Consiglio di Stato, Sezione Sesta, Sentenza n. 254 del 2020, pubb, il il 10/01/2020

[…]

FATTO

1. La società […] ha proposto appello avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sezione […]-/2013, con la quale è stato respinto il ricorso proposto dalla stessa per l’annullamento del provvedimento di ingiunzione a demolire emesso dal Comune […] in data … 2009, avente ad oggetto la realizzazione abusiva, frazionando due preesistenti fabbricati, di cui uno a destinazione agricola, di 18 appartamenti, con conseguente condanna al pagamento delle spese di giudizio.

2. In particolare, il Tribunale adìto ha ritenuto non invocabile il silenzio assenso di cui agli artt. 38 e 44 della l. n. 47/1985 sull’istanza di condono avanzata al riguardo, in quanto l’avvenuta verifica dei lavori come in corso alla data del sopralluogo della Polizia municipale ne escluderebbe l’applicabilità; la natura necessitata del provvedimento sanzionatorio adottato non ne renderebbe necessario il richiesto supplemento di motivazione in relazione all’interesse pubblico sotteso alla sua adozione.

2. Nei motivi di ricorso la Società ha sostanzialmente riproposto in chiave critica le doglianze di primo grado, lamentandone l’omessa o erronea valutazione da parte del giudice di prime cure. In particolare, il Tribunale avrebbe omesso di pronunciarsi sulla necessità che il Comune sospendesse il procedimento sanzionatorio all’esito dell’avvenuta presentazione della domanda di condono, siccome imposto dagli artt. 38 e 44 della l. n. 47/1985 (primo motivo del ricorso di primo grado). Esso infatti si sarebbe concentrato esclusivamente sulla questione della formazione del silenzio assenso, costituente distinto ed autonomo motivo di ricorso, addivenendo peraltro a conclusioni esse pure sbagliate in quanto presupponenti la pendenza dei lavori, per contro tutt’affatto che provata ed emergente dalla documentazione in atti. Il lungo lasso di tempo intercorso tra l’esecuzione delle opere (fine 2002) e l’accertamento dell’abuso (2009) avrebbe imposto, diversamente da quanto sostenuto dal T.A.R., la motivazione dell’interesse pubblico sotteso al provvedimento e destinato a prevalere sull’affidamento nel frattempo ingeneratosi nel privato. L’ordinanza infine era viziata da eccesso di potere per difetto di motivazione anche in relazione ai contenuti effettivi dell’intimazione, non risultando chiaramente individuati, stante la genericità della relativa formulazione, gli immobili da demolire e le “opere non previste” e come tali da considerare abusive. Essendo le opere effettuate comunque interne ai due fabbricati, esse andavano qualificate come di ristrutturazione edilizia, con ciò applicando l’art. 33 e non l’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, che prevede una sanzione pecuniaria, in luogo di quella demolitoria, ove quest’ultima risulti pregiudizievole per la parte di edificio realizzata legittimamente.

3. Si è costituito in giudizio il Comune […], insistendo per la conferma della sentenza di primo grado e la reiezione dell’appello. In relazione alla qualificazione giuridica dell’intervento riscontrato, nel contestare l’assunto di parte avversa per cui potrebbe parlarsi di ristrutturazione edilizia, ne ha ipotizzato finanche l’inquadramento come lottizzazione abusiva, visto l’effetto di “moltiplicazione” degli appartamenti realizzati conseguitone.

4. Con atto depositato in data 15 marzo 2017, la Società si costituiva in giudizio tramite nuovo difensore, giusta la rinuncia al mandato dei precedenti.

5. All’udienza pubblica del 26 novembre 2019, sentito l’avvocato dell’appellante, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. La Sezione ritiene che l’appello sia infondato e come tale da respingere.

