Consiglio di Stato, Sezione Sesta, Sent. n. 1481/2017, pubbl. il 30/03/2017

[…]

FATTO

La ricorrente appellante è un’impresa di costruzioni che ha realizzato, in Comune di […], una lottizzazione denominata […], alla quale si accede per il viale omonimo, composta da varie unità abitative all’interno di villette di varia tipologia, sia unifamiliari sia plurifamiliari.
Per due di queste unità, di cui all’epoca dei fatti era ancora proprietaria, site all’interno di una villetta quadrifamiliare, al numero […], le veniva contestata una difformità nell’altezza esterna del fabbricato e interna del piano sottotetto, dovuta a suo dire all’impiego di una copertura del tetto a doppia falda diversa da quella in progetto. Precisamente, secondo il provvedimento impugnato, di cui subito, al posto di una copertura di latero cemento, priva di elementi a vista e caratterizzata da uno spessore del solaio finito pari a 0,20 mt, veniva impiegata, asseritamente per un migliore isolamento termico, una copertura di legno lamellare con elementi a vista, costituiti da travi e arcarecci di sostegno, spessa 0,375 metri, cui si aggiungono altri 0.165 metri per lo spessore delle travi; l’altezza risultava quindi incrementata del maggior spessore della diversa copertura (doc. 1 in primo grado ricorrente appellante, provvedimento impugnato, ove la descrizione dell’opera).
A fronte di ciò, la ricorrente appellante ha presentato al Comune istanza contestuale per ottenere la sanatoria dell’abuso ai sensi dell’art. 34 T.U. 6 giugno 2001 n.380 e, subordinatamente alla sanatoria, il recupero abitativo del piano sottotetto, ai sensi della specifica l.r. 15 novembre 2007 n.33, ricevendo un diniego con il provvedimento meglio indicato in epigrafe (doc.1 in primo grado ricorrente appellante, cit.)
Con la sentenza di cui pure in epigrafe, il TAR ha respinto il ricorso proposto contro il diniego predetto, ed ha in sintesi ritenuto che l’intervento si dovesse considerare realizzato in difformità non parziale, ma totale dal titolo abilitativo, che pertanto la sanatoria, meglio detto la sanzione non demolitoria, di cui all’art. 34 comma 2 T.U. 380/2001 non fosse applicabile, ma si desse luogo alla sola demolizione, e che per conseguenza, trattandosi di opera abusiva non sanabile, il recupero abitativo del sottotetto fosse precluso.
Contro tale sentenza, l’originaria ricorrente propone impugnazione, con appello contenente quattro motivi, che ripropongono quelli del primo grado:
– con il primo di essi, deduce propriamente violazione dell’art. 34 T.U. 380/2001, sostenendo che i presupposti per applicare la sanzione pecuniaria sussisterebbero. In primo luogo, la stessa amministrazione nel preavviso di diniego avrebbe riconosciuto la impossibilità di rimessione in pristino senza pregiudizio per la parte conforme; in secondo luogo, avrebbe errato il Giudice di primo grado nel ritenere che la parziale difformità sia esclusa, e si versi invece nell’ambito delle variazioni essenziali, che prevedono la sola demolizione, nel momento in cui le misure dell’edificio, nella specie l’altezza, si discostino per più del 2% dalle misure assentite;
– con il secondo motivo, deduce violazione dell’art. 3 della l. 7 agosto 1990 n.241. Ipotizza in proposito che motivo della reiezione dell’istanza sia l’impossibilità, ritenuta dal Comune, di accordare il recupero abitativo del sottotetto, e afferma che in tal caso si sarebbe dovuto limitare il rigetto a quella parte dell’istanza;
– con il terzo motivo, deduce ulteriore violazione dell’art. 3 della l. 241/1990, perché le misure indicate dal Comune non sarebbero corrette;
– con il quarto motivo, sostiene infine che, applicata la sanzione pecuniaria, vi sarebbero anche i presupposti per il recupero abitativo del sottotetto.
La ricorrente appellante svolge infine (pp. 24-26 dell’atto) una critica ad alcune osservazioni contenute nella sentenza, che si riferiscono all’avere il Comune concesso la sanatoria in casi similari, estranei al giudizio, e ad un presunto atteggiamento di disponibilità che esso avrebbe manifestato nello svolgere il procedimento.
Resiste il Comune appellato, con atto 9 maggio e memoria 30 giugno 2016, e chiede che l’appello sia respinto; sostiene in proposito che l’abuso consisterebbe non solo e non tanto nella maggior altezza dell’opera, quanto nella trasformazione del sottotetto in un volume abitativo, ciò che il TAR avrebbe correttamente qualificato variazione essenziale assoggettabile alla sola sanzione demolitoria.
Alla camera di consiglio del giorno 7 luglio 2016, la Sezione ha dato atto a verbale della rinuncia alla domanda cautelare.
Con replica depositata il giorno 17 febbraio 2017, la ricorrente appellante ha evidenziato la diversità del suo caso rispetto ad altri, pure portati al giudizio di questo Giudice, relativi ad altre unità della stessa lottizzazione, là dove, non per sua opera, sono stati compiuti abusi di tipo diverso; evidenzia che nel suo caso l’opera abusiva è soltanto quella descritta.
Con note d’udienza del 21 febbraio per il Comune e del 23 febbraio 2017 per la ricorrente appellante, le parti hanno ribadito le rispettive tesi. Il Comune ha in particolare eccepito la inammissibilità della replica 17 febbraio 2017, per non avere egli stesso depositato alcuna memoria finale.
All’udienza del giorno 9 marzo 2017, la Sezione ha trattenuto il ricorso in decisione.

