Corte di Cass. Civ., Sez. II, 21/03/1989, n. 1402, dep. il 21 Marzo 1989

 

[…]

Svolgimento del processo
Con ricorso in data 11 aprile 1980, diretto al presidente del Tribunale di Palermo, […] esponeva:
– che in data 4 marzo 1964 era deceduto il […], il quale aveva disposto delle proprie sostanze con testamento olografo del 29 gennaio 1964;
– che […] aveva nominato eredi universali i propri fratelli […] (del quale esso ricorrente era a sua volta erede) e […];
– che […] sosteneva che alcuni beni (nel frattempo donati al figlio […]) gli erano stati attribuiti in piena proprietà, mentre invece dovevano ritenersi comuni ad entrambi gli eredi;
tanto premesso, il ricorrente chiedeva che venisse disposto il sequestro giudiziario dei beni in questione, sequestro che veniva autorizzato dal presidente del tribunale.
Con atto notificato 18 luglio 1980 […] conveniva davanti al Tribunale di Palermo […] e […], chiedendo la convalida del sequestro, la dichiarazione che i beni contesi erano comuni, con conseguente divisione degli stessi.
Il tribunale, con sentenza del 21 settembre 1982, rigettava la domanda.
[…] proponeva appello, che veniva accolto dalla Corte di appello di Palermo con sentenza non definitiva del 24 ottobre 1984.
La Corte di appello osservava che nella specie si trattava di interpretare la clausola testamentaria indicata con il numero 12 del testamento di […], del seguente tenore: “Lascio e assegno la casa di mia proprietà sita in […] da me oggi abitata ed accludo l’altra casa di mia proprietà in via […]”.
La difficoltà nasceva dal fatto che la disposizione si inseriva in un testamento col quale […] aveva prima disposto una serie di legati, in usufrutto ed in piena proprietà, in favore della moglie, poi aveva proceduto alla haeredis institutio dei due fratelli legittimi […] e […], con precisazione che a favore degli stessi vi erano delle “assegnazioni particolari e chiarificatrici”. Seguivano varie disposizioni numerate e relative a singoli beni in cui veniva specificato il beneficiario, ad eccezione di quella all’origine della controversia e che seguiva una disposizione a favore di […].
La corte di appello riteneva che nella specie ricorreva una ipotesi di divisione parziale effettuata dal testatore, con la conseguenza che i beni non specificamente assegnati, come quelli per cui era causa, dovevano ritenersi attribuiti in comune a tutti gli eredi.
La conclusione secondo la quale l’intenzione del de cuius era stata quella di attribuire i beni menzionati nella clausola n. 12 in comune a tutti gli eredi era comunque desumibile anche dall’esame complessivo delle clausole costituenti il testamento.
La Corte di appello rilevava che l’adesione alla tesi dei convenuti, secondo la quale i beni oggetto della clausola in questione dovevano intendersi assegnati a […], avrebbe reso superflua la espressa indicazione dei due fratelli del testatore come eredi, contenuta nella prima parte, derivando tale qualità già dalla assegnazione agli stessi dei vari beni menzionati nelle altre clausole.
Né a favore di tale tesi valeva l’osservazione che nel testamento non vi erano altre attribuzioni congiunte di beni, dal momento che non si vedeva perché il de cuius avrebbe dovuto comportarsi in maniera uniforme, a parte la ricorrenza nella specie dell’ipotesi di una divisione parziale.
Ugualmente non si poteva sostenere che se era pacifico che per i beni indicati nelle clausole n. 5 e 6, pur non essendo menzionato alcun beneficiario, quest’ultimo andava individuato nel destinatario della ultima attribuzione, la stessa conclusione doveva valere per i beni contemplati nella clausola n. 12. Non rientrava, infatti, nello stile del testatore riferire le attribuzioni senza specifica indicazione del beneficiario al soggetto in precedenza nominato, come era dimostrato dal fatto che, dopo aver annunciato una elencazione di lasciti in favore della moglie, aveva poi ribadito in uno di tali lasciti, indicato col n. 8, la qualità di legataria della moglie.
