Consiglio di Stato, Sez. Quarta, Sentenza n. 5128 del 2018, pubbl. 31/08/2018

[…]

FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso proposto innanzi al T.a.r. per la Campania, Sezione VI, il signor […] ha chiesto l’annullamento del provvedimento, del 30 marzo 2009, con il quale il Comune di […] ha dichiarato “irricevibile e improcedibile” la sua richiesta di condono di opere edilizie abusive del 14 dicembre 2004 e ordinato il ripristino dello stato dei luoghi.
2. A sostegno di tale impugnazione ha dedotto, inter alia, l’erronea indicazione del numero di protocollo della domanda di sanatoria nonché il difetto di motivazione e l’omessa comunicazione di avvio procedimentale.
3. Il Tribunale, costituitasi l’Amministrazione, con la sentenza in forma semplificata di cui in epigrafe (n. 4010 del 16 luglio 2009), ha respinto il ricorso e condannato il ricorrente alle spese di giudizio (€ 1.500,00 oltre accessori di legge), osservando che:
– “l’indicazione di un numero di protocollo diverso da quello ritenuto corretto dal ricorrente dipende dalla procedura di ricezione delle istanze da parte dell’Ente”;
– “il provvedimento di rigetto del condono, contrariamente a quanto asserito da parte ricorrente, è adeguatamente motivato in relazione alla contrarietà dell’opera in questione –comportante un indubbio aumento volumetrico- tanto alla normativa urbanistica quanto a quella paesistica”;
– “la vincolatezza del provvedimento di demolizione rende superflua e non dovuta una puntuale motivazione del relativo ordine essendo sufficiente l’aver evidenziato la violazione del regime vincolistico”;
– “parimenti, l’obbligo di previa comunicazione di avvio del procedimento non si applica ai provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, considerato il loro carattere doveroso”.
4. Avverso tale pronuncia, il signor […] ha interposto appello, ritualmente notificato il 24 luglio 2009 e depositato in pari data, articolando cinque motivi di gravame (pagine 5 – 18) nei termini di seguito sintetizzati:
I) le opere oggetto della domanda di condono, consistenti nell’ampliamento di una unità immobiliare preesistente attraverso la chiusura del loggiato, sono preesistenti alla imposizione dei vincoli di inedificabilità assoluta ritenuti ostativi dal Tribunale;
II) l’intervento non è sanzionabile ai sensi dell’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001 in quanto qualificabile come ristrutturazione edilizia, intervento per il quale l’art. 9 della legge n. 47 del 1985 prevede sì l’ingiunzione demolitoria ma con la possibilità di irrogare la sanzione pecuniaria se il ripristino non risulti possibile;
III) l’Amministrazione ha violato l’art. 34 del T.U. Edilizia, censura sulla quale il Tribunale ha omesso di pronunciarsi, non avendo tenuto conto del reale pregiudizio che la demolizione può arrecare alla parte legittima del fabbricato preesistente;
IV.1.) nel provvedimento originariamente impugnato “non vi è traccia né dell’avvenuto accertamento di una delle possibilità di ripristino dello stato dei luoghi nel caso di specie né della possibilità di comminare una sanzione pecuniaria piuttosto che ricorrere a quella demolitoria”;
IV.2.) l’ordine di demolizione non è assistito da adeguata motivazione in considerazione del tempo trascorso dalla commissione dell’abuso;
V) “non si comprende se vi è stata o meno una valutazione da parte della amministrazione in termini di bilanciamento tra l’interesse pubblico e quello privato”.
5. In data 5 agosto 2009 si è costituito il Comune di […] al fine di resistere.
6. Con decreto presidenziale n. 3838 del 24 luglio 2009, la domanda cautelare è stata accolta nelle more della discussione collegiale.
7. Con ordinanza collegiale n. 4421 del 28 agosto 2009, l’istanza di sospensione della sentenza impugnata è stata respinta con la seguente motivazione: “Considerato che, ad un primo sommario esame, il ricorso non pare sorretto dal prescritto fumus, dal momento che legittimamente è stato emesso il diniego di condono in relazione ad un abuso edilizio realizzato in zona vincolata (zona M12 parco archeologico – naturale) e a “protezione integrale”.
