Corte di Cass., Sez. 2, Sentenza n. 21632 del 2006, dep. il 06/10/2006

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MOTIVI DELLA DECISIONE
Con i due motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente stante la loro stretta connessione, si denunzia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c. nonché dell’art. 1421 c.c.. Rileva il ricorrente che il giudice d’appello, chiamato a decidere sulla domanda di risoluzione del contratto e di riduzione in pristino, è andato oltre i suoi compiti ed ha riconosciuto ex officio un quid che non risultava mai chiesto dalle parti in giudizio, ossia la nullità dell’accordo verbale ai sensi dell’art. 1350 c.c., n. 4 e dell’art. 1351 c.c.. Non avendo l’attore […] chiesto l’esecuzione del contratto, ma la rimozione delle canne fumarie a seguito dell’inadempimento di controparte, era configurabile nel caso di specie una domanda di risoluzione implicita dell’accordo che non atteneva alla sua applicazione o esecuzione, mentre, dal canto suo, l’originario convenuto […] e dopo il suo decesso l’appellante […] non avevano mai eccepito in giudizio la nullità dell’accordo in questione, essendosi limitati ad opporsi alla rimozione delle canne fumarie, perché esistenti per servitù per destinazione del padre di famiglia, eccependo altresì la nullità della domanda avversaria per difetto di causa petendi. In tale contesto ed in assenza di qualsivoglia attività assertiva delle parti in tal senso, la Corte salentina non avrebbe potuto, ad avviso del ricorrente, rilevare d’ufficio la nullità del contratto verbale per difetto di forma scritta.
Ciò aveva invece fatto ponendosi in consapevole contrasto con il predominante orientamento giurisprudenziale di legittimità contrario al rilievo d’ufficio della nullità del contratto quando la domanda tenda al suo annullamento o alla rescissione o, come nella specie, alla risoluzione, conformandosi, invece, ad un orientamento nettamente minoritario che considera privo di sostanziale fondamento teorico dogmatico l’approccio che distingue tra domande di adempimento e domande di annullamento, rescissione e risoluzione del contratto.
La Corte territoriale aveva pertanto violato i principi del giusto processo e della corrispondenza fra chiesto e pronunciato (artt. 99 e 112 c.p.c.). Il ricorso è fondato.
Va rimarcato come con indirizzo maggioritario questa Corte ha affermato che “il potere del giudice di dichiarare d’ufficio la nullità di un contratto ex art. 1421 c.c. va coordinato con il principio della domanda fissato dagli artt. 99 e 112 c.c., sicché solo se sia in contestazione l’applicazione o l’esecuzione di un atto, la cui validità rappresenti un elemento costitutivo della domanda, il giudice è tenuto a rilevare, in qualsiasi stato e grado del processo, l’eventuale nullità dell’atto; al contrario qualora la domanda sia diretta a fare dichiarare la invalidità del contratto o a farne pronunziare la risoluzione per inadempimento, la deduzione (nella prima ipotesi) di una nullità diversa da quella posta a fondamento della domanda e (nella seconda ipotesi) di una qualsiasi causa di nullità o di un fatto costitutivo diverso dall’inadempimento, sono inammissibili; ne’ tali questioni possono essere rilevate d’ufficio, ostandovi il divieto di pronunziare ultra petita (cfr. ex plurimis: Cass. 6 agosto 2003 n. 11847; Cass. 14 gennaio 2003 n. 435; Cass. 17 maggio 2002 n. 7215 cui adde, seppure in epoca più risalente, Cass., Sez. Un., 3 aprile 1989 n. 1611 e Cass., Sez. Un. 25 marzo 1988 n. 2572). In altri termini, l’indicato orientamento giurisprudenziale, nel limitare gli effetti scaturenti dalla lettura dell’art. 1421 c.c. afferma che quest’ultima disposizione deve essere coordinata con la statuizione dell’art. 112 c.p.c. che, sulla base del principio dispositivo su cui va modellato il processo, impone al giudicante il limite insuperabile della domanda attorea. Così la rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto opera quando si chieda l’adempimento del contratto stesso, allorquando cioè si vogliano far valere diritti presupponenti la validità del contratto medesimo, in considerazione del potere – dovere del giudice di vanificare la sussistenza delle condizioni dell’azione, indipendentemente dalla condotta processuale della parte nei cui confronti si chiede che il contratto spieghi i suoi effetti. Ne consegue che la nullità può essere rilevata d’ufficio solo se si pone – va ancora una volta ribadito – in contrasto con la domanda dell’attore, solo se cioè questi ha chiesto l’adempimento del contratto, in quanto il giudicante può sempre rilevare d’ufficio le eccezioni, che non rientrino tra quelle sollevabili unicamente tra le parti e che soprattutto non amplino l’oggetto della controversia, ma che, per tendere al rigetto della domanda stessa, si configurano come mere difese del convenuto, dovendosi di contro pervenire a diverse conclusioni nei casi in cui la nullità si colloca non nell’ambito delle eccezioni ma “nella zona delle difese dell’attore, che l’attore avrebbe potuto proporre, ma non ha proposto” (cfr. al riguardo tra le altre anche Cass. 9 febbraio 1995 n. 1453; Cass. 9 febbraio 1994 n. 1340; Cass. 15 febbraio 1991 n. 1589).