Ad avviso della Corte di appello un elemento decisivo in senso favorevole alla tesi dell’attore era individuabile nel fatto che il testamento aveva attribuito un numero ad ogni disposizione relativa a singoli gruppi di beni aventi una identica destinazione soggettiva, il che portava ad escludere che i beneficiari della clausola n. 12 fossero gli stessi di cui alla clausola precedente.
Alla luce di quanto in precedenza esposto, la Corte di appello riteneva non era esatta la affermazione degli appellati secondo la quale la clausola in questione, se interpretata nel senso sostenuto dall’attore, sarebbe stata inutile, mentre la interpretazione da essi sostenuta era conforme all’art. 1367 cod. civ.
La Corte di appello, infine, riteneva infondata la eccezione proposta da […] di inopponibilità nei suoi confronti della sentenza di accoglimento della domanda per essere stata essa trascritta, in data di più di cinque anni successiva alla trascrizione dell’acquisto mortis causa contestato in favore del proprio dante causa, in quanto nell’ipotesi prevista dall’art. 2652 n. 7 cod. civ. , invocato da […], la buona fede dell’acquirente non può essere presunta, ma va provata dall’interessato, costituendo tale disposizione solo un’integrazione di quanto disposto dall’art. 534 cod. civ. con riferimento all’acquisto dall’erede apparente, in cui la buona fede non è presunta.
Nella specie i contrasti tra parenti facevano propendere per la presunzione hominis della malafede nella alienazione e nell’acquisto dei beni tra padre e figlio.
Contro tale decisione hanno proposto separati ricorsi […] e gli eredi di […], rispettivamente con cinque e con sei motivi.
Resiste con controricorso […].
Giuseppe […] ha anche depositato memoria.
I primi cinque motivi di entrambi i ricorsi sono identici.

Motivi della decisione
Va, innanzitutto, disposta la riunione dei ricorsi. Il sesto motivo del ricorso degli eredi di […], con il quale ci si duole del fatto che la Corte di appello non si sia espressamente pronunciata sulla eccezione di difetto di legittimazione passiva, in ordine alla domanda di restituzione, di […], per non essere più questi proprietario dei beni contesi, va esaminato per primo.
Il motivo è infondato.
La Corte di appello, infatti, non aveva ragione di pronunciarsi espressamente su tale eccezione, dal momento che ha deciso (in conformità alla domanda originaria) solo in ordine alla comproprietà dei beni per cui era causa in base al testamento.
Con il primo motivo di entrambi i ricorsi si denuncia violazione dell’art. 1362 cod. civ. e sostanzialmente si deduce che la Corte di appello, partendo dalla esatta premessa della ammissibilità di una divisione parziale del testatore ex art. 734 cod. civ. , ne ha senz’altro tratto la conseguenza che una ipotesi del genere ricorresse nella specie, per cui i beni menzionati nel testamento, ma non specificamente assegnati, dovevano considerarsi comuni a tutti gli eredi, senza accertarsi se dall’esame complessivo del testamento non risultasse, invece, una diversa volontà del de cuius.
Il motivo è infondato, in quanto la Corte di appello, come in precedenza esposto, ha ritenuto che l’intenzione del testatore della attribuzione congiunta dei beni per cui era causa risultava confermata dall’esame complessivo della scheda testamentaria.
Col secondo motivo dei due ricorsi vengono proposte due distinte censure.
Col la prima viene denunciata violazione dell’art. 1367 cod. civ. e si sostiene che, aderendo alla tesi della Corte di appello, la clausola n. 12 non sarebbe destinata a produrre alcun effetto, in quanto la attribuzione congiunta ai due eredi dei beni in essa contemplati non avrebbe avuto bisogno di una espressa previsione, essendo la logica conseguenza della vis expansiva della haeredis institutio.