2. Con un primo motivo di gravame la Società lamenta la mancata valutazione dell’asserita violazione della disciplina sul procedimento di condono, laddove prevede che la presentazione della relativa istanza comporti la necessaria sospensione di qualsivoglia procedimento sanzionatorio. Essendo dunque ridetta istanza stata presentata in data 31 marzo 2004, senza che a ciò abbia fatto seguito alcuna richiesta istruttoria integrativa da parte del Comune, non solo avrebbe cominciato a decorrere il termine per la maturazione del silenzio assenso, ma essa avrebbe dovuto essere considerata “utile” ai fini della sospensione dell’attività sanzionatoria. 2.1. L’assunto non è condivisibile.
Lamenta la Società che il T.A.R. per il Lazio, concentrandosi esclusivamente sulla tematica del silenzio assenso, avrebbe pretermesso completamente di scrutinare tale autonomo motivo di gravame. Rileva in contrario la Sezione come nel caso di specie, la motivazione sintetica seguita nel giudizio di prime cure, definito ex art. 60 c.p.a. in esito all’udienza cautelare, abbia efficacemente evidenziato il punto essenziale comune sotteso ai due distinti motivi di lagnanza, respingendoli congiuntamente.
La riscontrata mancata ultimazione dei lavori, infatti, facendo venir meno alla radice i presupposti di applicabilità della disciplina del condono, né consente di attribuire valenza all’istanza presentata allo scopo a fini di maturazione del silenzio assenso, né può comportare la sospensione del procedimento sanzionatorio. La sanatoria, infatti, ha quale presupposto di applicabilità l’avvenuta ultimazione dei lavori. La riscontrata mancanza di tale requisito “oggettivo” rende l’istanza presentata sostanzialmente tamquam non esset e l’opera realizzata sine titulo e come tale da sanzionare.


3. Dirimente, dunque, ma esaustivo di entrambi i profili di doglianza riproposti sub 1 e 2 nell’atto di appello è caso mai stabilire se il giudice di prime cure abbia effettivamente errato nel considerare come “in corso” i lavori edilizi, ovvero se, al contrario, come sostenuto dalla Società, la relativa circostanza sarebbe stata “considerata ingiustificatamente acquisita e dimostrata dal Tribunale” (pag. 7 dell’atto di appello). 3.1. Il giudice di prime cure ha dunque, al riguardo, affermato che «l’attività abusiva è stata rilevata in atto di svolgimento in data successiva alla presentazione della domanda di condono».
Ciò si porrebbe in contrasto, secondo la Società, con il tenore testuale del provvedimento impugnato, che reca la dicitura, con riferimento ai lavori, che gli stessi “erano stati seguiti”, escludendo espressamente, pertanto, che essi fossero in corso al momento del sopralluogo del 4 novembre 2008. A conferma del mancato riscontro probatorio della circostanza data per acclarata dal Tribunale, l’atto riferirebbe altresì della oggettiva impossibilità di verifica in loco, stante che con riferimento al sottotetto del fabbricato già destinato a civile abitazione si riporta che «non è stato possibile rilevare la superficie di detto piano in quanto una delle due unità abitative è risultata chiusa ».

4. Per consolidata giurisprudenza, l’onere di provare l’ultimazione del manufatto alla data utile per beneficiare del condono spetta all’interessato, poiché il periodo di realizzazione delle opere costituisce elemento fattuale rientrante nella disponibilità della parte che invoca la sussistenza del presupposto temporale per usufruirne (ex multis, Cons. Stato, sez. II, 11 novembre 2019, n. 7678). Al riguardo, non è sufficiente la sola dichiarazione sostitutiva dell’atto notorio, che deve essere supportata da ulteriori riscontri documentali, eventualmente indiziari, purché altamente probanti (Cons. Stato, sez. VI, 5 agosto 2013, n. 4075).
Nel caso di specie, la Società pretenderebbe di desumere tale circostanza non da documentazione obiettiva, anche fotografica, ma dallo stralcio strumentale dal contesto unitario del provvedimento sanzionatorio di singole espressioni lessicali, evidentemente utilizzate a solo scopo descrittivo. L’utilizzo, infatti, di un tempo verbale coniugato al passato (i lavori “erano stati eseguiti”), lungi dal comportare l’ammissione, pur implicita, della loro riscontrata ultimazione, indica semplicemente gli esiti del sopralluogo (già) effettuato, le cui risultanze vengono peraltro espressamente richiamate per relationem.
Rispetto, dunque, a tale oggettiva evenienza, dall’esame del fascicolo di primo grado non risulta prodotta alcuna documentazione fotografica dello stato dei luoghi al 31 marzo 2003 che possa dirsi di data certa; la parte, cioè, non ha provato l’ultimazione delle opere alla data utile ultima per beneficiare della sanatoria, anche indipendentemente dall’accertamento effettuato dalla Polizia municipale in sede di sopralluogo nel 2008. Né tale ripartizione dell’onere della prova può subire inversioni, come pure sostenuto dall’appellante, laddove si tratti di scrutinare la sussistenza dei presupposti del silenzio assenso, con ciò onerando della prova degli elementi impeditivi dello stesso l’Amministrazione: l’avvenuta ultimazione dei lavori nel tempo indicato come utile dal legislatore, per quanto già detto, è, infatti, “pre” requisito di ammissibilità della domanda di condono, la cui disciplina procedurale non è neppure evocabile, laddove non ne sia dimostrata la sussistenza.

