Consiglio di Stato, Sez. IV, Sentenza n. 02781 del 2014, dep. il 29/05/2014

[…]

FATTO

Con il presente gravame la Società […] impugna la sentenza con cui il TAR ha annullato: – il permesso di costruire n°1/2006 del Comune di […] relativo ai lavori di ristrutturazione c.d. “pesante” di un fabbricato; – il presupposto parere dell’U.T.C. del 27.4.2006, – la d.i.a. in variante n. 3/2007; – il certificato di agibilità rilasciato in data 20.12.07.

L’appello è affidato alla denuncia di tre profili di gravame relativi in linea preliminare all’inammissibilità per carenza di legittimazione attiva e tardività; e nel merito all’erroneità dei presupposti assunti dalla consulenza tecnica d’ufficio e confermati dalla sentenza impugnata.

Si è costituito in giudizio il controinteressato […], che con memoria per la discussione ha eccepito l’inammissibilità del gravame per l’assenza di censure avverso la decisione del Tar e, nel merito ha contestato le affermazioni di controparte.

Con ordinanza cautelare n. 904/2010 la Sezione, impregiudicata ogni questione di merito, ha accolto l’istanza di sospensione cautelare in relazione all’avanzamento dei lavori.

Con il deposito di una perizia di parte non giurata e con un’ ulteriore memoria la società appellante ha insistito nelle proprie argomentazioni.

A sua volta l’appellato con la memoria per la discussione ha concluso per il rigetto dell’appello.

Chiamata all’udienza pubblica, uditi i patrocinatori delle parti, la causa è stata ritenuta in decisione.

DIRITTO

L’appello è infondato.

1. Con il primo motivo l’appellante eccepisce la carenza di legittimazione attiva del ricorrente di primo grado il quale, essendo suo l’immobile sarebbe distante oltre 10 ml, non avrebbe potuto ricevere alcun concreta lesione dei propri interessi giuridici.

Dalla ristrutturazione edilizia impugnata non avrebbe potuto derivargli alcun nocumento, e comunque il ricorrente non avrebbe provato l’asserito “… pregiudizio derivante dalla diminuzione di valore e di amenità per effetto dell’illegittima concessione…”.

Il motivo va respinto.

Come la giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato Sez. IV 22 gennaio 2013 n. 361; idem, 17 settembre 2012 n. 4926; idem, 29 agosto 2012 n. 4643; idem 10 luglio 2012 n. 4088; C.G.A. della Regione Siciliana Sent. 4 giugno 2013 n. 553) ha da tempo sottolineato di norma:

— la c.d. “vicinitas”, cioè la situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell’intervento costruttivo autorizzato, è sufficiente a radicare la legittimazione del confinante;

— non è dunque necessario in tali ipotesi accertare in concreto se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino, o no, un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione;

— ed in ogni caso la realizzazione di interventi che implichino una rilevante alterazione del preesistente assetto edilizio ed urbanistico deve ritenersi pregiudizievole “in re ipsa”, in relazione alla minore qualità panoramica, ambientale, paesaggistica e della possibile diminuzione di valore dell’immobile.

Nel caso in esame, esattamente il TAR ha rilevato che la proprietà dell’appellato, strettamente confinante con gli immobili ristrutturare, aveva subito un immediato nocumento dalla realizzazione di un progetto che:

— aveva alterato il volume, le superfici, la sagoma ed i prospetti originari;

— che aveva comportato a ben 29 i vani (in luogo dei 9 vani preesistenti),

— che, in luogo dei due piani preesistenti, aveva implicato la realizzazione di un ulteriore piano nella parte prospiciente via […] e di quattro piani fuori terra sul lato interno.

2. Deve esser parimenti disattesa l’eccezione di inammissibilità dei motivi aggiunti proposti avverso la d.i.a. del 2 gennaio 2007 che, per la società appellante, sarebbero stati tardivamente introdotti in quanto il ricorrente di primo grado avrebbe avuto la piena conoscenza dei progetti impugnati del già prima del deposito degli atti impugnati con la CTU disposta dal Tar.