8. In vista della trattazione di merito la parte appellante ha depositato memoria insistendo per l’accoglimento del gravame.
9. L’appello, discusso all’udienza pubblica del 19 luglio 2018, non merita accoglimento.
9.1. Col primo motivo d’appello, come sinteticamente esposto in narrativa, l’appellante critica la sentenza impugnata evidenziando l’erroneità della statuizione di merito del Tribunale in ordine all’infondatezza delle censura, avente rilievo centrale nell’economia del ricorso di primo grado, della preesistenza delle opere rispetto all’imposizione del vincolo di inedificabilità di cui al P.T.P. del 1999, richiamato dall’Amministrazione in sede di diniego. L’appellante soggiunge che il vincolo paesaggistico, interessante l’intero territorio comunale, introdotto ai sensi della legge n. 1497 del 1939 con il D.M. del 1957, non avrebbe carattere ostativo secondo quanto previsto dall’art. 32 della legge n. 47 del 1985.
9.1.1. La disamina del rilievo sollevato dall’appellante non può prescindere dalla preliminare ricognizione del criterio distributivo dell’onere della prova; sul punto, secondo consolidato orientamento di questo Consiglio, vale il principio secondo cui “L’onere della prova circa l’ultimazione dei lavori entro la data utile per ottenere il condono grava sul richiedente la sanatoria, dal momento che solo l’interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di negare la sanatoria dell’abuso” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22 marzo 2018, n. 1837; 19 marzo 2018, n. 1711; 5 marzo 2018, n. 1391; 11 ottobre 2017, n. 4703).
9.1.2. Orbene, alla luce di tale criterio, che risulta peraltro coerente con il principio della vicinanza della prova ormai unanimemente riconosciuto, assume rilievo dirimente il mancato raggiungimento della dimostrazione circa l’anteriorità dell’intervento oggetto di condono alla data in cui è stata introdotta la disciplina vincolistica richiamata in seno alla motivazione del diniego, e ciò in considerazione delle risultanze che provengono dalla stessa documentazione versata in atti.
Difatti quanto evidenziato dall’appellante ai fini della sospirata retrodatazione delle opere non è in grado di superare l’univoco valore probatorio del provvedimento di sequestro del […] 2002, col quale la Polizia Municipale […] attestava, a quella data, l’esecuzione di opere edilizie in corso di realizzazione (“parzialmente intonacato e con predisposizione di impianto elettrico e porte scrigno”). Circa la collocazione temporale delle opere abusive in questione, la parte appellante si è infatti limitata a ricorrere ad affermazioni del tutto generiche (“durante gli anni ottanta vennero effettuate alcune opere di chiusura perimetrale”) ovvero a richiamare la perizia giurata del 21 luglio 1990 già prodotta in prime cure. Fermo restando che una perizia di parte, ancorché giurata, non è dotata di efficacia probatoria e pertanto non è qualificabile come mezzo di prova (Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., 20 novembre 2014, n. 640), la relazione peritale in questione si limita a valorizzare sul piano documentale quanto descritto nella relazione tecnica asseverata del 21 luglio 1990, ove si dichiara al Comune […], allegando documentazione fotografica, l’intenzione di eseguire sull’immobile, tra i vari interventi ivi descritti, la realizzazione di “nuovi intonaci alle murature esterne di chiusura del loggiato”. L’insufficienza di tale documentazione si deve innanzitutto al fatto che trattasi di una semplice manifestazione di volontà proveniente dalla stessa parte interessata (segnatamente il signor […], padre dell’appellante) in quanto tale priva di ogni attitudine probatoria. Inoltre, la consistenza delle opere descritte nel citato verbale di sequestro non comprende soltanto la tompagnatura del loggiato ma anche la “realizzazione di un manufatto in aderenza ad una preesistenza edilizia le cui dimensioni risultano essere 6x3x5” assumendo così caratteristiche diverse da quelle descritte nella menzionata dichiarazione. La portata probatoria di tale reperto documentale non può essere inficiata da generiche ed irrituali contestazioni, formulate dall’appellante circa l’erroneità della descrizione dei luoghi in esso contenuta, trattandosi di un atto pubblico assistito da fede privilegiata ai sensi dell’art. 2700 c.c. e pertanto, in assenza di querela di falso, idoneo a fornire piena prova.
