Corte Cass., Sez. 3, Sent. n. 1701 del 2009, dep. il 23/01/2009

[…]

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Col primo motivo il ricorrente si duole denunciando violazione di molteplici norme processuali, tra le quali quelle di cui agli artt. 327 e 333 c.p.c., e art. 343 c.p.c., comma 1, che il tribunale abbia ritenuto ammissibili gli appelli incidentali di […] e […], ai quali l’appello era stato notificato ex art. 332 c.p.c., benché esso non fosse stato proposto all’udienza di comparizione di cui all’art. 343 c.p.c., comma 1, (nella formulazione all’epoca vigente), fissata ex art. 332 c.p.c., al 5.6.2002, ma a quella di precisazione delle conclusioni del 6.11.2002.

1.1.- Il motivo è fondato in quanto l’art. 343 c.p.c., comma 1, nel testo ancora applicabile ai giudizi, come quello di specie, pendenti al 30.4.1995 (L. n. 353 del 1990, ex art. 90, come sostituito dal D.L. n. 432 del 1995, art. 9, convertito in L. n. 534 del 1995), recita(va) che “l’appello incidentale si propone nella prima comparsa o, in mancanza di costituzione in cancelleria, nella prima udienza o in quella prevista negli artt. 331 e 332 c.p.c.”.

La corte d’appello ha ritenuto che l’impugnazione fosse ammissibile in quanto all’udienza del 6.11.2002, alla quale si erano costituiti gli appellanti incidentali a seguito della notifica dell’appello principale ex art. 332 c.p.c., non erano per loro scaduti i termini dell’impugnazione ex art. 327 c.p.c..

Ma si è così discostata dal principio reiteratamente affermato da questa corte di legittimità secondo il quale, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione (principale), tutte le altre debbono essere proposte “in via incidentale nello stesso processo” (art. 333 c.p.c.), con la conseguenza che, siano esse tempestive (proposte cioè entro il termine abbreviato o annuale d’impugnazione), o tardive (nel senso di cui all’art. 334 c.p.c.), vanno necessariamente osservati i termini di cui agli artt. 343 e 370 e 371 c.p.c.; è dunque ammissibile l’impugnazione tardiva che abbia ottemperato a tali ultime disposizioni, mentre non lo è l’impugnazione “tempestiva a norma degli artt. 325 e 327 c.p.c., che peraltro non abbia rispettato il termine di cui agli artt. 343 e 370 e 371 c.p.c.” (cfr., ex plurimis, Cass. Sez. Un., n. 11678/90, in motivazione).

Era pertanto irrilevante che non fosse ancora decorso il termine annuale al momento della costituzione degli appellanti incidentali, il cui appello si palesava inammissibile per mancato rispetto del termine assegnato ex art. 332 c.p.c..

1.2.- Assorbiti gli ulteriori profili di censura, la causa va decisa nel merito in tal senso, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto. Le spese del giudizio di appello (da quantificarsi nei due terzi di Euro 6.963,59, oltre accessori, giusta la liquidazione complessivamente effettuata dalla corte d’appello in tale somma per tutte e tre le parti in quel grado) e di quello di cassazione possono essere compensate quanto ai rapporti processuali tra il […] e gli intimati […].

2.- Col secondo motivo è denunciata violazione degli artt. 112 e 277 c.p.c., per omessa pronuncia sull’inammissibilità di entrambi gli appelli (dunque anche dell’appello principale) per non essere stata impugnata la ratio decidendi – che si assume autonoma relativa alla mancanza di prova del danno da inalienabilità del bene per mancanza del certificato di abitabilità; nonché, sotto un secondo profilo, violazione degli artt. 342, 329 e 324 c.p.c., e del principio dell’interesse all’impugnazione, che si sarebbe dovuta dire inammissibile per omessa critica di una ratio decidendi in se stessa idonea a sorreggerla.