Peraltro la d.i.a., concernendo una “variante riduttiva”, non avrebbe in alcun modo alterato le previsioni originarie e non avrebbe aumentato, ma anzi diminuito, le superfici utili.

Del tutto genericamente il primo giudice avrebbe quindi affermato che la tesi della piena conoscenza non sarebbe stata suffragata da elementi probatori affidabili.

Al contrario la giurisprudenza ha costantemente affermato che la decorrenza del termine decadenziale per impugnare un titolo edilizio rilasciato a terzi non può essere di norma fatta coincidere con la data in cui i lavori hanno avuto inizio (cfr. Consiglio di Stato Sez. IV, sentenza n. 5822 del 06 dicembre 2013; Consiglio di Stato Sez. IV, sentenza n. 5633 del 26 novembre 2013; Consiglio di Stato sez. IV, sentenza. n. 1021 del 4 marzo 2014).

Pertanto, nel caso di costruzione da parte del vicino, la conoscenza di una situazione potenzialmente lesiva non obbliga affatto il titolare dell’interesse legittimo oppositivo ad attivarsi immediatamente in sede giurisdizionale — dato che, ad esempio, potrebbe trattarsi di un’edificazione abusiva – ma il termine decadenziale per l’impugnazione decorre solo:

— o dalla piena conoscenza dal contenuto specifico della concessione o del progetto edilizio e dell’entità delle violazioni urbanistiche (cfr. infra multa Consiglio Stato, sez. VI, 10 dicembre 2010, n. 8705; Consiglio Stato, sez. V, 24 agosto 2007, n. 4485);

— ovvero dal completamento, quanto meno strutturale, dell’opera stessa (cfr. da ultimo Consiglio di Stato Sez. IV, Sentenza n. 264 del 20 gennaio 2014).

In ogni caso, nel dubbio, deve comunque farsi applicazione degli artt. 24 e 113 Cost., per i quali la tutela in giudizio dei diritti e interessi legittimi è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento che non può essere pregiudicato da formalismi non strettamente ed assolutamente necessari all’economia processuale.

Nella specie, in difetto della prova certa circa ad una risalente completa conoscenza della d.i.a., deve concludersi che il ricorrente di primo grado ha tempestivamente contestato l’illegittimità della d.i.a. .

3. Nel merito, l’appellante lamenta che la sentenza si sarebbe basata sull’erronea rappresentazione fatta dal consulente tecnico d’ufficio. L’intervento di ristrutturazione sarebbe invece stato pienamente rispettoso delle disposizioni del Piano di Recupero (PdR), in particolare :

— non vi sarebbe stato alcun errore di calcolo nella scheda allegata al medesimo PdR laddove la volumetria di progetto veniva indicata in 2405,50 m³ e dunque superiore a quella preesistente indicata della predetta scheda in m³ 1633;

— non vi sarebbe stato alcun aumento del numero dei piani e dei vani per cui non si sarebbe affatto realizzato un edificio integralmente nuovo;

— in base alla consulenza del tecnico di parte nella zona A11, il Piano di Recupero identifica nella scheda U.M.S. n.6 una superficie coperta massima di 229 m quadri, una superficie libera di 170 m quadri, sul lotto di 399 mq., un’altezza massima di metri lineari 10,50 (oltre al sottotetto) ed un volume massimo realizzabile sarebbe stato computato in 2404,50 m³ . con la possibilità di introdurre ascensori; vani scale, montacarichi istallare servizi igienici, traslare solai privi di valore architettonico;

— l’indicazione contenuta nel piano di recupero di una preesistenza di 1633,00 m³ sarebbe stata erronea mentre nella fase, più accurata, di progettazione dell’intervento si sarebbe riscontrata la volumetria effettiva di m³ 1712,84 con una differenza di appena 79,84 m³ , per cui vi sarebbe stata addirittura la possibilità di realizzare altri 694,90 mc rispetto alle indicazioni della scheda;

— la ristrutturazione del fabbricato in oggetto non sarebbe stata disciplinata dall’art. 19 delle NTA, ma dall’articolo 5 del piano di recupero che consente gli interventi di trasformazione edilizia con l’unico vincolo di rispettare la volumetria prevista nella scheda di progetto, vale a dire i mc 2404,50 e l’altezza preesistente di ml. 11,10 con le modifiche delle destinazioni d’uso compatibili con la funzione abitativa con una traslazione di solari privi di valore architettonico per realizzare nuovi volumi tecnici al di sopra del piano delle coperture.