9.1.3. Considerata la mancata dimostrazione circa l’esatta collocazione temporale della consumazione dell’illecito edilizio non può non tenersi conto della data cui risale la domanda di condono dell’appellante, ovverosia il 14 dicembre 2004, con la conseguenza che essa si inquadra nella cornice normativa della legge n. 326 del 2003, c.d. terzo condono edilizio, al fine di verificare la sussistenza dei presupposti di legge per il suo accoglimento.
9.2. Ordunque, nel prevedere la sanabilità degli abusi edilizi, la legge n. 326 del 2003 ha circoscritto l’ambito applicativo del condono rispetto a quello previsto dalla legge n. 47 del 1985, contenente la disciplina generale in materia, e dall’art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724. In particolare, sono rimasti esclusi dalla sanabilità gli abusi edilizi realizzati nelle zone vincolate o in violazione degli strumenti urbanistici (art. 32, commi 26 e 27). Nel caso di specie, l’opera abusiva insiste sul territorio del Comune […], che nella sua interezza è stato dichiarato di “notevole interesse pubblico” con D.M. del 12 settembre 1957. Inoltre ogni opera realizzata su detto territorio che comporti la creazione di volumi, ricade in area sottoposta ai vincoli di Protezione Integrale del P.T.P.. Le opere oggetto della domanda di sanatoria avanzata dall’appellante, quindi, sono state realizzate su un territorio sottoposto a vincolo paesaggistico e comportano un indubbio aumento volumetrico risultando così per entrambe tali ragioni non condonabili.
9.2.1. Per il primo profilo, questa Sezione ha avuto modo di rilevare che “Ai sensi dell’art. 32 comma 27 lett. d), d.l. 30 settembre 2003, convertito con modificazioni nella l. 24 novembre 2003, n. 326 , devono intendersi espressamente escluse dal condono edilizio le opere che siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici” (cfr. sez. IV, 12 marzo 2018, n. 1528). Ne consegue che il D.M. del 1957 assume autonomo carattere ostativo ai fini dell’ammissibilità a condono delle opere de quibus, trattandosi di un vincolo senz’altro introdotto prima dell’esecuzione dell’intervento edilizio.
9.2.2. La rilevanza plano-volumetrica di questo a sua volta assume rilievo ostativo, in quanto ai sensi dell’art. 32, comma 26, del d.l. n. 269 del 2003 convertito nella legge n. 326 del 2003, gli interventi edilizi effettuati su immobili situati in territori sottoposti a vincoli di notevole interesse pubblico paesaggistico possono essere condonati solo se siano consistiti in interventi minori quali opere di restauro, di risanamento conservativo e di manutenzione straordinaria.
9.2.3. Conclusivamente, l’abuso edilizio in questione non è suscettibile di essere condonato secondo le disposizioni della normativa di riferimento.
9.3. Infondato è anche il secondo motivo d’appello, col quale si assume che l’applicato art. 27 del d.P.R. n. 389 del 2001 non si attagli al caso di specie, in quanto, come correttamente osservato dal Tribunale, l’applicazione di tale norma trae fondamento dalla presenza di plurime disposizioni vincolistiche così come indicate nell’atto stesso rispetto ad opere che, è opportuno precisare, consistono nella realizzazione abusiva d’un ampliamento che altera la struttura e le dimensioni del preesistente “sì da apparire la dilatazione strutturale, funzionale e spaziale di quanto invece sarebbe dovuto essere nella realtà” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 4 giugno 2018, n. 3371). Trattasi quindi di un intervento che comporta un quid novi in termini costruttivi tanto rilevante da renderlo in radice non riconducibile alla nozione di ristrutturazione di un edificio preesistente.
