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FATTO e DIRITTO
Con ricorso depositato il 13 novembre 2014, gli odierni appellanti, proprietari di unità immobiliari ad uso residenziale facenti parte di un compendio immobiliare …, realizzato nel 1964 in parziale difformità dalla licenza edilizia n. … 1962, impugnavano innanzi al Tar Campania l’ordinanza n. … del … 2014, con la quale il Comune … ingiungeva la demolizione di quanto realizzato abusivamente.
Il TAR, con sentenza n. 3239 del 19 giugno 2015, accoglieva il ricorso limitatamente alla censura formulata con il quarto motivo, ritenendo che il manufatto oggetto di contestazione presentasse una sola difformità parziale dal titolo edilizio conseguito, da reprimere ai sensi dell’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001 (in luogo del contestato art. 33) che non contempla la misura demolitoria.
Gli appellanti impugnavano detto esito con appello depositato il 30 dicembre 2015, deducendo l’erroneità della sentenza nella parte in cui respingeva i motivi 1, 2, 3, 5 e 6.
Il comune si costituiva in giudizio con memoria depositata il 26 maggio 2016 confutando le avverse doglianze con argomenti riformulati con successiva memoria del 1 marzo 2022.
Gli appellanti depositavano memoria conclusione il 18 febbraio 2022 insistendo per l’accoglimento del ricorso.
All’esito della pubblica udienza del 31 marzo 2022, la causa veniva decisa.
Gli appellanti, come anticipato, sono proprietari di unità abitative facenti parte di un complesso che affermano essere stato realizzato nel 1964 dalla società costruttrice … S.p.A., dalla quale acquistavano in buona fede facendo affidamento sulla legittimità del fabbricato che, precisano, negli anni successivi non avrebbe subito modifiche rispetto all’originaria consistenza.
Il ricorso di primo grado veniva accolto ritenendo il fondamento della dedotta violazione dell’art. 34, comma 2 ter, del d.P.R.n. 380/2001 a norma del quale “ai fini dell’applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali”.
Il TAR, in particolare, riteneva che l’amministrazione avesse erroneamente ritenuto la totale difformità delle opere contestate dal titolo edilizio e, quindi, che queste non integrassero un intervento di ristrutturazione in difetto di titolo, disciplinato dall’art. 33 della medesima fonte normativa che ne legittima la demolizione.
Il giudice di primo grado faceva tuttavia salvo “il potere dell’autorità urbanistica di determinare la eventuale sanzione da concretamente irrogare, con il solo limite di non potere prescindere dalla esatta qualificazione dell’abuso edilizio in precedenza accertato”.
Gli appellanti censurano la decisione di primo grado allegando l’interesse ad una riforma della stessa nella sola parte ad essi sfavorevole che, in caso di accoglimento dell’appello, non consentirebbe all’amministrazione di “esercitare alcun (residuo) potere di intervento, al fine dell’adozione di ulteriori misure sanzionatorie”.
Con il primo motivo gli appellanti deducono l’erroneità della sentenza nella parte in cui rigetta il primo motivo di ricorso con il quale veniva dedotta la violazione dell’art. 7 della L. n. 241/21990 per omessa comunicazione dell’avvio del procedimento sanzionatorio ai destinatari della misura, ritenuta essere dovuta anche in presenza di attività vincolata.
Sostengono a tal proposito che, se coinvolti nel procedimento, avrebbero potuto rappresentare l’effettiva natura degli abusi oggetto di contestazione, passibili di sola sanzione pecuniaria facendo, nel contempo, valere la loro estraneità alla realizzazione degli stessi.
Il motivo è infondato.
Come già affermato in giurisprudenza, con posizione consolidata, “l’ordine di demolizione conseguente all’accertamento della natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e, in quanto tale, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge” (Cons. Stato, Sez. II, 26 giugno 2019, n.4384)
Con il secondo motivo, gli appellanti censurano la decisione di primo grado nella parte in cui rigetta il secondo motivo di ricorso con il quale veniva dedotta la mancanza di un interesse pubblico alla repressione di abusi risalenti nel tempo, tollerati a lungo dall’amministrazione ai quali, peraltro, erano estranei in quanto acquirenti in buona fede delle unità immobiliari in epoca successiva alla loro realizzazione.