Nel caso di specie, non vi sarebbero stati aumenti di volume, di altezza, non sarebbero state modificate le distanze preesistenti, la scala realizzata non sarebbe potuto essere computata all’interno della volumetria, come era stato documenta dalla tabella plano volumetrica allegata al permesso di costruire de quo agitar.

Anche le “cantine” sarebbero solo pertinenze degli alloggi di cui all’art.34 del vigente N.E. che consentirebbe locali interrati seminterrati non facenti volumetria se di altezza minore di 2,70 (nel caso metri 2,52) qualora non emergano dal piano originario di oltre 1 m 20 (nel caso metri 1,00).

Infine l’appellante contesta la CTU quando, sulla base dell’erroneo riferimento alla scheda allegata al piano di recupero, afferma che sul lato interno l’altezza del piano terra sarebbe stata di 3,50 m lineari. Al contrario la proprietà appellante avrebbe più esattamente misurato le altezze come si evincerebbe dalle foto allegate per cui il loro piano terra avrebbe un’altezza pari al piano terra del fabbricato del signor Iovine.

Mentre sull’ala prospiciente via […], il fabbricato non avrebbe avuto alcuna modifica per cui erroneamente il c.t.u. avrebbe affermato che il corpo di fabbrica sarebbe stato alto ml. 9,20, dimenticando di aggiungere all’altezza originaria la gronda dell’apporto del sottotetto esistente di metri 1,90 per un’altezza totale di metri lineari 11,10.

Infine la d.i.a. sarebbe legittima in quanto comunque avrebbe apportato una riduzione della volumetria in precedenza autorizzata.

Con l’ultimo profilo si assume poi la legittimità del certificato di agibilità perché la verifica della solubilità di cui all’articolo 4 del d.p.r. 22 aprile 1994 n. 425 dovrebbe essere rilasciato negato solo per ragioni igienico-sanitarie ed inoltre nel caso le opere realizzate erano perfettamente conforme al progetto approvato.

L’assunto complessivo è infondato.

L’art. 3 comma 1 lett. d), d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 – le cui definizioni come è noto prevalgono sulle diverse norme dei regolamenti edilizi – riconduce, come è noto, la nozione di “ristrutturazione edilizia” alla finalità di recupero del patrimonio esistente: per cui, nei casi in cui ricorra la demolizione parziale o totale dell’edificio, la ricostruzione deve rispettare le linee essenziali della sagoma; l’identità della complessiva volumetria del fabbricato, e la copertura dell’area di sedime (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 21/10/2013 n.5120; Consiglio di Stato sez. IV 30/05/2013 n.2972).

L’intervento in questione si deve tradurre nell’esatto ripristino dell’edificio operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio, e, in particolare, senza aumenti né delle volumetrie, né delle superfici occupate, e né delle originarie sagome di ingombro perché altrimenti, qualora sia verifichino i detti incrementi, si tratterà dell’ipotesi di “nuova costruzione” per la quale deve essere rispettato il computo delle distanze rispetto agli edifici contigui (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 06/12/2013 n. 5822; Consiglio di Stato sez. IV 02/12/2013 n. 5733; Consiglio di Stato sez. III 20/11/2013 n. 5488).

In tale scia interpretativa si colloca anche la stessa normativa urbanistica dell’area ricadente in zona A/11 del locale P.R.G. qui inutilmente invocata.