Con la seconda censura viene denunciata la violazione dell’art. 1363 cod. civ. e si deduce che la conclusione cui è giunta la Corte di appello in ordine alla inutilità della clausola in questione, è in contrasto con il fatto che la stessa faceva parte delle disposizioni le quali erano destinate a precisare la concreta volontà del testatore, dopo la affermazione della intenzione di nominare eredi i fratelli.
Entrambe le censure sono infondate.
In ordine alla prima va osservato che l’interprete deve ricorrere al criterio ermeneutico integrativo fissato dall’art. 1367 cod. civ. solo quando, esaurita la interpretazione ricognitiva, rimanga ancora il dubbio, il che non si verifica se alla clausola da interpretare egli abbia già attribuito con certezza un determinato senso, ancorché tale da svelarne il carattere pleonastico, (Cass. 21 marzo 1977 n. 1100), il che è appunto quanto si è verificato nella specie, in cui la Corte di appello ha interpretato la clausola controversa nel senso della intenzione del testatore della attribuzione congiunta dei beni in essa considerati, anche se tale risultato sarebbe stato comunque ricollegabile alla haeredis institutio.
Per quanto riguarda la seconda censura va rilevato che la Corte di appello ha chiarito che la sostanziale inutilità della clausola in questione (secondo l’interpretazione cui ha aderito) trovava una spiegazione nelle condizioni culturali del testatore, il quale probabilmente ignorava che, anche senza una espressa disposizione in tal senso, i beni per cui è causa sarebbero stati attribuiti congiuntamente agli eredi.
Col terzo motivo di entrambi i ricorsi vengono specificamente censurati gli argomenti, desunti dalla scheda testamentaria, che la Corte di appello ha addotto a critica della tesi sostenuta dal tribunale ed a sostegno della conclusione cui è giunta.
Si osserva, innanzitutto, che partendo dalla premessa secondo la quale il testatore non sapeva che i beni da lui non specificamente assegnati sarebbero diventati di proprietà comune dei due eredi, indipendentemente da una espressa disposizione in tal senso, la Corte di appello avrebbe dovuto trarne la conclusione che se la volontà del de cuius fosse stata quella di assegnare in comune ai due eredi i beni contemplati nella clausola n. 12 avrebbe sentito la necessità di precisare in tale clausola i beneficiari.
Si deduce, poi, che la Corte di appello non poteva sbrigativamente liquidare l’obiezione che l’interpretazione da essa sostenuta contrastava con l’intenzione del testatore, desumibile dal complesso delle disposizioni, di evitare che i beni relitti cadessero in comunione, osservando che non si vedeva perché il de cuius avrebbe dovuto comportarsi sempre in maniera uniforme.
I ricorrenti ribadiscono, poi, sostanzialmente, sotto il profilo della insufficiente motivazione, la censura contemplata nel primo motivo e deducono che nella interpretazione della Corte di appello non viene chiarito come poteva far parte delle disposizioni chiarificatrici, cioé destinate a determinare la composizione delle quote dei singoli eredi, la attribuzione in comune di determinati cespiti, che sarebbe stata la conseguenza anche della omissione di una loro espressa menzione.
I ricorrenti osservano, ancora, che la Corte di appello non ha tenuto nel debito conto la circostanza che anche in disposizioni che prevedevano quella indicata con il n. 12 il testatore non aveva menzionato il beneficiario della attribuzione, il quale era, peraltro, pacificamente individuabile nell’ultimo soggetto nominato.
Non avrebbe fondamento, infine, la affermazione della Corte di appello secondo la quale il testatore avrebbe attribuito un paragrafo a singoli gruppi di identica destinazione soggettiva, il che consentiva di escludere che la clausola n. 12 era legata a quella precedente.
A parte il fatto che la Corte di appello ha dato atto della irrazionalità della numerazione usata dal de cuius, e che era “umanamente impossibile” indagare sui criteri che avevano ispirato il testatore nella organizzazione e delimitazione delle clausole testamentarie, tale affermazione non terrebbe conto del fatto che il testatore aveva diviso in sette paragrafi singolarmente numerati l’unico legato di usufrutto in favore della moglie ed una sola volta, in tutta la scheda, aveva raggruppato in un unico paragrafo la assegnazione di più beni ad un medesimo beneficiario.