5. Nel caso di specie, dunque, a fronte dell’incontestata mancanza di ridetta prova da parte della Società, il Comune ha posto a base dell’ingiunzione a demolire gli esiti, facenti prova fino a querela di falso, del sopralluogo effettuato dalla Polizia municipale in data 4 novembre 2008: un eventuale errore empirico in suddette rilevazioni, non risulta né provato dall’appellante, né semplicemente affermato, insistendo la stessa solo sulla circostanza –irrilevante ai fini del giudizio complessivo- che “alcuni appartamenti risultavano già occupati in forza di regolari contratti di locazione”, senza con ciò documentarne, ad esempio, la decorrenza da data anteriore a quella di presunta ultimazione delle opere (2002, ovvero comunque entro il 31 marzo 2003).
Solo per completezza, infine, il Collegio ricorda ancora come l’esito del ridetto sopralluogo sia sfociato altresì in un procedimento penale nel contesto del quale il complesso immobiliare è stato oggetto di sequestro, con ciò ulteriormente “cristallizzando” la situazione come in itinere, pur dando doverosamente atto della presenza, in alcune unità immobiliari all’interno del fabbricato già di civile abitazione (contrassegnato con la lettera “A”), di elementi di arredo tali da farne presumere l’occupazione a fini abitativi al momento dello stesso.

6. Resta da dire degli ulteriori motivi di ricorso, anch’essi scrutinabili congiuntamente, attenendo comunque all’asserita carenza motivazionale dell’atto avversato, ancorché sotto distinti profili: da un lato, infatti, non sarebbe stato specificato l’interesse pubblico all’adozione del provvedimento, sopraggiunto a notevole distanza di tempo dalla (asserita) realizzazione delle opere o comunque dalla richiesta di sanarle; dall’altro la sua genericità non consentirebbe l’esatta individuazione della parte di esse oggettivamente qualificata come abusiva, a ciò conseguendo, quale precipitato applicativo ulteriore, l’indebito ricorso a sanzione demolitoria, laddove, distinguendo la parte legittima da quella abusiva, si sarebbe potuto adire alla più lieve sanzione pecuniaria non ripristinatoria.

7. La Sezione ritiene il ricorso infondato anche sotto tali ulteriori profili.

8. La mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico – quale è, per l’appunto, quella del ripristino della legalità violata nelle attività di trasformazione edilizia del territorio – non è per certo idonea a far divenire legittimo ciò che è sin dall’origine illegittimo, ossia l’edificazione sine titulo. Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata. Infatti la sanzione repressiva in materia edilizia costituisce atto dovuto della pubblica amministrazione, riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata; né tale necessaria previa comparazione dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso – che è in re ipsa – con l’interesse del privato proprietario del manufatto si impone quand’anche l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso ( cfr. ex plurimis Cons.Stato, sez. VI , 9 aprile 2019, n. 2329; sez. II, 24 giugno 2019, n. 4315).

9. Il provvedimento impugnato, infine, risulta adeguatamente motivato anche in relazione all’individuazione delle opere come abusive: in esso, infatti, distintamente per i due fabbricati (“fabbricato per civile abitazione” e “fabbricato agricolo”) vengono indicate le unità abitative (es., al piano seminterrato del primo fabbricato n. 4 unità abitative ed un locale adibito a magazzino e ricovero attrezzi) e le difformità riscontrate ( “non previsto nei grafici progettuali”, ovvero “piano terra dove sono state individuate n. 2 unità abitative in luogo di una prevista”), il che appare sufficiente in tale fase del procedimento, dovendo più analitiche prospettazioni conseguire caso mai agli atti successivi finalizzati all’acquisizione del bene al patrimonio comunale. Particolarmente efficace, peraltro, risulta infine la sintesi descrittiva finale ove si riferisce della riscontrata «incongruenza fra il numero delle unità abitative (18) e il numero di domande di sanatoria edilizia presentate (15) ».

