con modificazioni, nella I. n. 134 del 2012.
Cass. lav. n. 21439 del 21/10/2015: nel giudizio di cassazione è precluso l’accertamento dei fatti ovvero la loro valutazione a fini istruttori, tanto più a seguito della modifica dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., operata dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. in I. n. 134 del 2012, che consente il sindacato sulla motivazione limitatamente alla rilevazione dell’omesso esame di un “fatto” decisivo e discusso dalle parti.
Cass. Sez. 6 – 3, n. 12928 del 9/6/2014: in tema di ricorso per cassazione, dopo la modifica dell’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ. ad opera dell’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili.
Cass. Sez. 6 – L, n. 2498 del 10/02/2015: l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, censurabile ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice di merito, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie, sicché il fatto storico non può identificarsi con il difettoso esame dei parametri della liquidazione dell’indennità ex art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183.
Cass. III civ. n. 11892 del 10/06/2016:: il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. -che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio-, né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n. 4, c.p.c. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante. Conforme Cass. I civ. n. 23153 del 26/09/2018);
dall’inammissibilità, nella fattispecie in esame, di censure ex art. 360 n. 5 c.p.c., oltre che di denunzie ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. circa pretese violazioni o false applicazioni di legge, però ricostruendo i fatti diversamente da quanto accertato in sede di merito dai giudici al riguardo esclusivamente competenti, deriva l’impossibilità di valutare e di sindacare in questa sede quanto difformemente in punto di fatto opinato dai ricorrenti circa le contestate violazioni in ordine alla mancata copertura della prescritta quota di appartenenti alle categorie di disabili, una volta decorsi i sessanta giorni dal momento in cui era maturato l’obbligo dell’assunzione di costoro, a causa dell’inosservanza, da parte datoriale, dei termini e delle modalità previsti dall’apposita convenzione stipulata il 24 maggio 2004, relativamente ai lavoratori e ai periodi indicati come da verbale ispettivo in data 7 dicembre 2009, per un totale di 4719 giornate lavorative di scopertura, violazione ascrivibile alla società […] ed al suo legale rappresentante pro tempore, per cui i giudici di merito non hanno ravvisato nemmeno elementi utili da cui poter desumere scriminanti di sorta, peraltro indimostrate nemmeno sotto il profilo soggettivo, avuto pure riguardo alla diffida da parte della Provincia in data 18-10-2007, in relazione alla quale, peraltro, a parte carenti allegazioni ex art. 366 n. 6 c.p.c. per difetto di esauriente e completa riproduzione dell’atto, non si rilevano puntuali deduzioni circa specifici errori d’interpretazione ex art. 1362 e ss. c.c..
Ne consegue che vale il motivato apprezzamento espresso in proposito dai giudici di merito, non risultando quest’ultimo abnorme ovvero del tutto implausibile, tanto più poi che anche in seguito alla suddetta diffida comunque la stessa Provincia aveva avviato la procedura di presentazione di altre candidature, perciò chiaramente nominative, cui però la […] non aveva dato alcun riscontro, a confutazione, evidentemente, della tesi dell’affidamento sostenuta da parte appellante, sicché la Corte di merito ha ritenuto, pertanto, «acclarata la volontà di non procedere agli inserimenti concordati dei lavoratori disabili, disattendendo gli obblighi assunti. In definitiva non vi possono essere dubbi sulla sussistenza degli illeciti contestati sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo» (cfr., del resto, tra le altre, Cass. I civ. n. 640 del 14/01/2019, secondo cui le espressioni violazione o falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto: a) quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto; b) quello afferente all’applicazione della norma stessa una volta correttamente individuata ed interpretata. Il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Non rientra, invece, nell’ambito applicativo dell’art. 360, comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità. In senso analogo, Cass. I civ. n. 24155 del 13/10/2017, nonché Cass. lav. n. 195 in data 11/01/2016);
