Cassazione Civile, Sez. L, 21 febbraio 2012, n. 2506 – Depositata il 21/02/2012

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- La sentenza attualmente impugnata rigetta l’appello di […] amministratore e socio accomandatario della […] – cancellata dal registro delle imprese il 10 dicembre 2001 – avverso la sentenza del Tribunale di Napoli, 10 sezione civile, emessa il 22 novembre 2004, dichiarativa della responsabilità della suindicata società nella produzione dell’infortunio sul lavoro occorso all’operaio specializzato, dipendente dalla società, […].

La Corte d’appello di Napoli, per quel che qui interessa, precisa che:

a) il risarcimento del danno derivante da un sinistro verificatosi durante la prestazione lavorativa può essere chiesto al datore di lavoro con due diverse azioni, una proposta a titolo di responsabilità contrattuale e l’altra a titolo di responsabilità extracontrattuale;

b) rientrano nel potere dispositivo della parte la scelta sul tipo di azione da proporre ovvero l’esercizio cumulativo delle due azioni;

c) nella specie, poiché la domanda giudiziale non fa specifico riferimento all’obbligo di sicurezza come espressione della specifica regolamentazione del contratto di lavoro, bene ha fatto il Tribunale a ritenere che il […] abbia postulato una responsabilità di tipo extracontrattuale, deducendo che il proprio datore di lavoro, in violazione del generale principio del neminem ledere, gli abbia procurato dei danni all’integrità fisica e morale;

d) tale domanda è fondata, infatti è stato accertato, in modo chiaro, che la responsabilità del […], datore di lavoro del […], è rappresentata dal fatto di avere, senza una preliminare valutazione dei connessi rischi, determinato il dipendente a portarsi sul tetto – composto di lastre di plexiglass alternativamente affiancate a lastre metalliche – del capannone industriale dal quale è poi caduto, senza munirlo delle dotazioni di sicurezza necessarie e coerenti ai rischi cui il lavoratore era esposto;

e) la ritenuta responsabilità rende risarcibili i danni patrimoniali e non patrimoniali;

f) in particolare, deve essere autonomamente risarcita la menomazione della capacità lavorativa specifica, che va ricondotta nell’ambito del danno patrimoniale e non del danno biologico, come sostengono gli appellanti;

g) va risarcito anche il danno morale, a prescindere dalla configurabilità o meno del reato di lesioni colpose, in conformità con la giurisprudenza di legittimità;

h) infine, gli ulteriori rilievi critici di tipo tecnico mossi dagli appellanti alla sentenza di primo grado non hanno avuto alcun riconoscimento nella consulenza medico-legale espletata, la quale merita la massima considerazione essendo estremamente dettagliata e basata su un rigoroso percorso scientifico-metodologico.

2- Il ricorso di […] e degli altri indicati in rubrica domanda la cassazione della sentenza per quattro motivi;

[…] non svolge attività difensiva.

I ricorrenti depositano anche memoria ex art. 378 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Sintesi dei motivi.