Anche tale motivo non può trovare accoglimento. La Corte di appello, infatti, ha dato ampia e convincente motivazione della conclusione cui è giunta, sulla base di un esame complessivo delle clausole del testamento, partendo dalla premessa della impossibilità di individuare nello stesso una chiara struttura logica, e le critiche che gli attuali ricorrenti muovono alla sentenza impugnata non sono idonee a far ritenere incompatibile, dal punto di vista logico, la ritenuta intenzione del testatore di attribuire congiuntamente agli eredi i beni per cui è causa con il contenuto del testamento, ma si limitano a prospettare la astratta possibilità di una diversa interpretazione.
Col quarto motivo di entrambi i ricorsi viene censurata la affermazione secondo la quale nella fattispecie considerata dall’art. 2652 n. 7 cod. civ. la buona fede non è presunta, ma va provata dall’interessato, in conformità al disposto dell’art. 534 cod. civ. , sostenendosi che le due norme disciplinano fattispecie diverse, il che giustificherebbe un diverso regime probatorio della buona fede.
Il motivo è fondato.
La tesi secondo la quale la buona fede di cui all’art. 2652 n. 7 cod. civ. non si può presumere, ma va provata dall’avente causa, secondo quanto disposto dall’art. 534, secondo comma, cod. civ. , è stata affermata da Cass. 15 marzo 1980 n. 1741, richiamata dalla sentenza impugnata.
Tale decisione è partita dalla premessa secondo la quale la deroga al principio della presunzione di buona fede di cui all’art. 534 cod. civ. va individuata nella necessità di una tutela particolarmente intensa dello status di erede effettivo e dei diritti che ne conseguono nei confronti dei terzi e nella maggiore facilità, in simili situazioni, per il terzo acquirente, di fornire, attraverso circostanze positive inerenti al proprio acquisto a non domino, la prova concreta della propria buona fede.
A ciò si dovrebbe aggiungere, sulla scia di quanto affermato nella relazione al re della commissione che ha redatto il codice (n. 259) che nell’ipotesi in questione la buona fede è un elemento costitutivo dell’acquisto che, appunto perché tale, deve essere provata dall’acquirente che la invoca.
Stando così le cose, secondo Cass. 15 marzo 1980 n. 1741, non si potrebbe dubitare del fatto che le stesse ragioni e le stesse esigenze siano riscontrabili anche in riferimento all’ipotesi disciplinata dall’art. 2652 n. 7 cod. civ. Ed invero non sarebbe concepibile – a meno di non voler accusare il legislatore di assoluta incoerenza – che due norme del codice civile che (benché situate materialmente in collocazione diversa) disciplinando l’identico istituto (l’erede apparente e la situazione dei terzi che dallo stesso abbiano acquistato beni facenti parte dell’eredità), assumano dell’istituto stesso configurazioni diverse.
A ben vedere, l’art. 2652 n. 7 cod. civ. non farebbe altro che maggiormente specificare, in relazione ad un problema particolare, la disciplina generale dei terzi avente causa dall’erede apparente già contenuta – nelle linee generali – nell’art. 534 cod. civ. E ciò sarebbe confermato dal fatto che l’art. 2652 n. 7 cod. civ. contiene un espresso richiamo all’art. 534 cod. civ. , di cui fa salve (cioé terrebbe ferme) le disposizioni, in tutte le loro implicazioni e conseguenze.
In definitiva l’art. 2652 n. 7 cod. civ. estenderebbe gli effetti della pubblicità sanante ai terzi acquirenti a titolo gratuito, a condizione che siano trascorsi cinque anni almeno tra la trascrizione del loro acquisto e la trascrizione della domanda dell’erede vero. I principi relativi alla buona fede ed alla prova di essa resterebbero, però, quelli fissati dall’art. 534 cod. civ.