Questa Corte non ignora che, in linea con una parte della dottrina, qualche decisione – non condivide la tesi che la rilevabilità d’ufficio della nullità debba essere limitata unicamente alla domanda di adempimento del contratto, rimarcando al riguardo che la sequenza logico – giuridica su cui si fondata detta domanda è la stessa di quella propria della risoluzione di inadempimento, perché anche quest’ultima “si appoggia con identico grado di coerenza logica e giuridica sulla validità del negozio: da questo promana il rapporto, se ne chieda la risoluzione o si esiga l’adempimento della prestazione in essa dedotta”. Ed a conforto di tale diversa opinione, volta ad estendere l’ambito di operatività della disposizione di cui all’art. 1421 c.c. in esame, si è anche ricordato che pure l’azione di annullamento richiede, con una priorità logico – giuridica assimilabile in qualche misura a quella riscontrata per la risoluzione, che il contratto di cui si chiede l’impugnativa sia esente da quelle ragioni che ne inficiano in radice la validità, determinandone l’inefficacia caratterizzante l’azione di nullità (cfr. tra le decisioni assegnabili a tale diverso orientamento da ultimo: Cass. 22 marzo 2005 n. 6170 ed in precedenza Cass. 2 aprile 1997 n. 2858). Questa Corte ritiene di aderire all’orientamento maggioritario (confermato recentemente da Cass. n. 19903/2005), che valorizza le indubbie diversità che sul piano giuridico e fattuale si riscontrano tra le fattispecie in cui si chieda in giudizio l’applicazione del contratto da quelle in cui si agisca invece per eliminarne gli effetti, facendo valere l’annullabilità del contratto stesso o chiedendone la risoluzione o rescissione. Nel primo caso infatti la nullità costituisce come è stato osservato, l’antitesi logico – giuridica della validità ed efficacia del negozio, di cui si chiede l’esecuzione, sicché il possibile accertamento della nullità di detto negozio investe in modo diretto ed immediato l’oggetto iniziale della controversia; il che non avviene negli altri casi in cui venga instaurato un giudizio di annullamento, risoluzione o rescissione. Più specificamente la netta distinzione tra questi ultimi giudizi da una parte e quello di nullità dall’altro per quanto attiene al petitum ed alla causa petendi, la specificità delle finalità perseguibili con le corrispettive azioni, il diverso atteggiarsi dell’interesse delle parti in causa – che nella pluralità delle alternative dall’ordinamento ad esse lasciate possono preferire alla declaratoria della nullità una decisione limitata alla rimozione degli effetti del negozio – configurano un insieme di elementi destinati ad influire direttamente sui poteri del giudice ed a determinare il tipo di risposta giudiziaria. Come è stato inoltre sottolineato in dottrina se si vuole fondare, per ampliare l’ambito applicativo dell’art. 1421 c.c. ed i poteri d’ufficio del giudice, sulla esigenza di salvaguardia dei valori fondamentali del sistema, deve necessariamente riconoscersi che il fine di contrastare comportamenti dei privati lesivi di detti valori è configurabile unicamente per alcune ipotesi di nullità, quelle dipendenti da illiceità (dell’oggetto, della causa e dei motivi) e non invece per quelle scaturenti dalla mancanza di un elemento costitutivo (ad esempio: accordo tra le parti), o da un presupposto (legittimazione). Per di più si è anche osservato che attraverso la rilevabilità d’ufficio il legislatore mira, per un verso, ad impedire il formarsi del giudicato sulla validità del negozio (nullo) e, per altro verso, ad eliminare un atto idoneo a suscitare affidamenti assolutamente precari, salvaguardando così l’ordinato