Si afferma in particolare che il motivo d’appello era sorretto (a pagina 10 dell’atto), esclusivamente dalla seguente motivazione: “è appena il caso di rilevare che l’eventuale definizione della pratica di condono edilizio non è un succedaneo del certificato di abitabilità. L’asserito conseguimento della sanatoria ex L. n. 47 del 1985, pertanto, non fa venir meno in capo al costruttore – venditore l’obbligo di ottenere il rilascio del certificato di abitabilità”.

2.1.- Il primo profilo è infondato poiché, a parte il rilievo che la decisione della causa nel merito evidentemente comporta l’implicito rigetto dell’eccezione di inammissibilità dell’appello, il vizio di omessa pronuncia non è configurabile in ordine alle eccezioni di. rito e, più in generale, in ordine alle questione impedienti di ordine processuale ma solo nel caso di mancato esame di domande od eccezioni di merito. Cass., sez. un., 18.12.2001, n. 15982, ha in particolare affermato – anche se in riferimento alle richieste istruttorie – che il vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sentenza è configurabile esclusivamente con riferimento a domande, eccezioni o assunti che richiedano necessariamente una statuizione di accoglimento o di rigetto. In ordine alle questioni processuali può invece profilarsi un vizio della decisione per violazione di norme diverse dall’art. 112 c.p.c., se ed in quanto la soluzione implicitamente data dal Giudice alla problematica prospettata dalla parte si riveli erronea e censurabile, oltre che utilmente censurata (cfr. Cass., n.. 13649/05, nn. 3927 e 18147/02, n. 5482/97, cui adde Cass., n. 1184/06).

Il secondo profilo verrà esaminato più avanti.

3.- Conviene ora scrutinare il quinto motivo, rinviando l’esame del terzo e del quarto.

Con il quinto motivo il ricorrente si duole dunque – deducendo errata interpretazione del giudicato formatosi in ordine alla condanna generica al risarcimento e, quindi, violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., e art. 324 c.p.c., e dei principi di diritto in tema di elementi costitutivi della cosa giudicata, nonché insufficiente, illogica ed erronea motivazione sul punto – che la corte d’appello abbia ritenuto che con la sentenza di condanna generica al risarcimento sarebbe stata accertata non solo la potenzialità del fatto a produrre un danno ma anche la sussistenza di un effettivo danno. E tanto avrebbe fatto operando un’erronea interpretazione del giudicato formatosi sul punto. 3.1.- Il motivo è infondato.

Con la sentenza n. 770/90 la domanda di condanna generica fu accolta per doversi considerare il danno “in re ipsa sul punto relativo al mancato ottenimento della licenza di abitabilità” in quanto “la licenza di abitabilità diminuisce certamente il valore di scambio dei beni compravenduti e costituisce danno in re ipsa per il quale devesi pronunciare condanna con remissione in prosieguo per la determinazione del danno”. La sentenza d’appello 1821/94, reiettiva del gravame del soccombente, affermò poi che sulla “responsabilità per danni dell’appellante … che costituisce il contenuto della sentenza qui impugnata, che è appunto di condanna generica del […] al risarcimento dei danni per l’inadempimento contrattuale inerente al mancato rilascio del certificato di abitabilità degli immobili compravenduti, si è, già prima della sentenza non definitiva qui impugnata, formato il giudicato”. Non è allora controvertibile che, non essendo stata la sentenza 1821/94 impugnata, si sia formato il giudicato (a) sull’esistenza di un danno in re ipsa (b) derivante dalla diminuzione del valore di scambio dei beni compravenduti (c) a causa dell’inadempimento contrattuale del […].