9.4. Con il terzo motivo d’appello si lamenta che il Tribunale ha trascurato la disamina della deduzione relativa alla violazione e falsa applicazione dell’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) insistendo quindi per il suo accoglimento.
9.4.1. Preliminarmente il Collegio rileva che un’eventuale omissione di pronuncia su una o più delle censure articolate con il ricorso di primo grado non giustifica la rimessione della causa al primo giudice ai sensi dell’art. 105 c.p.a.. Infatti, secondo la giurisprudenza consolidata del giudice di appello – che la Sezione condivide e fa propria – “Nel processo amministrativo l’omessa pronuncia, da parte del giudice di primo grado, su censure e motivi di impugnazione costituisce tipico errore di diritto per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, deducibile in sede di appello sotto il profilo della violazione del disposto di cui all’ art. 112 c.p.c. , che è applicabile al processo amministrativo con il correttivo secondo il quale l’omessa pronuncia su un vizio del provvedimento impugnato deve essere accertata con riferimento alla motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, cosicché essa può ritenersi sussistente soltanto nell’ipotesi in cui risulti non essere stato esaminato il punto controverso e non quando, al contrario, la decisione sul motivo d’impugnazione risulti implicitamente da un’affermazione decisoria di segno contrario ed incompatibile; peraltro, l’omessa pronuncia su una o più censure proposte con il ricorso giurisdizionale non configura un error in procedendo, tale da comportare l’annullamento della decisione, con contestuale rinvio della controversia al giudice di primo grado ex art. 105, comma 1, c.p.a ., ma solo un vizio dell’impugnata sentenza che il giudice di appello è legittimato ad eliminare, integrando la motivazione carente o, comunque, decidendo sul merito della causa; non rientrando l’omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado su un motivo del ricorso, nei casi tassativi di annullamento con rinvio, ne consegue che, in forza del principio devolutivo ( art. 101, comma 2 c.p.a .), il Consiglio di Stato decide, nei limiti della domanda riproposta, anche sui motivi di ricorso non affrontati dal giudice di prime cure” (cfr. Cons. Stato, sez. III, 07 febbraio 2018, n. 782).
9.4.2. Fatta questa doverosa premessa, si deve ravvisare l’infondatezza del rilievo in esame, col quale si assume che l’Amministrazione, ai sensi dell’art. 34 cit., avrebbe omesso la doverosa preventiva verifica circa la materiale possibilità di demolire senza pregiudizio delle parti del fabbricato edificate legittimamente, in quanto, come da costante orientamento di questo Consiglio, “La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria deve essere valutata dall’Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione: il dato testuale della legge è univoco ed insuperabile, in coerenza col principio per il quale, accertato l’abuso, l’ordine di demolizione va senz’altro emesso” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 23 novembre 2017 n. 5472). Inoltre l’art. 34 invocato dall’appellante disciplina gli interventi alle opere realizzate in parziale difformità dal permesso di costruire, prevedendo al secondo comma che “quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione”; la norma presuppone che vengano in rilievo gli stessi lavori edilizi posti in essere a seguito del rilascio del titolo e in parziale difformità da esso e non è quindi applicabile alle opere realizzate senza titolo per ampliare un manufatto preesistente (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 1 giugno 2016, n. 2325; n. 3371 cit.).
9.4.3. Destituiti di fondamento sono anche gli ultimi due motivi d’appello, suscettibili per il loro tenore di trattazione congiunta, coi quali si lamenta il difetto di motivazione, anche in punto di interesse pubblico, e di partecipazione procedimentale.