1.- Con il primo motivo di ricorso, illustrato da quesito di diritto, si denuncia – in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, “errata e falsa applicazione di norme di diritto ai fatti controversi ex artt. 413, 409, 410, 410-bis, 414, 426 e 274 cod. proc. civ., combinato disposto degli artt. 2094, 2110 e 2087 cod. civ.”. Si sottolinea che, a fronte della prospettazione della domanda giudiziaria come diretta ad ottenere il risarcimento del danno per un infortunio sul lavoro, la Corte d’appello di Napoli, 4^ sezione civile, non solo ha ugualmente trattenuto la causa, ma non ha applicato le norme del rito del lavoro (prevedenti, fra l’altro, il tentativo obbligatorio di conciliazione) ne’ ha proceduto alla richiesta riunione del presente procedimento ad altro pendente presso il giudice del lavoro riguardane il medesimo rapporto.
2- Con il secondo motivo di ricorso, illustrato da quesito di diritto, si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, cod. “omessa, falsa, contraddittoria interpretazione e valutazione della volontà della parte istante, in relazione ai fatti posti in domanda” ex artt. 112, 163, 164, 88 e 416 cod. proc. civ., art. 2043 cod. civ.. Si sostiene che il Tribunale prima e la Corte d’appello poi, a fronte dell’ambiguità dell’atto introduttivo sul punto, si sono sostituiti all’attore nel qualificare la azione da questi intrapresa come azione di responsabilità extracontrattuale, così violando le suindicate disposizioni e, in particolare, il principio di terzietà del giudice.
3- Con il terzo motivo di ricorso, illustrato da quesito di diritto, si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa fatti decisivi della controversia, come risultanti dalla prova testimoniale, ai sensi degli artt. 115, 116 e 99 cod. proc. civ. nonché artt. 2697, 2043, 1321 e 2087 cod. civ.. Si sostiene che la Corte d’appello abbia affermato la responsabilità extracontrattuale in oggetto ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. senza effettuare un’adeguata ricostruzione e valutazione delle circostanze di fatto dell’incidente occorso al […] nonché richiamando, nella motivazione, per porle a fondamento della sussistenza della responsabilità aquiliana, le obbligazioni lavorative di cui all’art.2087 cod. civ., pur avendo precedentemente escluso la ricorrenza della fattispecie disciplinata da tale ultima norma.
4.- Con il quarto motivo di ricorso, illustrato da quesito di diritto, si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omesso e contraddittorio esame delle risultanze della c.t.u. e delle conseguenze ai fini dei danni della carenza di mala fede, violazione degli artt. 115, 116 e 195 cod. proc. civ. e art. 2043 cod. civ.. Si sostiene che la Corte d’appello abbia determinato l’ammontare del risarcimento del danno senza tenere conto degli errori commessi dalle strutture ospedaliere e dallo stesso infortunato nonché liquidando anche i danni morali, pur non risultando provate la mala fede o la scorrettezza della società.

2 – Esame dei motivi.

5- I motivi di ricorso da esaminare congiuntamente, data la loro intima connessione – non sono da accogliere, per le ragioni di seguito precisate.

5.1- Con i primi due motivi si censurano le statuizioni della Corte partenopea in ordine alla qualificazione della domanda nonché al conseguente mancato mutamento del rito di trattazione della causa.
5.1.1- Va ricordato, al riguardo, che in base a consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte:

a) l’interpretazione della domanda giudiziale è operazione riservata al giudice del merito, il cui giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità quando sia motivato in maniera congrua e adeguata, avendo pertanto riguardo all’intero contesto dell’atto, senza che ne risulti alterato il senso letterale e tenendo conto della sua formulazione testuale nonché del contenuto sostanziale, in relazione alle finalità che la parte intende perseguire (Cass. 2 novembre 2005, n. 21208; Cass. 27 luglio 2010, n 17547);

b) in sede di legittimità, occorre tenere distinta l’ipotesi in cui venga lamentato l’omesso esame di una domanda da quella in cui si censuri l’interpretazione data alla domanda stessa, ritenendosi in essa compresi, o esclusi, alcuni aspetti della controversia in base ad una considerazione non condivisa dalla parte: mentre nel primo caso si verte propriamente in tema di violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e la Corte di cassazione ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini della pronuncia richiestale, nell’altro caso, invece, poiché l’interpretazione della domanda e l’individuazione della sua ampiezza e del suo contenuto integrano un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, alla Corte è devoluto soltanto il compito di effettuare il controllo della correttezza della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata (Cass. 26 aprile 2001, n. 6066; Cass. 9 giugno 2003, n. 9202; Cass. 20 agosto 2003, n. 12255; Cass. 22 gennaio 2004, n. 1079);

c) ricorre la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. solo quando il giudice, integrando o sostituendo in tutto o in parte gli elementi della causa petendi, ponga a fondamento della pronunzia un fatto giuridico costitutivo diverso da quello dedotto dall’attore e dibattuto in giudizio (Cass. 16 luglio 2002, n. 10316; Cass. 25 luglio 2011, n. 16190);

d) comunque, al giudice compete il potere-dovere di qualificare giuridicamente razione e di attribuire, anche in difformità rispetto alla qualificazione della fattispecie operata dalle parti, il nomen iuris al rapporto dedotto in giudizio, con la conseguenza che il giudice stesso può interpretare il titolo su cui si fonda la controversia ed anche applicare una norma di legge diversa da quella invocata dalla parte interessata, ma, onde evitare di incorrere nel vizio di ultrapetizione, non deve attribuire un bene diverso da quello domandato ne’ introdurre nel tema controverso nuovi elementi di fatto (Cass. 1 settembre 2004, n. 17610; Cass. 24 maggio 2005, n. 10922; Cass. 17 luglio 2007, n. 15925);