È, dunque, del tutto irrilevante che, secondo i più recenti arresti di questa corte, (a) un danno in re ipsa non sia mai configurabile essendo il danno sempre e comunque conseguenza della lesione del diritto e non potendo identificarsi con la lesione stessa, ovvero (b) che fosse vero o no che quella diminuzione vi fosse stata, o ancora (c) che tanto sia dipeso dall’inadempimento del […] (e tanto assorbe il terzo motivo di ricorso, col quale la sentenza è censurata per omesso rilievo dell’affermato difetto di “legittimazione passiva” d[…] per essere stati gli immobili acquistati non da lui ma dalla società).

Il formatosi giudicato è nel senso che il danno concretamente sussisteva perché in re ipsa e che era stato provocato dal […].

Erroneamente l’appellante assume col quarto motivo di ricorso – del quale pure si dirà ancora in seguito – che con la pronuncia di condanna generica viene necessariamente accertato solo il danno potenziale e che l’accertamento dell’esistenza dell’effettivo danno viene demandato alla successiva fase di liquidazione, attribuendo all’affermazione un valore assoluto, preclusivo di ogni altra possibilità. Questo è quanto può accadere, essendosi ritenuto che ai fini della pronuncia di condanna generica è sufficiente l’accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di danno (ex multis, Cass., nn. 2947/05, 22384/04, 970 9/03); ma nulla impedisce che il Giudice possa accertare con la sentenza di condanna generica anche l’effettivo avveramento del danno, lasciando impregiudicate le sole questioni relative alla liquidazione (Cass., nn. 495/2000, 3634/80, 2420/76, cui adde, implicitamente, Cass. n. 11651/02, citata nella sentenza impugnata).

Le conformi conclusioni cui è addivenuta, con motivazione assolutamente congrua, la corte d’appello sono pertanto corrette in diritto.

4.- Vanno a queste punto esaminati il quarto motivo di ricorso ed il secondo profilo del secondo.

4.1.- Col quarto vengono denunciati vizio di ultrapetizione, erronea interpretazione del primo motivo degli appelli, carente o insufficiente motivazione sul punto e, subordinatamente, violazione dell’art. 345 c.p.c..

Si assume che l’appello era stato proposto per avere il Giudice, anziché determinare l’entità del danno, compiuto un nuovo accertamento sull’an debeatur che gli era precluso; mentre la corte d’appello lo aveva accolto per la diversa ragione che la condanna generica al risarcimento aveva già accertato la sussistenza del danno.

Si sostiene poi, in linea subordinata, che il motivo era inammissibile per non essere stata la questione sollevata innanzi al tribunale, ma solo in appello.

4.2.- Il motivo è infondato sotto entrambi i profili. Sotto il primo è di tutta evidenza l’intima connessione logica tra il sostenere che il tribunale non poteva far altro che liquidare il danno essendogli precluso un nuovo accertamento negativo sull’an (appello) ed il concludere che tanto era vero perché la sussistenza del danno era già stata accertata con sentenza passata in giudicato (sentenza), sicché non si coglie in che cosa l’ultrapetizione sarebbe consistita.

Sotto il secondo, basta rilevare che in primo grado era stata chiesta la liquidazione dei danni per il reato di truffa di cui l’attore era stato vittima e che, ovviamente, solo a fronte del totale rigetto della domanda per l’insussistenza del danno si pose per l’appellante l’esigenza di rappresentare specificamente che quella, pronuncia non avrebbe potuto essere emessa perché contrastante con il giudicato. 4.3.- Quanto al secondo profilo del secondo motivo, va detto che la corte territoriale ha così sintetizzato, alle pagine 3 e 4 della sentenza impugnata, i motivi di appello: “Tutti gli appellanti censurano la sentenza del Tribunale che aveva respinto la domanda di risarcimento sull’assunto che gli appellanti non avrebbero riportato danni in quanto sarebbe risultata indenne la commerciabilità dei beni. Si sostiene che la sussistenza del danno era già stata accertata con statuizione definitiva da ben due giudicati di condanna generica, per cui il Giudice di primo grado ha compiuto un nuovo accertamento sull’an debeatur che gli era assolutamente precluso”. Il ricorrente sostiene che il tribunale aveva anche affermato che “la pretesa di danno da inalienabilità del bene, dovuta al mancato certificato, non risulta dimostrata ex art. 2697 c.c.”, e che tale autonoma ratio decidendi non era stata impugnata. Tanto inequivocamente significa che, secondo il tribunale, gli attori non avevano provato di aver subito un danno dalla (pretesa) inalienabilità.