Contrariamente a quanto mostra di ritenere l’appellante, nel caso di specie doveva necessariamente farsi applicazione dell’art. 19 delle N.T.A. in base al quale “i fabbricati privi di valore storico potranno, dopo la redazione dei previsti piani esecutivi, essere demoliti e ricostruiti, conservando la medesima volumetria, gli allineamenti preesistenti sul fronte stradale, l’altezza preesistente ed il medesimo peso insediativo”.

Tale norma costituisce un limite concreto alla ristrutturazione, che trova una sua corrispondente conferma, proprio nell’art. 5, punto 5 del Piano di Recupero, definisce come interventi di ristrutturazione edilizia quelli “… rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti

Sono pertanto consentiti anche interventi radicali (abbattimento e ricostruzione in sito) e all’interno dell’organismo edilizio per il recupero strutturale senza che si verifichino aumento delle volumetrie esistenti….”.

In sintonia con le disposizioni di cui sopra, l’art. 12 del Piano di Recupero precisa ancora sia che l’indice massimo di fabbricabilità fondiaria “…deve essere pari a quello già esistente ..”e sia che l’altezza degli edifici “..deve essere pari a quella esistente “, con l’ulteriore precisazione che, nel caso di edifici con corpi di fabbrica aventi altezze diverse, l’altezza massima consentita doveva essere pari a quella massima preesistente, e dovrà comunque rispettare il rapporto di copertura ed il volume preesistente.

Nessuno dei predetti precetti risulta esser stato qui rispettato nel caso in esame.

Il Comune di […] ha infatti illegittimamente assentito l’esecuzione di lavori di ristrutturazione di un fabbricato con modifiche della sagoma, incremento dei volumi, aumento del numero dei piani, creazione di una scala, al mutamento della destinazione con l’uso abitativo dei locali del piano seminterrato (una volta costituito dalle vecchie cantine e dai “comodi rurali).

Infatti, mentre il preesistente fabbricato era di tipo bifamiliare su due piani, a forma ad “L” con una scala aperta e di alcune pertinenze accessorie all’attività familiare ed agricola (box, magazzini, forno e stalla) per complessivi nove vani, l’edificio autorizzato, nella facciata interna ha ben quattro piani fuori terra mentre l’altra ala interna (che originariamente era composta da un solo piano), risulta oggi formata da un piano seminterrato e da due piani superiori ed è coperta da un terrazzo recintato con ferro e balaustra, per non parlare dei nuovi balconi, sul lato interno di entrambi i corpi di fabbrica, ed al secondo piano del corpo di fabbrica prospiciente via […].

Al riguardo, la diversa rappresentazione della realtà fatta dalla società appellante infatti appare contrastante non solo con le conclusioni del CTU, ma anche con le risultanze catastali, e con i dati che risultavano nell’UMS n. 6 del Piano di Recupero, cioè nella “scheda dell’unità minima di studio e di intervento”.

Contrariamente a quanto vorrebbe la società appellante non vi sono ragioni per dubitare delle conclusioni tecniche della relazione istruttoria ordinata dal TAR ed eseguita da un tecnico estraneo alle parti quale il geom. […] del Settore Provinciale del Genio Civile della Regione Campania.

Inoltre, sotto il profilo probatorio, si deve essere negativamente considerato il comportamento processuale dell’appellante.

Appare infatti del tutto singolare che, proprio in una materia come quella della ristrutturazione “pesante”, la parte appellante (ed il professionista incaricato della perizia di parte) non si sia preoccupata di produrre — a conferma delle proprie osservazioni — delle fotografie, con data certa, rappresentative dello “status quo ante” del fabbricato.

In difetto di tale produzione le tesi dell’appellante appare del tutto priva di elementi, anche indiziali, che possano concretamente supportare le sue tesi.