Il motivo è infondato.
Deve premettersi che, come già affermato dalla Sezione, in tema repressione degli abusi edilizi, il carattere reale della misura ripristinatoria, tesa alla repressione di un illecito permanente, priva di rilievo l’estraneità dei proprietari alla realizzazione dell’abuso che non può essere invocata a sostegno della pretesa illegittimità della misura sanzionatoria (Cons. Stato, Sez. VI, 23 dicembre 2020, n.8283).
Quanto alla dedotta risalenza nel tempo dell’abuso e alla evidenziata tolleranza prestata dall’amministrazione, non può che richiamarsi il pacifico orientamento della Sezione che riconosce l’irrilevanza di dette circostanze.
Come, infatti, recentemente riaffermato, “la mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere ‘legittimo’ in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata” (Cons. Stato, Sez. VI, 4 ottobre 2021, n.6613).
Con il terzo motivo gli appellanti lamentano l’erroneità della sentenza nella parte in cui respinge il terzo motivo di ricorso con il quale veniva dedotta la violazione del principio di irretroattività per avere l’amministrazione applicato le disposizioni di cui al d,P.R. n. 380/2001 in luogo della disciplina vigente al momento della realizzazione del manufatto ritenuta essere più favorevole.
Il motivo è infondato.
Come recentemente riaffermato dalla Sezione, “dalla natura permanente dell’illecito edilizio deriva l’obbligo di applicare la disciplina prevista dalla normativa in vigore al momento dell’adozione del provvedimento sanzionatorio (Cons. Stato, Sez. VI, 1/12/2015, n. 5426, che rileva altresì come l’art. 33 della legge n. 47/1985 è chiara nel sancire l’applicazione, anche agli illeciti perpetrati in epoca anteriore alla sua entrata in vigore, della nuova disciplina delle sanzioni)” (Cons. Stato, Sez. VI, 12 gennaio 2022, n.204).
Con il quarto motivo di ricorso gli appellanti censurano la sentenza del TAR nella parte in cui respinge il quinto motivo di ricorso con il quale deducevano la mancata considerazione dell’impossibilità di procedere al ripristino delle parti non conformi senza pregiudizio per la parte legittima del fabbricato: circostanza che avrebbe inibito all’amministrazione l’adozione della misura demolitoria con applicazione della sola sanzione pecuniaria di cui all’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001.
In particolare, gli appellanti sostengono che “la scelta tra la misura della demolizione o della sanzione pecuniaria debba essere considerata espressione di una valutazione da effettuarsi in via preventiva”.
Il motivo è infondato.
In presenza di manufatti parzialmente difformi, le valutazioni circa la possibilità di procedere alla demolizione dell’abuso senza pregiudizio per le parti legittime del fabbricato attengono ad una fase successiva ed autonoma del procedimento sanzionatorio.
Come già affermato in giurisprudenza, è in fase esecutiva che “le parti possono dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato, presupposto per l’applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, con la conseguenza che tale valutazione non rileva ai fini della legittimità del provvedimento di demolizione (Cons. Stato Sez. II, 2 dicembre 2020, n. 7637; id Sez. II 23 gennaio 2020, n. 561; id. Sez. II, 30 ottobre 2020, n. 6653; id. Sez. II, 3 giugno 2020, n. 3476; Sez. VI, 15 giugno 2020, n. 3805)” (Cons Stato, Sez. II, 17 febbraio 2021, n. 1452).
Con il quinto motivo gli appellanti lamentano, infine, l’erroneità della sentenza nella parte in cui rigetta il sesto motivo di ricorso con il quale deducevano che l’inesistenza di difformità “strutturali, di sagoma e di prospetti” escludeva la qualificazione dell’intervento in termini di ristrutturazione edilizia.