svolgimento del traffico giuridico. E sulla base di tale preliminare considerazione si è aggiunto che se alla domanda di esecuzione di un negozio nullo, il convenuto non oppone la nullità, esclusa in ipotesi la rilevabilità d’ufficio, il giudice non potrebbe che accogliere la domanda, venendosi così ad aggiungere all’atto che integra la fattispecie dell’azione di esecuzione del negozio, un ulteriore indice, rappresentato dalla sentenza di accoglimento della legittimità delle situazioni giuridiche di cui il negozio è (o dovrebbe essere) fonte, con possibili pregiudizievoli effetti per tutti i consociati. Orbene se questa è la chiara “ratio” sottesa al disposto dell’art. 1421 c.c. non resta che concludere che essa non ricorre allorquando vengano promosse azioni negoziali diverse da quelle per l’esecuzione, perché anche a volere ammettere in relazione ad esse la rilevabilità d’ufficio, tale rilevabilità potrebbe dar luogo solo ad una pronunzia incidentale, senza che peraltro sulla nullità si formi il giudicato, con la conseguenza che l’escludere la rilevabilità d’ufficio della nullità al di fuori delle ipotesi nelle quali essa è diretta ad impedire – per effetto del giudicato – il formarsi di un indice caduco di efficacia del negozio (sul quale, come detto, possono sorgere affidamenti da parte dei terzi) corrisponde anche ad un corretto procedimento ermeneutico della norma codicistica in esame, perché evita una ingiustificata ingerenza nel potere delle parti di disporre delle eccezioni e, più, in generale di scegliere le modalità attraverso le quali fare valere in giudizio le proprie ragioni. Sotto quest’ultimo versante non può trascurarsi anche l’ulteriore considerazione che una simile lettura del citato articolo 1421 c.c. si lascia preferire anche sulla base del principio del giusto processo e del disposto dell’art. 111 Cost., così come modificato dalla L. 23 novembre 1999, n. 2, art. 1, alla luce del quale si legittima un sistema processuale che obbliga le parti, sin dai loro primi atti difensivi, a compiutamente indicare gli elementi di fatto e di diritto posti a base della loro richiesta, ad assicurare un pieno e completo contraddittorio tra le parti stesse su un piano di assoluta parità, seppure nel rispetto di termini di decadenza e di preclusioni aventi portata acceleratoria del processo (cfr. da ultimo Cass., Sez. Un., 20 aprile 2005 n. 8202 e 8203), e ad evitare, al di là di precise e certe indicazioni normative, ampliamenti di poteri di iniziativa officiosa suscettibili di tradursi in un soggettivismo giudiziario, capace di incidere con ricadute negative anche sulla certezza del diritto. Alla stregua delle svolte argomentazioni l’impugnata sentenza va cassata con rinvio della causa ad altra Sezione della Corte d’appello di Lecce che si uniformerà al seguente principio di diritto:
“La rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto opera quando si chieda l’adempimento del contratto, in considerazione del potere del giudice di verificare la sussistenza delle condizioni dell’azione e non quando la domanda sia diretta a far dichiarare l’invalidità del contratto (o farne pronunziare la risoluzione per inadempimento), dovendosi coordinare l’art. 1421 c.c. con gli artt. 99 e 112 c.p.c., i quali, sulla base del principio dispositivo su cui va modellato il processo, impongono al giudicante il limite insuperabile della domanda attorea, anche alla luce del nuovo art. 111 Cost. che richiede di evitare, al di là di precise e certe indicazioni normative, ampliamenti dei poteri di iniziativa officiosa”. Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

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