Secondo Cass. 15 marzo 1980 N. 1741, infine, non si comprenderebbe per quale motivo il beneficio della presunzione di buona fede dovrebbe estendersi anche all’acquirente a titolo gratuito, che già viene a godere, per effetto del passaggio del quinquennio, del fatto che il suo acquisto a non domino viene fatto salvo.
In senso contrario all’orientamento espresso da tale decisione va, innanzitutto, rilevato che non sembra esatta l’affermazione che l’art. 2652 n. 7 e l’ art. 534 cod. civ. disciplinano lo stesso istituto.
Questa S.C. ha già avuto occasione di affermare (Cass. 29 luglio 1966 n. 2114) che mentre l’art. 534 cod. civ. si riferisce esclusivamente alla petizione di eredità ed all’acquisto a titolo oneroso da chi è considerato erede apparente, ossia da chi possiede o si comporta come erede o successore universale, l’art. 2652 n. 7 cod. civ. si riferisce a tutti gli altri casi in cui si contesta il fondamento di un acquisto a causa di morte, il che significa che esso si applica all’acquisto a titolo oneroso dall’erede in tutti i casi in cui non si rientra nella haereditatis petitio, all’acquisto a titolo gratuito dall’erede apparente, agli acquisti dal legatario.
Ne consegue che solo una ipotesi può, in teoria, rientrare nel campo di applicazione sia dell’art. 534 che dell’art. 2652 n. 7 cod. civ. , e cioé la alienazione a titolo oneroso al terzo da parte dell’erede apparente.
Ai fini dell’applicabilità dell’art. 2652 n. 7, però, è richiesto un ulteriore requisito e cioé che la trascrizione della domanda con la quale viene contestato il fondamento dell’acquisto a causa di morte sia di almeno cinque anni successiva alla trascrizione dell’acquisto stesso.
L’art. 2652 n. 7 cod. civ. , quindi, non integra l’art. 534 cod. civ. , ma regola fattispecie diverse e richiede un requisito specifico (inerzia del vero erede per cinque anni) idoneo da solo a giustificare una diversità di disciplina in ordine alla prova della buona fede.
Tale conclusione trova conferma nella stessa formulazione dell’art. 2652 n. 7 cod. civ. , il quale, prevedendo espressamente che è “salvo quanto è disposto dal secondo e dal terzo comma dell’art. 534”, lascia chiaramente intendere che le due norme disciplinano fattispecie con presupposti diversi e non che l’una integri la disciplina contenuta nell’altra.
Con riferimento specifico alla presunta incomprensibilità del riconoscimento del beneficio della presunzione della buona fede nei confronti dell’acquirente a titolo gratuito, si può osservare che gli acquisti a titolo gratuito dal terzo in buona fede sono fatti salvi anche nelle ipotesi considerate nei nn. 1, 4, 6 e 9 dell’art. 2652 cod. civ. , per le quali non si dubita che la buona fede sia presunta, in conformità ai principi generali, per cui sarebbe piuttosto incomprensibile una diversità di disciplina riferita alla ipotesi considerata nel n. 7.
L’accoglimento del quarto motivo comporta l’assorbimento del quinto motivo di entrambi i ricorsi, con il quale si deduce che la corte di appello non ha preso in considerazione gli elementi dedotti a sostegno della buona fede di […] ed ha desunto la malafede dalla esistenza, già all’epoca della donazione, di contrasti tra gli eredi, il che non risultava dagli atti.
Il definitiva va rigettato il sesto motivo del ricorso presentato dagli eredi di […], così come vanno rigettati i primi tre motivi di entrambi i ricorsi.
Va accolto, invece, il quarto motivo di entrambi i ricorsi, con conseguente assorbimento del quinto motivo di entrambi i ricorsi.
In relazione al motivo accolto, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio, per un nuovo esame, ad altra sezione della Corte di appello di Palermo, che provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di cassazione.
[…]