Consiglio di Stato, Sezione Sesta, Sentenza n. 347 del 2021, pubbl. il 11/01/2021

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FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso n. 3191/2009, proposto innanzi al T.a.r. per il Lazio, sede di Roma, i signori … e … avevano chiesto l’annullamento del provvedimento del … 2009, con il quale il Comune … ingiungeva nei loro confronti il pagamento della sanzione per l’esecuzione di opere in parziale difformità dal permesso di costruire, rilasciato per la realizzazione di un immobile ad uso abitativo con locale garage al piano terra.
2. A sostegno dell’impugnativa, i ricorrenti avevano dedotto che l’impugnata ingiunzione era priva di fondamento, stante la conformità delle opere con gli elaborati progettuali, la irrilevanza a tal fine della eventuale violazione della disciplina in materia di distanze, la mancanza di interesse pubblico e l’erronea quantificazione della sanzione dacché rapportata al momento della sua irrogazione invece che della consumazione dell’abuso.
3. Costituitasi l’Amministrazione comunale al fine di resistere, il T.a.r. adìto (Sezione I quater), ha respinto il ricorso ed ha condannato parte ricorrente al rimborso delle spese di lite (€ 2.000,00).
4. In particolare, il giudice di prime cure, dopo aver premesso che “il provvedimento impugnato non è motivato in relazione all’asserita violazione delle distanze prescritte rispetto alla sede stradale”, così ritenendo irrilevanti tutte le deduzioni connesse, ha ritenuto che:
– realmente sussiste la violazione della disciplina in materia di distanze rispetto all’edificio dei controinteressati, in quanto “dista dalla linea di confine con la limitrofa proprietà dei sig.ri … metri 4,79, nel punto di maggiore distanza, rispetto alla distanza minima di metri 6 prevista nel titolo abilitativo rilasciato dal Comune”;
– non ha alcun rilievo la circostanza relativa al lungo tempo trascorso dalla realizzazione dell’edificio, non avendo questo incidenza sulla permanenza dell’interesse pubblico all’irrogazione della sanzione;
– l’Amministrazione ha correttamente applicato, ai fini della determinazione della sanzione, il criterio stabilito dalla legge sull’equo canone, oggetto di rinvio materiale. 5. Avverso tale pronuncia i signori … e … hanno interposto appello, notificato il 24 dicembre 2013 e depositato il 22 gennaio 2014, lamentando, attraverso tre motivi di gravame (pagine 4-17), quanto di seguito sintetizzato:
I) il T.a.r., nel ritenere sussistente la violazione della normativa in materia di distanze tra fabbricati, non avrebbe riscontrato il carattere intimamente contraddittorio del provvedimento impugnato, avendo la stessa Amministrazione riconosciuto l’impossibilità di risolvere la questione dei confini nella accertata conformità delle opere rispetto a quanto autorizzato per quanto attiene forma e dimensioni della fabbricato;
II) erronea sarebbe l’affermazione del T.a.r., secondo la quale l’applicazione dell’art. 34, comma 2, del testo unico edilizia avrebbe un carattere attenuato rispetto alla afflittività della sanzione demolitoria così da far ritenere comunque sussistente il profilo dell’interesse pubblico nonostante il lungo tempo trascorso dalla realizzazione dell’edificio, risalente a circa un trentennio addietro; tale circostanza temporale sarebbe tale da comportare un maggiore onere motivazionale a carico dell’Amministrazione anche in caso di sanzione pecuniaria sostitutiva; tanto più che le norme regolamentari che il T.a.r. ha ritenuto violate, poiché riguardano le distanze tra proprietà private, alcuna ricaduta avrebbero sul piano pubblicistico e pertanto dalla loro violazione non discende alcun interesse pubblico alla irrogazione della sanzione pecuniaria
III) nel respingere la censura, articolata in via subordinata, relativa all’erroneo riferimento temporale in sede di applicazione dei criteri utilizzati per la quantificazione della sanzione, il Tribunale amministrativo sarebbe caduto in errore, in quanto il rinvio materiale alla norma sull’equo canone operato dal legislatore non contraddice quanto dedotto a proposito della necessità di quantificare comunque la sanzione con riferimento al momento in cui è stato perpetrato l’abuso.