A parere degli stessi, le opere contestate “potevano essere edificate soltanto a mezzo D.I.A.”, in difetto della quale sarebbe stata ammessa la sola sanzione pecuniaria.
Tale motivo, si afferma in appello, non sarebbe “stato in alcun modo esaminato dal giudice di prime cure che, nella decisione impugnata, si è limitato ad asserire che il Dirigente l’UTC avrebbe sanzionato, peraltro erroneamente, con la misura della demolizione, inesistenti opere eseguite in assenza di D.I.A.”, con ciò riproponendo il testo del provvedimento impugnato.
Il motivo è infondato nei termini di seguito esposti.
In primo grado gli appellanti, in forma estremamente sintetica e generica, si limitavano ad affermare che la misura demolitoria doveva considerarsi illegittima anche nella denegata ipotesi in cui l’intervento sanzionato fosse da qualificarsi in termini di ristrutturazione edilizia.
Esponevano a tal proposito che in assenza di modifiche di “caratteristiche strutturali, di sagoma e prospetti” doveva escludersi la riconducibilità dell’intervento alla nozione di ristrutturazione edilizia nei sensi di cui all’art. 10, comma 1 lett. c, del d.P.R. n. 380/2001 mentre doveva riconoscersi la riconducibilità dello stesso alle previsioni di cui all’art. 22 del medesimo d.P.R. con conseguente applicazione del regime sanzionatorio di cui al successivo art. 37.
Il TAR respingeva il motivo rilevando che “con l’impugnata ordinanza, il Comune non contesta l’esistenza di un intervento tra quelli riconducibili all’art. 22 del D.P.R. n. 380 del 2001, subordinati a denuncia di inizio di attività, in mancanza della quale il successivo art. 37 prevede l’applicazione di mere sanzioni pecuniarie, ma unicamente interventi di ristrutturazione edilizia su immobile vincolato ritenute (erroneamente, per quanto rilevato in precedenza) in totale difformità rispetto alla licenza edilizia n. 41/62 per le quali (altrettanto erroneamente) ne ordina la demolizione o la rimozione in modo da rendere conformi gli edifici alle prescrizioni degli strumenti urbanistico – edilizi << entro il congruo termine stabilito dal dirigente o dal responsabile del competente ufficio comunale con propria ordinanza>>”.
L’eccesso di sintesi che caratterizza la suesposta motivazione, che induce gli appellanti a ritenere che il Tar abbia omesso lo scrutinio della censura, è superabile ove la si coordini con le motivazioni per cui veniva accolto il quarto motivo di ricorso.
L’amministrazione, con il provvedimento impugnato, rilevava che “l’intero territorio comunale è assoggettato” a vincolo “di notevole interesse paesaggistico imposto con D.M. 28/03/85” e contestava agli appellanti la fattispecie di cui all’art. 33 del d.P.R. n. 380/2001 sul presupposto che “le opere di cui trattasi devono ritenersi abusive perché interventi di ristrutturazione edilizia senza titolo su immobile assoggettato alla tutela di cui alla parte terza del D. Lgs. n. 42/04 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) ed in assenza dell’autorizzazione di cui all’art. 146 dello stesso decreto”.
Tuttavia, come già rilevato, il TAR accoglieva il quarto motivo ritenendo l’erronea qualificazione dell’intervento in termini di ristrutturazione edilizia, determinata dall’altrettanto erronea valutazione dell’amministrazione circa la ricorrenza, nel caso di specie, di una totale difformità delle opere contestate dal titolo edilizio.
La sentenza, nella parte censurata con il presente capo d’impugnazione, coerentemente con quanto precedentemente affermato dallo stesso giudice, ribadisce l’erroneità tanto della qualificazione dell’intervento in termini di ristrutturazione edilizia, quanto dell’adozione della misura demolitoria.
Nessun sostanziale profilo di illegittimità può, pertanto, essere ravvisato nel capo di sentenza in questione che determina, in concreto, il dovere dell’amministrazione di rideterminarsi circa tali specifici profili come, peraltro, già statuito scrutinando il quarto motivo di ricorso. […]