le complessive argomentazioni svolte con la sentenza qui impugnata, peraltro da leggersi anche ad integrazione di quelle contenute nella pronuncia di primo grado, infatti confermata in appello, appaiono indubbiamente congrue ed esaurienti, oltre che logiche e lineari nella loro esplicazione, di guisa che sicuramente non possono dirsi inferiori al c.d. minimo costituzionale occorrente a norma degli artt. 111 Cost. e 132 n. 4 c.p.c. (v. sul punto Cass. in part. Cass. 22598/18 cit.);
pertanto, alla stregua di quanto motivatamente ed insindacabilmente accertato dai giudici di merito, del tutto corretto, anche in punto di diritto, appare l’iter argomentativo seguito dai giudici di merito, specialmente laddove è stata esclusa ogni indebita inversione dell’onere probatorio circa il profilo soggettivo della contestata ed acclarata violazione, tenuto soprattutto conto della formulazione dell’art. 3 della L. n. 689/1981 (Nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa. Nel caso in cui la violazione è commessa per errore sul fatto, l’agente non è responsabile quando l’errore non è determinato da sua colpa), alla luce della consolidata giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, in tema di elemento soggettivo, di guisa che, in materia di illecito amministrativo, la buona fede dell’autore del medesimo può rilevare come causa di esclusione della responsabilità amministrativa solo quando l’errore sulla liceità del fatto risulti incolpevole, occorrendo a tal fine un elemento positivo idoneo ad indurre un errore siffatto, non ovviabile dall’interessato con l’ordinaria diligenza, restando escluso che la mera tolleranza della p.a. costituisca un fatto idoneo a radicare la buona fede dell’agente (Cass. I civ. n. 14107 del 23/09/2003, confermando inoltre quanto affermato in precedenza da questa Corte con la sentenza n. 7143 del 25/05/2001, secondo cui l’art. 3 della legge 24 novembre 1981, n. 689 pone una presunzione “iuris tantum” di colpa in chi ponga in essere o manchi di impedire un fatto vietato e rivesta una delle qualità che la legge espressamente contempli come costitutive dell’obbligo di tenere un comportamento diverso; ne consegue che è legittima l’irrogazione della sanzione in assenza di deduzioni, da parte dell’opponente, atte a superare detta presunzione mediante la dimostrazione della propria estraneità al fatto o dell’impossibilità di evitarlo tramite un diligente espletamento dei compiti connessi alla carica ricoperta). In particolare, le Sezioni unite con la sentenza n. 10508 del 6/10/1995, avevano già chiarito che il principio posto dall’art. 3 della legge 24 novembre 1981 n. 689, secondo cui per le violazioni colpite da sanzione amministrativa è richiesta la coscienza e volontà della condotta attiva o omissiva sia essa dolosa o colposa, deve essere inteso nel senso della sufficienza dei suddetti estremi, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa, atteso che la norma pone una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, riservando poi a questi l’onere di provare di aver agito senza colpa (v. ancora Cass. II civ. n. 1781 del 28/01/2008, secondo cui l’esimente della buona fede, prevista dall’art. 3 legge n. 689 del 1981, non trova applicazione quando l’affidamento relativo alla liceità della condotta, dipende dalla concomitanza di una pluralità di fattori, tra i quali l’imprudente comportamento dell’autore della violazione. Cfr. altresì Cass. II civ. n. 726 del 16/01/2008: non sussiste l’esimente della buona fede come causa di esclusione della responsabilità, ai sensi dell’art. 3, comma secondo, della legge 24 novembre 1981 n. 689, ove sia esclusa la sussistenza di atti positivi dell’Amministrazione competente a concedere l’autorizzazione, volti a creare un ragionevole affidamento sulla legittimità della condotta contestata.
V. parimenti Cass. 11 civ. n. 20219 del 31/07/2018: l’esimente della buona fede, applicabile anche all’illecito amministrativo disciplinato dalla I. n. 689 del 1981, rileva come causa di esclusione della responsabilità amministrativa -al pari di quanto avviene per quella penale in materia di contravvenzioni- solo quando sussistano elementi positivi idonei ad ingenerare nell’autore della violazione il convincimento della liceità della sua condotta e risulti che il trasgressore abbia fatto tutto il possibile per conformarsi al precetto di legge, onde nessun rimprovero possa essergli mosso.