6. L’appellante ha concluso chiedendo, in riforma dell’impugnata sentenza, l’accoglimento del ricorso di primo grado e quindi l’annullamento dell’atto con lo stesso impugnato.
7. Il Comune appellato, sebbene ritualmente intimato, non si è costituito nel presente giudizio.
8. In data 11 febbraio 2020, parte appellante ha depositato una memoria, insistendo per l’accoglimento dell’appello avuto riguardo, in particolar modo, al lamentato difetto di istruttoria ed all’errata metodologia di calcolo della sanzione, siccome non riferita al momento in cui l’abuso è stato commesso (1982).
9. La causa, chiamata per la discussione alla udienza pubblica svoltasi con modalità telematica del 27 novembre 2020, è stata ivi trattenuta in decisione.
10. L’appello è infondato.
10.1 Non è fondato il primo motivo, col quale si lamenta la perplessità dei contributi offerti dall’istruttoria espletata dall’Ufficio, in quanto all’esito della stessa è emersa “la mancanza di confini certi” anche in considerazione della “discrasia tra concessione edilizia, strumento urbanistico e regolamento edilizio”.
L’infondatezza del rilievo si deve al fatto che l’appellante non ha addotto alcun elemento di causa in grado di scalfire quanto evidenziato dal T.a.r. a sostegno della statuizione di rigetto della censura riproposta, nel senso che, esclusa la rilevanza della distanza dai confini con l’asse stradale in quanto estranea all’assetto motivazionale dell’impugnata sanzione, gli accertamenti espletati hanno consentito di appurare che la distanza che intercorre tra i due fabbricati è inferiore a quella prevista in progetto di mt. 6, siccome pari a mt. 4,79 nel punto in cui essa è maggiore.
Tale circostanza fattuale, infatti, trova riscontro negli atti di causa e nemmeno è adeguatamente contraddetta dall’appellante, il quale si limita a formulare rilievi critici che investono le risultanze istruttorie nella loro interezza.
10.2 Parimenti infondato è il secondo motivo, col quale si lamenta la mancata verifica circa la ricaduta del lungo tempo trascorso dall’esecuzione delle opere (circa 25 anni) sulla permanenza dell’interesse pubblico all’irrogazione della sanzione, atteso che, a prescindere da ogni altra considerazione, le sanzioni edilizie, quale quelle in questione, non risentono del tempo trascorso dalla commissione dell’abuso, come ribadito dall’Adunanza plenaria. L’ordinanza di demolizione non deve infatti essere accompagnata dalla motivazione circa l’interesse pubblico, in quanto il lasso di tempo intercorso fra il momento della realizzazione dell’abuso e l’adozione dell’ordine di demolizione non è idoneo ad ingenerare un legittimo affidamento in capo al privato interessato, né impone all’Amministrazione uno specifico onere di motivazione; ciò in quanto il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento, anche perché non ci si può fondatamente dolere del ritardo con cui l’Amministrazione ripristina la legalità. Come ha avuto modo di rilevare la giurisprudenza di questo Consiglio (in particolare Adunanza plenaria 17 ottobre 2017, n. 9; sez. IV, 29 novembre 2017, n. 5595, nonché n. 2799/18), “l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l’interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 12 dicembre 2016, n. 5198), né un’ampia motivazione”. La medesima irrilevanza del decorso del tempo dalla perpetrazione dell’abuso deve logicamente affermarsi anche quando ad essere irrogate sono le sanzioni edilizie sostitutive di quelle demolitorie. Come la Sezione ha, di recente, evidenziato, “le disposizioni dell’art. 34 D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 vano intese nel senso che la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria – posta da tale normativa – debba essere valutata dall’Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione: fase esecutiva, nella quale le parti possono dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato, presupposto per l’applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, con la conseguenza che tale valutazione non rileva ai fini della legittimità del provvedimento di demolizione.” (cfr. sentenza, 23 ottobre 2020, n. 6432).