e) in particolare, in tema di risarcimento del danno per sinistro verificatosi durante la prestazione lavorativa, il risarcimento può essere richiesto al datore di lavoro con due distinte azioni una proposta a titolo di responsabilità contrattuale e l’altra a titolo di responsabilità extracontrattuale, la scelta tra le due azioni e l’eventuale loro esercizio cumulativo nel processo rientrano nel potere dispositivo della parte, con la conseguenza che, ove la parte opti per una di esse, non è consentito al giudice, in violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., sostituirsi all’attore nella scelta che avrebbe potuto operare ed accogliere la domanda in base ad un titolo diverso (Cass. 6 agosto 2002, n. 11766; Cass. 29 settembre 2003, n. 14498);

f) peraltro, ove la suddetta opzione non sia stata specificamente effettuata dal lavoratore che agisce in giudizio per ottenere il risarcimento del danno derivante dalla lesione del diritto all’integrità personale conseguente ad un sinistro verificatosi durante la prestazione lavorativa, al fine di qualificare l’azione come proposta a titolo di responsabilità contrattuale del datore di lavoro non rileva il mero richiamo dell’art. 2087 cod. civ. o delle altre disposizioni legislative strumentali alla protezione delle condizioni di lavoro, occorrendo, invece, la specifica deduzione di un comportamento inadempiente del datore di lavoro, dal quale, secondo la prospettazione attorea, sia derivato il danno lamentato (Cass. 27 luglio 2010, n. 17547; Cass. SU 8 luglio 2008, n 18623; Cass. SU 11 luglio 2001, n. 9385);

g) inoltre, la scelta del rito così come il relativo mutamento si collegano alla qualificazione giuridica del rapporto controverso e competono esclusivamente al giudice che vi procede con un esame prima facie dell’oggetto del giudizio sulla base delle asserzioni iniziali delle parti senza dover procedere ad ulteriori indagini (arg. ex Cass. SU 25 febbraio 2011, n. 4617; Cass. 15 febbraio 2011, n. 3712 Cass. 25 maggio 2009, n. 11998; Cass. 26 febbraio 008, n. 4954; Cass.14 gennaio 2005, n. 682);

h) peraltro, la ripartizione delle funzioni fra le sezioni lavoro e le sezioni ordinarie di un organo giudicante è estranea al concetto di competenza e attiene alla distribuzione degli affari all’interno dello stesso ufficio (Cass. 9 agosto 2004, n. 15391; Cass. 23 settembre 2009, n. 20494).

5.1.2- In base ai suddetti principi si rileva, in primo luogo, che, nella specie, non viene in considerazione l’eventuale violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in quanto i ricorrenti non si dolgono dell’omesso esame di una domanda, ma censurano l’interpretazione data alla domanda giudiziale in oggetto, sull’assunto secondo cui in essa avrebbero dovuto considerasi compresi gli elementi che sono propri dell’azione per risarcimento del danno da infortunio sul lavoro da responsabilità contrattuale del datore di lavoro, come tale da trattare da parte del giudice del lavoro con il rito speciale. Conseguentemente – diversamente da quel che accade nel primo caso nel quale vertendosi propriamente in tema di violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. questa Corte ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini della pronuncia richiestale – nella presente situazione, invece, poiché l’interpretazione della domanda e l’individuazione della sua ampiezza e del suo contenuto integrano un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, a questa Corte è devoluto soltanto il compito di effettuare il controllo della correttezza della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata. Tale controllo non può non avere esito positivo. Dalla lettura della sentenza impugnata risulta, infatti, che la Corte d’appello – uniformandosi ai surriportati orientamenti della giurisprudenza di legittimità e dandone conto con motivazione congrua e logica – ha effettuato l’apprezzamento di fatto – di propria competenza – finalizzato alla qualificazione della domanda giudiziale – cui consegue quella del rito di trattazione della causa – facendo derivare la scelta di ravvisare nella domanda del lavoratore un’azione di responsabilità extracontrattuale, dall’assenza di riferimenti specifici al mancato rispetto da parte del datore di lavoro dell’obbligo di sicurezza, inteso come espressione tipica della regolamentazione contrattuale. Ne consegue che i primi due motivi di ricorso non sono fondati.