DIRITTO

1. L’appello è fondato e va accolto, per le ragioni e nei limiti di seguito esposti.
2. In primo luogo, non è rilevante la questione di inammissibilità della replica 17 febbraio 2017 della ricorrente appellante, sollevata dal Comune nelle note di udienza del 21 febbraio successivo, dal momento che l’atto di impugnazione contiene già una completa articolazione dei motivi di appello, sufficiente ai fini del decidere.
3. Va poi chiarito che i rilievi contenuti nella sentenza impugnata e riassunti in narrativa, concernenti da un lato il presunto atteggiamento di disponibilità tenuto dal Comune nei confronti ricorrente appellante, dall’altro il trattamento di altri, non precisamente individuati, veri o presunti abusi edilizi, costituiscono obiter dicta, estranei alla logica della decisione.
4. Sul primo punto, è’ evidente che un provvedimento amministrativo, come quello per cui è causa, una volta emesso esprime per definizione la volontà dell’ente, e rende quindi irrilevante l’atteggiamento soggettivo dei funzionari del Comune, quale che esso fosse.
5. Sul secondo punto, è altrettanto evidente che, al di fuori di uno specifico motivo di censura fondato su una disparità di trattamento rispetto a casi consimili precisamente individuati, motivo che non è stato dedotto, la sorte di altri abusi edilizi eventualmente commessi nel Comune non interessa la vicenda presente.
6. Di conseguenza, le critiche alla sentenza di primo grado che la ricorrente appellante svolge in merito sono a loro volta irrilevanti ai fini del decidere.
7. Tutto ciò posto, il primo motivo di appello è fondato e va accolto. In proposito, va ricordato quanto detto in premesse, ovvero che la ricorrente appellante presentò al Comune un’istanza dall’oggetto duplice: in primo luogo, l’applicazione della sanzione non pecuniaria di cui all’art. 34 T.U. 380/2001, poi il recupero abitativo del sottotetto creato con l’abuso. Vanno quindi, per chiarezza, richiamate le norme di riferimento, incominciando dalla prima.
8. L’art. 34 in questione dispone per quanto interessa al comma 1 che “gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell’abuso entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell’ufficio. Decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del comune e a spese dei medesimi responsabili dell’abuso”. Alla regola fa un’eccezione al comma 2, stabilendo che “quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione” pecuniaria, commisurata nel caso che interessa, di immobile abitativo, al doppio del costo di produzione. Infine, al comma 2 ter, aggiunto con d.l. 13 maggio 2011 n.70, prevede che “ai fini dell’applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali”.
9. La giurisprudenza ha chiarito – per tutte, la sentenza della Sezione 12 aprile 2013 n.2001- che la possibilità di applicare la sanzione pecuniaria va valutata nella fase esecutiva del procedimento di repressione dell’abuso, successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione: è per tal motivo che la norma viene a costituire, in sostanza, un’ipotesi ulteriore di sanatoria, denominata di solito “fiscalizzazione dell’abuso”.
10. Da ciò segue, secondo logica, che l’amministrazione, tenuta a decidere sull’istanza della ricorrente appellante, doveva valutare anzitutto se l’abuso costituisse effettivamente una “parziale difformità”, e in caso positivo se effettivamente non potesse essere demolito senza pregiudizio per la parte conforme.
11. In concreto, nel provvedimento impugnato in primo grado, l’amministrazione stessa si è fermata al primo punto, per ragioni tuttavia errate. Contrariamente a quanto ritenuto dal Giudice di primo grado, infatti, la norma sopra riportata del comma 2 ter non contiene una definizione normativa della parziale difformità, ma prevede una franchigia. In altre parole, intende stabilire non che ogni violazione eccedente il 2% considerato costituisce difformità totale, ma al contrario che le violazioni contenute entro tale limite sono irrilevanti.
12. In tal senso, è anzitutto un argomento letterale: il testo della norma, contenuta nell’articolo dedicato appunto alle conseguenze della “parziale difformità”, stabilisce quando la stessa “non si ha”, e quindi un caso in cui l’abuso esula.