Ma tale statuizione è in contrasto con l’affermazione – sulla quale s’era formato il giudicato secondo quanto sopra rilevato – che il danno era in re ipsa, sicché l’omessa specifica impugnazione sul punto da parte degli appellanti è irrilevante in relazione alla circostanza che il danno sarebbe dovuto essere comunque liquidato per le ragioni sopra esposte.

Ne consegue l’inammissibilità del profilo di censura per difetto di interesse, volta che la fondatezza della critica mossa alla sentenza non sarebbe idonea a travolgerla.

5.- Il sesto ed il settimo motivo di ricorso (pagine 25 – 32 e 32 – 39) concernono le parti della sentenza relative al riconoscimento ed alla liquidazione del danno.

5.1.- Col sesto motivo sono denunciate apparente o insufficiente motivazione su punto decisivo e violazione e falsa applicazione degli artt. 61, 112, 115 e 345 c.p.c., e artt. 2697 e 1223 c.c., per avere la corte di merito acriticamente condiviso le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, secondo il quale gli immobili erano abusivi in quanto privi di regolare concessione edilizia e non potevano essere immessi sul mercato in considerazione della nullità degli atti di compravendita in assenza dei requisiti prescritti dalla legge.

Si sostiene in sintesi che a partire dalla domande di sanatoria dell’1.1.1986 gli immobili non potevano considerarsi abusivi ed erano anche trasferibili della L. n. 47 del 1985, ex art. 40, e art. 35, penultimo comma, e art. 52; che la corte era incorsa in vizio di ultrapetizione (o, altrimenti, nella violazione dell’art. 345 c.p.c., comma 1) in quanto gli appellanti avevano sempre chiesto il risarcimento dei danni da inalienabilità, mentre la corte aveva riconosciuto il danno da perdite di utilità che sarebbe stato possibile ricavare da vendita, permuta o operazione di garanzia; che, non essendosi tali eventi verificati, le conclusioni della corte erano state apodittiche.

5.2.- Il motivo è infondato.

Va premesso che le richiamate disposizioni della L. n. 47 del 1980, non autorizzano in alcun modo a ritenere che gli immobili potessero essere trasferiti dalla data delle domande in sanatoria (in senso contrario cfr. Cass. 10276/2005), ne’ il ricorrente chiarisce perché, a suo avviso, così invece fosse. L’art. 40 della predetta legge stabilisce infatti, che “gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali, esclusi quelli di costituzione, modificazione ed estinzione di diritti di garanzia o di servitù, relativi ad edifici o loro parti, sono nulli e non possono essere rogati se da essi non risultano, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi della concessione ad edificare o della licenza edilizia o della concessione rilasciata in sanatoria ai sensi dell’art. 31 ovvero se agli atti stessi non viene allegata copia conforme della relativa domanda, corredata della prova dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione di cui all’art. 35, comma 6. Per le opere iniziate anteriormente al 2 settembre 1967, in luogo degli estremi della licenza edilizia, può essere prodotta una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, rilasciata dal proprietario o altro avente titolo, ai sensi e per gli effetti della L. 4 gennaio 1968, n. 15, art. 4, attestante che l’opera risulti iniziata in data anteriore al 2 settembre 1967. Tale dichiarazione può essere ricevuta e inserita nello stesso atto, ovvero in documento separato da allegarsi all’atto medesimo”.