5.2.- Anche il terzo e il quarto motivo di ricorso non sono da accogliere. Nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge – contenuto espressamente nell’intestazione del quarto motivo e implicitamente nell’intestazione del terzo motivo – tutte le censure si risolvono nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti. Al riguardo va ricordato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicché le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante: Cass. 20 aprile 2011, n. 9043; Cass.13 gennaio 2011, n. 313; Cass. 3 gennaio 2011, n. 37; Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731; Cass. 21 agosto 2006, n. 18214; Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436; Cass. 27 aprile 2005, n. 8718). Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal Giudice di appello sono congruamente motivate e l’iter logico- argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione.

5.2.1 – In particolare, va sottolineato che la Corte d’appello è pervenuta alla conclusione della sussistenza del nesso di causalità materiale tra la condotta del datore di lavoro e il sinistro occorso al lavoratore – sulla base di un accertamento che, peraltro, si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità, se, come nella specie, informato ad esatti criteri logici e di diritto in conformità con il costante orientamento di questa Corte in materia, secondo cui il giudice del merito per stabilire se sussista il nesso di causalità materiale – richiesto dall’art. 2043 cod. civ. in tema di responsabilità extracontrattuale – tra un’azione o un’omissione ed un evento deve applicare il principio della conditio sine qua non, temperato da quello della regolarità causale, sotteso agli artt. 40 e 41 cod. pen.. In particolare, in base al principio di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla scorta del quale, all’interno della serie causale, occorre dare rilievo solo a quegli eventi che non appaiono – ad una valutazione ex ante – del tutto inverosimili. Pertanto, ai fini della riconducibilità dell’evento dannoso ad un determinato comportamento, non è sufficiente che tra l’antecedente ed il dato consequenziale sussista un rapporto di sequenza, essendo invece necessario che tale rapporto integri gli estremi di una sequenza possibile, alla stregua di un calcolo di regolarità statistica, per cui l’evento appaia come una conseguenza non imprevedibile dell’antecedente (Cass. 7 luglio 2009, n. 15895; Cass. 6 aprile 2006, n. 8096; Cass. 11 maggio 2009, n. 10741). In altri termini, diversamente da quel che avviene in materia di responsabilità penale, in tema di illecito extracontrattuale, il nesso di causalità deve essere ritenuto sussistente non solo quando il danno possa considerarsi conseguenza inevitabile della condotta, ma anche quando ne sia conseguenza altamente probabile e verosimile (vedi per tutte, da ultimo: Cass. 30 ottobre 2009, n. 23059). Ovviamente, ciò vale anche nell’ipotesi in cui si faccia valere nei confronti del datore di lavoro la violazione del generale obbligo di neminem laedere espresso dall’art. 2043 cod. civ. (la cui violazione è fonte di responsabilità extracontrattuale), al cui rispetto egli è tenuto al pari del più specifico obbligo di protezione dell’integrità psico-fisica del lavoratore sancito dall’art. 2087 cod civ. ad integrazione ex lege delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro (la cui violazione determina l’insorgenza di una responsabilità contrattuale). Tali due tipi di responsabilità, pur essendo differenziati dalla loro diversa natura – che, fra l’altro, implica, dal punto di vista processuale, l’applicazione di un differente regime probatorio – sono comunque accomunati dalla necessità della sussistenza del dolo o della colpa (Cass. 24 febbraio 2006, n. 4184; Cass. 7 novembre 2007, n. 23162) e possono anche concorrere (vedi per tutte: Cass. 20 gennaio 2000, n 601; Cass.20 giugno 2001, n. 8381; Cass. 27 giugno 2011, n. 14107).
Infatti, con l’azione di responsabilità contrattuale si fa valere il mancato adempimento dell’obbligo datoriale, stabilito dall’art. 2087 cod. civ., di adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei dipendenti, mentre con l’azione di responsabilità extracontrattuale dello stesso datore di lavoro si fa valere la lesione conseguente all’infortunio sul lavoro dei diritti che spettano alla persona del lavoratore indipendentemente dal rapporto di lavoro (Cass. 20 gennaio 2000, n. 601 cit.). La più significativa differenza tra le due suddette azioni è rappresentata dal fatto che quella contrattuale si fonda sulla presunzione di colpa stabilita dall’art. 1218 cod. civ., mentre l’azione extracontrattuale pone a carico del danneggiato la prova della colpa o del dolo dell’autore della condotta lesiva (Cass. 26 giugno 2009, n. 15078; Cass. 19 luglio 2007, n. 16003). Da tale differenza non può certamente desumersi che, nel caso di azione tipo extracontrattuale, ai fini della sussistenza della colpa datoriale, non possa farsi riferimento a alla mancata adozione di tutte le cautele necessarie ad evitare il danno in relazione al tipo di operazione richiesta al dipendente e ai rischi intrinseci alla stessa.
Infatti, il fatto generatore del danno è sempre il medesimo, sia che il lavoratore agisca ai sensi dell’art. 2087 cod. civ. sia che agisca in base all’art. 2043 cod. civ. sicché la colpa nei due suddetti casi non può considerarsi “ontologicamente” diversa e così come, quando si utilizza l’azione contrattuale, la mera osservanza delle misure di protezione individuale imposte dalla legge può, nei singoli casi, non risultare sufficiente ad escludere la colpa del datore di lavoro, analogamente, nell’ipotesi di azione extracontrattuale, ben può farsi riferimento alla negligenza nella valutazione dei pericoli connessi al tipo di lavorazione richiesto al dipendente, come ha fatto, nella specie, la Corte partenopea.
5.2.2.- Per quel che riguarda, in particolare il quarto motivo, si rileva che esso risulta formulato in contrasto con il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione secondo cui:

a) in generale, il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, provvedendo alla loro trascrizione, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, la S.C. deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (Cass. 30 luglio 2010, n. 17915);

b) in particolare, in caso di ricorso per cassazione per vizio di motivazione, la parte che addebita alla consulenza tecnica d’ufficio lacune di accertamento o errori di valutazione oppure si duole di erronei apprezzamenti contenuti in essa (o nella sentenza che l’ha recepita) ha l’onere di trascrivere integralmente nel ricorso per cassazione almeno i passaggi salienti e non condivisi e di riportare, poi, il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di evidenziare gli errori commessi dal giudice del merito nel limitarsi a recepirla e nel trascurare completamente le critiche formulate in ordine agli accertamento ed alle conclusioni del consulente d’ufficio. Le critiche mosse alla consulenza ed alla sentenza devono pertanto possedere un grado di specificità tale da consentire alla Corte di legittimità di apprezzarne la decisività direttamente in base al ricorso (Cass. 13 giugno 2007, n. 13845; Cass. 22 febbraio 2010, n. 4201);

c) il giudice del merito non è tenuto ad esporre in modo puntuale le ragioni della propria adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, potendo limitarsi ad un mero richiamo di esse, soltanto nel caso in cui non siano mosse alla consulenza precise censure, alle quali, pertanto, è tenuto a rispondere per non incorrere nel vizio di motivazione. Tale vizio è però denunciabile, in sede di legittimità, solo attraverso una indicazione specifica delle censure non esaminate dal medesimo giudice (e non già tramite una critica diretta della consulenza stessa), censure che, a loro volta, devono essere integralmente trascritte nel ricorso per cassazione al fine di consentire, su di esse, la valutazione di decisività (Cass. 6 settembre 2007, n. 18688). Dalle suesposte considerazioni si desume che le doglianze mosse dai ricorrenti con il terzo e il quarto motivo ~ nei limiti in cui la loro formulazione può considerasi adeguata – si risolvono sostanzialmente nella prospettazione di un diverso apprezzamento delle stesse prove e delle stesse circostanze di fatto già valutate dal Giudice del merito in senso contrario alle aspettative dei ricorrenti medesimi e si traducono nella richiesta di una nuova valutazione del materiale probatorio, del tutto inammissibile in sede di legittimità.

3 – Conclusioni.

6 – In sintesi, il ricorso deve essere respinto. […]