10. La consistenza dell’intervento, che si è concretizzato nella radicale trasformazione dei due immobili originari, dei quali uno ha subito anche modifica di destinazione d’uso, da agricola a civile abitazione, non ne consente la frammentazione invocata dall’appellante, imponendo, al contrario, la valutazione globale dello stesso. La mancanza di indicazioni quanto meno sulla discontinuità cronologica di realizzazione degli interventi, in uno con l’unicità dei complessi immobiliari su cui incidono, rende le opere realizzate necessariamente un unicum: diversamente opinando, si legittimerebbero attraverso artificiosi frazionamenti concettuali corpose trasformazioni del territorio, con ciò di fatto aggirando la norma che vuole titoli di legittimazione diversificati in ragione della consistenza degli interventi, sia ex novo, sia se destinati ad incidere sul patrimonio edilizio preesistente.

11. La qualificazione giuridica dell’intervento viene da ultimo invocata dalla Società per contestare la mancata applicazione da parte del Comune […] dell’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, anziché dell’art. 31. Tale disposizione prevede, in caso di ristrutturazione edilizia eseguita in assenza di permesso o in totale difformità da esso, l’irrogabilità della sanzione pecuniaria in luogo della demolizione, nell’eventualità che non sia possibile la rimessione in pristino, come ipotizzato avverrebbe nella fattispecie. 11.1. Il Collegio ritiene che nel caso di specie ben difficilmente, vista la consistenza dell’intervento, potrebbe ipotizzarsi una mera ristrutturazione edilizia: pur senza sfociare nella evocata lottizzazione abusiva, astrattamente configurabile ma di fatto non contestata, infatti, l’accertamento svolto dal Comune […] ha evidenziato opere edilizie abusive che hanno portato alla realizzazione di volumi e superfici che hanno dato luogo ad un nuovo organismo edilizio con modificazione dell’originaria destinazione d’uso agricola in residenziale, per il quale sarebbe stato necessario il rilascio di un idoneo titolo edilizio. Il discrimine tra ristrutturazione e realizzazione di nuovo organismo edilizio è chiaro nella giurisprudenza di questo Consiglio, secondo la quale per aversi ristrutturazione occorre che sia conservata la struttura fisica della costruzione preesistente o che questa sia oggetto di una ricostruzione se non fedele, comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della struttura preesistente (cfr. e plurimis Cons. Stato, Sez. V, 10 settembre 2012, n. 4771, Sez. IV, 7 aprile 2015, n. 1763), requisiti che non ricorrono, o comunque non sono stati provati, nella fattispecie. 11.2. Il profilo di censura dedotto è altresì infondato per due ulteriori ragioni:
-in primo luogo, perché l’applicabilità della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 33, comma 2, in deroga alla regola generale della demolizione, propria degli illeciti edilizi, presuppone la dimostrazione della oggettiva impossibilità di procedere alla demolizione delle parti difformi senza incidere, sul piano delle conseguenze materiali, sulla stabilità dell’intero edificio, il che nella specie non risulta comprovato. Neppure risulta che l’appellante abbia formulato una istanza in questo senso al Comune;
-in secondo luogo, e in ogni caso, l’applicabilità, o meno, della sanzione pecuniaria, può essere decisa dall’Amministrazione solo nella fase esecutiva dell’ordine di demolizione e non prima, sulla base di un motivato accertamento tecnico (v. Cons. Stato, sez. VI, 19 febbraio 2018, n. 1063). La valutazione, cioè, «circa la possibilità di dare corso alla applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria costituisce una mera eventualità della fase esecutiva, successiva alla ingiunzione a demolire: con la conseguenza che la mancata valutazione della possibile applicazione della sanzione pecuniaria sostitutiva non può costituire un vizio dell’ordine di demolizione ma, al più, della successiva fase riguardante l’accertamento delle conseguenze derivanti dall’omesso adempimento al predetto ordine di demolizione e della verifica dell’incidenza della demolizione sulle opere non abusive» (Cons. Stato, sez. VI, 13 maggio 2016, n. 1940). In sintesi, la verifica ex art. 33, comma 2, va compiuta su segnalazione della parte privata durante la fase esecutiva, e non dall’Amministrazione procedente all’atto dell’adozione del provvedimento sanzionatorio.
12. Per tutto quanto sopra detto, quindi, la Sezione ritiene che l’appello sia infondato […]