13. Nello stesso senso, è anche l’argomento storico: la norma, come si è visto, è stata aggiunta in un momento successivo, con l’art. 5 del decreto legge 70/2011, cd. “Decreto sviluppo”, il cui dichiarato scopo è “liberalizzare le costruzioni private”, scopo rispetto al quale è congruo un regime, appunto, di franchigia, volto ad alleggerire gli oneri che gravano sul privato i costi della sanzione applicata a qualsiasi a difformità, anche fra le più lievi.
14. Infine, ad identico risultato conduce l’argomento logico sistematico: se effettivamente il comma 2 ter contenesse la nozione normativa di parziale difformità, ne seguirebbe che sarebbe abuso, e comporterebbe in via principale l’ordine di rimessione in pristino, ogni difformità rispetto alle misure di progetto, anche la più lieve, con risultati pratici assurdi, di moltiplicazione e complicazione del contenzioso.
15. Il secondo motivo di appello è invece infondato. Come si è detto, l’istanza presentata dalla ricorrente appellante richiedeva, oltre alla fiscalizzazione dell’abuso, il recupero abitativo del vano sottotetto creatosi. In proposito, la norma rilevante è l’art. 4 comma 1 lettera b) della l.r. 33/2007, per cui il recupero del sottotetto richiede che” l’edificio in cui è ubicato il sottotetto deve essere stato realizzato legittimamente ovvero, ancorché realizzato abusivamente per usi diversi da quello residenziale, deve essere stato sanato preventivamente ai sensi della legge 28 febbraio 1985 n.47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), della l. 23 dicembre 1994 n.724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) e della l. 24 novembre 2003 n.326 (Conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 30 settembre 2003 n.269, recante disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici)”. In altre parole, la sussistenza di un abuso non sanato è sufficiente ad escludere in radice il recupero.
16. E’ allora errato quanto sostiene la ricorrente appellante nel motivo in esame, ovvero che l’amministrazione potrebbe aver negato la fiscalizzazione per una ritenuta impossibilità di recuperare il sottotetto, e che in tal caso quindi avrebbe potuto, e dovuto, pronunciarsi solo sull’istanza di fiscalizzazione. Vale infatti proprio la proposizione contraria: il diniego pronunciato su tale istanza, che lasciava intatto l’abuso, precludeva qualsiasi possibilità di pronunciarsi sul recupero, e quindi la relativa parte dell’istanza si deve ritenere del tutto non esaminata.
17. Il terzo motivo di appello è invece assorbito dall’accoglimento del primo: una volta accertato che l’amministrazione ha errato nel qualificare l’abuso, l’affare dovrà essere riesaminato di nuovo. L’amministrazione quindi dovrà compiere una esatta e completa istruttoria, per stabilire di che abuso effettivamente si tratti e se la sua fiscalizzazione sia ammissibile. E’ ovvio da un lato che le necessarie misurazioni andranno eseguite in quella sede, e dall’altro che nella sede processuale presente trattare il punto comporterebbe una pronuncia “con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”, vietata ai sensi dell’art. 34 comma 2 c.p.a.
18. In base a tale norma va invece respinto il quarto motivo, nel quale, come detto in premesse, si sostiene che ove fosse accordata la fiscalizzazione dell’abuso, sarebbe da accordare anche il recupero del sottotetto. In altre parole, si sostiene quanto non risulta direttamente dal citato art. 4 comma 1 lettera b) della l.r. 33/2007, ovvero che ai fini del recupero abitativo all’edificio condonato ai sensi delle norme ivi richiamate sarebbe equiparato l’edificio “fiscalizzato”.
19. Come si è visto, su questa parte della istanza presentata in prima battuta una decisione non c’è stata, e sul punto dovrà pronunciarsi l’amministrazione, ove nel riesaminare l’affare ritenga che la fiscalizzazione vada accordata. E’ quindi evidente sotto ogni profilo che si tratta anche in questo caso di “poteri non ancora esercitati”, sui quali questo Giudice non può ora pronunciarsi.
[…]