Giova precisare che la sanzione pecuniaria irrogata trae fondamento dalla constatazione che “le parti abusive non possono essere demolite senza pregiudizio della parte eseguita in conformità” e pertanto la ‘fiscalizzazione’ dell’illecito edilizio è disposta per la sola inattuabilità materiale dell’ordine demolitorio, così da svolgere quella funzione sostitutiva che impedisce possa assumere rilievo la risalenza dell’abuso altrimenti irrilevante, ove si fosse dato corso al potere repressivo-demolitorio. La sanzione peraltro non configura un’ipotesi di sanatoria dell’abuso, ma contempera semplicemente l’esigenza di ristabilire lo status quo ante con quella di salvaguardare la sicurezza pubblica e privata.
Parte appellante argomenta le sue deduzioni facendo leva ora sulla rilevanza soltanto interprivata delle norme sulle distanze che si assumono violate, ora sulla portata non retroattiva della norma applicata, non ancora introdotta al momento della realizzazione delle opere (1982).
Nessuno dei due argomenti risulta convincente:
– non il primo perché, come sopra evidenziato, con l’ingiunzione-ordinanza impugnata in prime cure viene sanzionata la violazione di una precisa prescrizione contenuta nella concessione edilizia rilasciata all’appellante, relativa alla distanza minima con la limitrofa proprietà privata, che pertanto integra una vera e propria difformità a quanto assensito;
– non il secondo, in quanto le sanzioni edilizie hanno, in linea di principio, una finalità ripristinatoria e non afflittiva e pertanto alle stesse non si attaglia il divieto di retroattività (T.a.r. Torino, sez. II, 7 ottobre 2019, n. 1044); come evidenziato dalla Sezione, “l’abuso edilizio, avendo natura di illecito permanente, si pone in perdurante contrasto con le norme amministrative sino a quando non viene ripristinato lo stato dei luoghi e, pertanto, da un lato, l’illecito sussiste anche quando il potere repressivo si fonda su una legge entrata in vigore successivamente al momento in cui l’abuso è posto in essere e, dall’altro, in sede di repressione dell’abuso medesimo, è applicabile il regime sanzionatorio vigente al momento in cui l’amministrazione provvede ad irrogare la sanzione stessa: in forza della natura permanente dell’illecito edilizio, infatti, colui che ha realizzato l’abuso mantiene inalterato nel tempo l’obbligo di eliminare l’opera abusiva e anche il potere di repressione può essere esercitato retroattivamente, cioè anche per fatti verificatisi prima dell’entrata in vigore della norma che disciplina tale potere” (cfr. Cons. Stato, sez. II, 27 settembre 2019, n. 6464).
10.3 Nemmeno fondato è il terzo motivo di ricorso, col quale si lamenta che la sanzione andava determinata con riferimento al tempo in cui l’abuso è stato commesso, dovendosi condividere quanto affermato dal Tribunale circa l’applicazione, in ossequio al rinvio materiale di cui è fatto oggetto la normativa sull’equo canone ad opera dell’art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 (“il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27 luglio 1978, n. 392”), dei criteri di attualizzazione contemplati dalla stessa normativa. L’appellante non nega che la norma applicata fa rinvio materiale alla legge sull’equo canone, recependone quindi “il metodo di calcolo”, bensì ne contesta la sua applicazione se conduce a rivalutazioni “non al momento della commissione dell’abuso, ma al momento di contestazione dello stesso”.
Anche sotto tal profilo il rilievo si palesa infondato, in quanto, ad opinare nel senso auspicato, si finirebbe per consentire a colui che ha commesso l’abuso di lucrare effetti vantaggiosi dall’inerzia dell’Amministrazione nel perseguire l’abuso.[…]