In senso conforme Cass. II civ. n. 13610 in data 11/06/2007, secondo cui, in particolare, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 689 del 1981, per le violazioni colpite da sanzione amministrativa è necessaria e al tempo stesso sufficiente la coscienza e volontà della condotta attiva o omissiva, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa, giacché la norma pone una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, riservando poi a questi l’onere di provare di aver agito senza colpa.
V. pure Cass. II civ. n. 720 del 15/01/2018: la sufficienza, al fine d’integrare l’elemento soggettivo della violazione, della semplice colpa ex art. 3 legge 689 del 1981, comporta che, al fine di escludere la responsabilità dell’autore dell’infrazione, non basta uno stato di ignoranza circa la sussistenza dei relativi presupposti, ma occorre che tale ignoranza sia incolpevole, cioè non superabile dall’interessato con l’uso dell’ordinaria diligenza.
Id. n. n. 2956 del 16/02/2016: in tema di sanzioni amministrative, la valutazione circa l’offensività, in concreto, del comportamento del trasgressore non rileva, salva la sua sussumibilità nell’esimente della buona fede, quale causa di esclusione della responsabilità, giacché l’idoneità della condotta a realizzare l’effetto vietato è stata valutata “ex ante” dal legislatore con la previsione della norma sanzionatoria.
Inoltre, secondo Cass. V civ. n. 23019 del 30/10/2009, in tema di sanzioni amministrative, l’onere della prova degli elementi positivi che riscontrano l’esistenza della buona fede è a carico dell’opponente e la relativa valutazione costituisce un apprezzamento di fatto di stretta competenza del giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se non sotto il profilo del vizio di motivazione.
Parimenti, secondo Cass. lav. n. 911 del 2/2/1996, poiché ai sensi dell’art 3 della legge 24 novembre 1981, n. 689, per integrare l’elemento soggettivo delle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa è sufficiente la semplice colpa, l’errore sulla liceità del fatto -anche derivante da una situazione di psicologica ignoranza del precetto, secondo il principio enunciato in materia penale dalla sentenza costituzionale n. 363 del 1988- comunemente indicato come buona fede, può rilevare come causa di esclusione della responsabilità -al pari di quanto avviene per la responsabilità penale in materia di contravvenzioni- soltanto quando risulti incolpevole e cioè non superabile con l’uso dell’ordinaria diligenza, rientrando il relativo accertamento nei poteri del giudice di merito, salvo il controllo in sede di legittimità sotto l’aspetto del vizio logico o giuridico di motivazione. Conformi Cass. nn. 8180 del 1992, 3693 del 1994 e n. 1873 del 1995);
del tutto inconferente, inoltre, appare l’asserita violazione dell’art. 6 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (in vigore dal 6-10-2011) in materia di opposizione ad ordinanza-ingiunzione, laddove al comma 11 è stabilito che il giudice accoglie l’opposizione quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell’opponente, visto che espressamente la Corte di merito ha escluso dubbi sulla sussistenza degli illeciti contestati, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, perciò ritenendo accertata la sanzionata inadempienza, giudizio questo che, alla stregua di quanto già in precedenza chiarito, risulta assolutamente incensurabile in questa sede di legittimità, sicché si appalesano irrilevanti le diverse opinioni sul punto espresse da parte ricorrente (in proposito, per completezza va anche chiarito come parte ricorrente equivochi il significato delle parole cause imputabili adoperate nella formulazione dell’art. 15, comma 4, della I. n. 68/1999 -«Trascorsi sessanta giorni dalla data in cui sorge l’obbligo di assumere soggetti appartenenti alle categorie di cui all’articolo 1, per ogni giorno lavorativo durante il quale risulti non coperta, per cause imputabili al datore di lavoro, la quota dell’obbligo di cui all’articolo 3, il datore di lavoro è tenuto al versamento, a titolo di sanzione amministrativa, al fondo di cui all’articolo 14, di una somma pari a lire 100.000 al giorno per ciascun lavoratore disabile che risulta non occupato nella medesima giornata» – , in quanto la suddetta locuzione attiene chiaramente all’elemento oggettivo, ossia alla condotta ascrivibile al datore di lavoro, da cui derivi la mancata copertura della quota d’obbligo, perciò a prescindere dall’elemento soggettivo -dolo o colpa-, la cui disciplina agli effetti sanzionatori resta comunque diversamente regolata dall’art. 3 della L. n. 689/81, mentre l’imputabilità in senso tecnico concerne la capacità d’intendere e di volere -art. 85 c.p.