Questa corte ha inoltre enunciato il principio secondo il quale il venditore di un bene immobile destinato ad abitazione, in assenza di patti contrari, ha l’obbligo di dotare tale bene della licenza di abitabilità, senza la quale esso non acquista la normale attitudine a realizzare la sua funzione economico-sociale, e tale requisito giuridico essenziale ai fini del legittimo godimento e della commerciabilità del bene non può essere sostituito dalla definizione della pratica di condono e da altro, in quanto chi acquista un immobile – salvo che sia reso espressamente edotto della esistenza di qualche problema amministrativo o urbanistico – ha diritto alla consegna di un appartamento in tutto conforme alle leggi, ai regolamenti ed alla concessione edilizia e per il quale sia stata, quindi, rilasciata la licenza di abitabilità; conseguentemente la mancata consegna di tale licenza implica un inadempimento che, sebbene non sia tale da dare necessariamente luogo a risoluzione del contratto, può comunque essere fonte di un danno risarcibile ovvero costituire il fondamento dell'”exceptio” prevista dall’art. 1460 c.c., per il solo fatto che si è consegnato un bene che presenta problemi di commerciabilità, essendo irrilevante la circostanza che l’immobile sia stato costruito in conformità delle norme igienico – sanitarie, della disciplina urbanistica e delle prescrizioni della concessione ad edificare, ovvero che sia stato concretamente abitato (Cass., nn. 8880/2000, cui adde n. 15969/2000, 1391/98, 442/96, 11521/95).

È stato anche chiarito che nella vendita di immobile destinato ad abitazione, il certificato di abitabilità costituisce requisito giuridico essenziale del bene compravenduto poiché vale a incidere sull’attitudine del bene stesso ad assolvere la sua funzione economico – sociale, assicurandone il legittimo godimento e la commerciabilità (Cass., n. 1514 del 2006) e che la consegna del certificato di abitabilità dell’immobile oggetto del contratto, ove questo sia un appartamento da adibire ad abitazione, pur non costituendo di per sè condizione di validità della compravendita, integra un’obbligazione incombente sul venditore ai sensi dell’art. 1477 c.c., attenendo ad un requisito essenziale della cosa venduta, in quanto incidente sulla possibilità di adibire legittimamente la stessa all’uso contrattualmente previsto (Cass., n. 16216/2008). In siffatto contesto, l’opinione della corte d’appello che per 25 anni, fino alla data della concessione in sanatoria (fine del 1997), gli appellanti non furono in grado di ricavare dai loro beni l’effettiva utilità che avrebbero potuto trame per qualsivoglia operazione è assolutamente immune da vizi.

Nè se ne apprezzano in ordine alla liquidazione del danno patrimoniale, determinato in Euro 36.000,00, (in luogo di L. 350.000.000, indicati dal c.t.u., quanto allo […]., come risulta dalla stessa sentenza) con motivazione congrua e solo genericamente censurata, non essendo stato indicato dal ricorrente quale, a suo avviso, sarebbe stata, in ipotesi, la liquidazione corretta.

6.- Col settimo motivo sono dedotti gli stessi vizi (esclusa la violazione dell’art. 115 c.p.c.) per le seguenti ragioni:

a) lo […] (la posizione degli appellanti incidentali è ormai irrilevante) aveva chiesto il risarcimento del danno morale solo in appello, sicché la domanda era inammissibile per novità;

b) il danno patrimoniale era stato liquidato equitativamente in difetto dei presupposti di legge;

c) non erano stati esplicitati i criteri della determinazione quantitativa del danno patrimoniale e non patrimoniale;

d) la rivalutazione era stata operata in base ad una domanda anch’essa nuova.

6.1.- Il motivo è manifestamente infondato, oltre che per le ragioni già sopra indicate, poiché la domanda originaria di risarcimento dei danni derivati dal reato di truffa consumato in danno degli appellanti (dello […] per quanto qui ancora rileva) era evidentemente comprensiva anche del danno non patrimoniale riconoscibile ex art. 2059 c.c., e art. 185 c.p..

[…]