In tale direzione poi si osserva che l’illegittimità del permesso di costruire emerge in relazione ai seguenti elementi:

— i vani sono passati, dai 9 risultanti sulla scheda UMS n. 6, a ben 29 vani con un conseguente consistente aggravio del carico urbanistico ed una significativa compromissione dell’originario stato dei luoghi specie considerando l’estensione veramente esigua del lotto (di 399 mq);

— le c.d. “cantinole” in realtà costituiscono un piano seminterrato, precedentemente inesistente la cui destinazione residenziale emerge non solo dalle relative caratteristiche costruttive ma anche dalla presenza di finestre, di portefinestre con tapparelle, tende esterne alla veneziana, e di panni stesi ( come emerge dalla stessa terza foto della perizia dell’appellante). Ancorché il piano di calpestio sia inferiore per più di un metro c.a. dal piano del cortile ed essi prendono luce ed aria dall’esterno in virtù di dell’affaccio su una sorta di corridoio- trincea laterale del cortile tale piano per la sua inequivocabile, ed indebita destinazione, residenziale le abitazioni avrebbe dovuto essere integralmente computato nella volumetria complessiva;

— quanto all’asserito errato computo dell’altezza da parte del CTU, la pretesa dell’appellante di conteggiare in aumento della stessa ulteriori 1,9 m. nell’altezza complessiva appare invece del tutto priva di elementi di supporto, specie se si tiene conto del numero dei piani e dei nove vani che risultavano ufficialmente essere precedentemente esistenti;

— quanto poi alla scala, contrariamente a quanto affermato anche dal perito dell’appellante, proprio le ricordate disposizioni dell’art. 5 del Piano di recupero se consentono la possibilità di far luogo all’inserimento di nuovi elementi come scale ecc. comunque confinavano tale possibilità ai limiti della preesistente sagoma;

— analogamente deve concludersi per quanto infine alla traslazione dei solai.

La possibilità di cui all’art. 5 del Piano di Recupero di far luogo a modifiche delle destinazioni d’uso; all’introduzione nell’organismo edilizio di nuovi elementi (scala, ascensore e montacarichi, ecc.); alla traslazione dei solai privi di valore architettonico ovvero le modifiche di aggetti , ecc. ecc. non poteva comunque essere intesa nel senso di autorizzare comunque aumenti delle volumetrie, delle sagome e dei carichi insediativi preesistenti.

In definitiva dunque, non era possibile — attraverso l’applicazione parcellizzata e svincolata dal loro contesto sistematico di singole disposizioni ed il fittizio scomputo di alcuni dei nuovi volumi realizzati — autorizzare la realizzazione di un organismo totalmente differente ed estraneo all’entità dell’edificio preesistente, in quanto al contrario anche in caso di ristrutturazione c.d. “pesante” si sarebbe comunque dovuto assicurare l’identica volumetria preesistente ed il corrispondente medesimo precedente indice di fabbricabilità fondiaria.

Devono dunque condividersi totalmente le conclusioni del primo Giudice per cui, in violazione della funzione essenzialmente conservativa dell’intervento di ristrutturazione edilizia di cui al ricordato disposto dell’art. 3 D.P.R. 6/6/2001 n. 380, l’edificio realizzato per volumetrie e per sagome, era totalmente difforme rispetto alla sua originaria consistenza.

Infine inconsistente è il profilo relativo all’annullamento anche del certificato di abitabilità.

Infatti già nel regime dell’art. 221 del Testo unico delle leggi sanitarie e dell’art. 4 del d.P.R. n. 425 del 1994, ed ora nel regime degli art. 24 e 25 del d.P.R. n. 380 del 2001, è condizionato non soltanto alla salubrità degli ambienti, ma anche alla conformità edilizia dell’opera (cfr. Cassazione civile Sez. II 12/10/2012 n. 17498; Consiglio di Stato sez. IV 29/08/2011 n. 4835).

Le suddette condizioni devono sussistere entrambe, per cui l’annullamento del permesso di costruire, facendo venir meno uno dei due presupposti legali per il permanere dell’abitabilità, comporta che ne resti conseguentemente travolto anche il permesso di abitabilità.

Il motivo deve dunque essere respinto.

___ 4. In conclusione l’appello deve essere respinto e la sentenza impugnata deve essere integralmente confermata.

[…]