-, coscienza e volontarietà anch’esse, come sopra visto, contemplate come presupposti indefettibili dal cit. art. 3, indifferentemente con dolo o colpa – v. parimenti l’art. 42, u. co., c.p.: «Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria sia essa dolosa o colposa>>);
infondate, pertanto, appaiono anche le censure circa l’asserita errata applicazione della L. n. 68/1999, nei limiti di ammissibilità di cui si è detto in precedenza in relazione agli anzidetti motivi di appello, laddove la Corte territoriale ha pure correttamente chiarito come nella specie non poteva ammettersi la facoltatività della chiamata nominativa, possibile soltanto per i datori non aderenti alle convenzioni di cui all’art. 11 della L. n. 68/1999;
di conseguenza, nemmeno appare giustificato il sospetto d’incostituzionalità, per violazione del principio di uguaglianza, adombrato da parte ricorrente, trattandosi di valutazione discrezionale e non irragionevole, né irrazionale, compiuta dal legislatore nell’ambito delle sue precipue competenze, nel cui contesto normativo, inoltre, parte datoriale ha scelto di obbligarsi aderendo ad apposita convenzione, con i relativi conseguenti effetti;
dunque, il ricorso va respinto, ma nonostante la soccombenza, deve pure rilevarsi l’improcedibilità del controricorso, di guisa che nulla va liquidato a favore dell’«Ispettorato […]», poiché la notifica risulta tardivamente attivata e comunque giammai perfezionata (infatti all’esito dell’ordine di rinnovazione del ricorso -che non era stato notificato presso l’Avvocatura generale dello Stato, ma presso quella distrettuale in Venezia- disposta con il provvedimento in data 16.10.2017 ed eseguito da parte ricorrente il 26.10.2017 -data quest’ultima testualmente indicata nell’intestazione del controricorso- l’intimata amministrazione ha provveduto a notificare il controricorso come da relata con spedizione postale in data sei dicembre 2017 -mercoledì, giorno feriale- perciò al 41° giorno, quindi oltre il termine previsto dall’art. 370 c.p.c.. Per giunta, detta notifica non risulta perfezionata, non essendo stato depositato l’avviso di ricevimento pervenuto al destinatario della raccomandata spedita il 6.12.2017, come pure sul punto espressamente eccepito da parte ricorrente nell’anzidetta memoria illustrativa, depositata in vista dell’adunanza fissata per il sei marzo 2019, laddove in particolare è stato dedotto che l’atto difensivo avversario non è mai pervenuto alla ricorrente presso il domicilio eletto, né mai ricevuto altrove – cfr. al riguardo da ultimo anche Cass. V civ. n. 21105 del 24/08/2018, secondo cui, in tema di condanna alle spese nel giudizio di legittimità, il controricorso inammissibile non può essere posto a carico del ricorrente soccombente nel computo dell’onorario di difesa da rimborsare alla parte resistente, poiché in tale ipotesi detta condanna deve limitarsi all’attività successiva eventualmente svolta, che, nel procedimento in camera di consiglio dinanzi alla sezione ordinaria, previsto dal d.l. n. 168 del 2016, conv., con modif., dalla I. n. 197 del 2016, è limitato alla redazione della memoria scritta ex art. 380 bis, comma 1, c.p.c., ossia all’unica attività difensiva consentita in detto procedimento, da ritenersi equiparata alla -o sostitutiva della discussione in pubblica udienza. Nel caso qui in esame, ad ogni modo, la suddetta memoria scritta è stata depositata dalla sola parte ricorrente, nonostante i rituali e tempestivi avvisi di rito a tutti gli aventi diritto); […]