9.4.4. Occorre premettere che ai sensi dell’art. 27, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertato l’inizio o l’esecuzione di opere eseguite senza titoli su aree vincolate, provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi. La norma fonda quindi un potere che l’Amministrazione è chiamata ad esercitare senza la previsione di alcun margine di discrezionalità. In data 30 marzo 2009, facendo seguito alla richiesta di condono avanzata dall’appellante, il Comune […] adottava un provvedimento, con il quale la richiesta era dichiarata “irricevibile e improcedibile” e si ordinava il ripristino dello stato dei luoghi, secondo quando previsto dall’art. 27 co. 2 cit..
9.4.5. In sede motivazionale l’Amministrazione evidenziava che l’abuso edilizio insisteva su un territorio dichiarato sin dal 1957 di notevole interesse pubblico nonché il fatto che “l’area interessata in riferimento al P.R.G. vigente ricade in zona – M12 – Parco archeologico naturale del […] la cui normativa è riportata all’art. 59 delle norme di attuazione annesse a detto piano che non consente tale tipo di intervento. In riferimento al P.T.P. vigente l’area ricade in zona P.I. Protezione Integrale regolamentata dall’art. 11 delle norme di tutela che vieta qualsiasi intervento che comporti incremento dei volumi esistenti”. L’intervento edilizio era quindi ritenuto “non assentibile ai sensi dell’art. 36 T.U. del testo unico e non è per niente configurabile in alcuna delle ipotesi di condono”.
9.4.6. La formula sintattica che accompagna il provvedimento risulta quindi ampiamente articolata e dalla indubbia efficacia ostensiva, con conseguente insussistenza del lamentato difetto motivazionale, evidenziandosi il contrasto delle opere sia con la disciplina urbanistica che paesaggistica così come esattamente individuate. Per costante e consolidato orientamento di questa Sezione la repressione di abusi edilizi costituisce un atto vincolato, la cui motivazione soddisfa i requisiti di legge anche quando si riduce all’affermazione dell’accertata irregolarità dell’intervento, risultando superflua ogni specifica comparazione tra l’interesse pubblico e gli interessi privati coinvolti o sacrificati (Cons. Stato, Sez. IV, 27.04.2004, n. 2529; recentemente 28 febbraio 2017, n. 908).
9.4.7. La vista natura vincolata del potere esercitato comporta inoltre che non sia dovuta la previa comunicazione dell’avvio del procedimento. Ma l’infondatezza dei rilievi afferenti al difetto di motivazione ed alla obliterazione delle garanzie procedimentali si deve anche all’insegnamento della recente Adunanza plenaria 17 ottobre 2017, n. 9; successivamente si veda la prima applicazione fattane da Cons. Stato, sez. IV, 29 novembre 2017, n. 5595 nonché Cons. Stato n. 2799 del 2018), secondo cui “l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l’interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 12 dicembre 2016, n. 5198), né un’ampia motivazione”. Né può rilevare a circostanza relativa al decorso di un notevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso, in quanto “La repressione degli abusi edilizi costituisce espressione di attività strettamente vincolata, potendo la misura repressiva intervenire in ogni tempo, anche a notevole distanza dall’epoca della commissione dell’abuso. Non sussiste quindi alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto, quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l’epoca della commissione dell’abuso e la data dell’adozione dell’ingiunzione di demolizione, poiché l’ordinamento tutela l’affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione e il consapevole mantenimento in loco di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del privato “contra legem”” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 3 ottobre 2017, n. 4580).
9.4.8. Nemmeno può configurarsi la violazione delle garanzie procedimentali integrate dall’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990, norma che l’appellante assume obliterata ai fini dell’adozione del provvedimento di diniego della domanda di condono, in quanto, per le suesposte ragioni che hanno condotto alla reiezione delle critiche sollevate dall’appellante, non si configura la possibilità di un qualsiasi apporto collaborativo, capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda. La ricaduta patologica di tale lamentata violazione è quindi sterilizzata dall’applicazione dell’art. 21 octies del medesimo corpus normativo, norma che ben si attaglia anche alla pretermissione del preavviso di diniego (Cons. Stato, sez. IV, 16 giugno 2017, n. 2953).
10. In conclusione, l’appello è infondato e deve essere respinto […]