Corte Cass., Sez. L., Sent. n. 25270 del 2011, dep. 29/11/2011

[…]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza in data 7.6/11.7.2007 la Corte di appello di Torino, in riforma della decisione di primo grado, dichiarava sussistere fra […], la […] e la […] un rapporto di lavoro subordinato con riferimento al periodo […].
Osservava in sintesi la Corte territoriale che, in tale periodo, la […] aveva in concreto gestito l’attività lavorativa del […], sia sotto l’aspetto organizzativo, che gerarchico ed economico, ed aveva usufruito delle relative prestazioni, assumendo nei confronti dello stesso la veste di effettivo datore di lavoro, in luogo della società controllata estera (la […]) che lo aveva formalmente assunto. Per la cassazione della sentenza propongono ricorso la […] e la […] con due motivi. Resiste con controricorso […]. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, svolto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, le società ricorrenti lamentano violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., osservando che fra le parti era intervenuto un accordo transattivo (“al fine di prevenire l’insorgere di…controversie connesse all’intercorso rapporto di lavoro a contenuto dirigenziale…”) e che una corretta lettura di tale testo contrattuale avrebbe dovuto indurre la Corte a considerare che con lo stesso le parti avevano inteso definire ogni pretesa retribuiva e risarcitoria connessa all’intera carriera professionale del dipendente, e non solo al periodo in cui lo stesso aveva svolto funzioni dirigenziali.
Con il secondo motivo, prospettando violazione di legge (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 2697 e 2094 c.c., e alla L. n.1369 del 1960, art. 1) e vizio di motivazione, osservano che la corte territoriale aveva ritenuto come sintomatici della sussistenza della fattispecie interpositoria elementi che, in realtà, nulla provavano in merito all’assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo e gerarchico della […], dal momento che i documenti presi in considerazione attestavano solo l’interesse dell’azienda alla prestazione del lavoratore; interesse connaturale al ruolo di coordinamento e di direzione strategica svolto dalla […] nell’ambito della struttura di gruppo e tale da rendere del tutto fisiologica “l’ingerenza” della stessa nella vita delle società consociate.
2. Il primo motivo è procedibile, avendo le società ricorrenti provveduto a trascrivere il testo dell’atto transattivo contestato e a indicarlo nella sua esatta collocazione nell’ambito dei fascicoli di causa, così soddisfacendo l’onere imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, novellato dal D.L. n. 40 del 2006, che, oltre a richiedere l’indicazione degli atti, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi posti a fondamento del ricorso (e, quindi, la descrizione specifica di tali atti secondo il canone dell’autosufficienza del ricorso per cassazione: cfr. ad es. Cass. n. 18854/2010), esige, altresì, che sia specificato in quale sede processuale il documento risulti prodotto; tale prescrizione va correlata all’ulteriore requisito di procedibilità di cui all’art.369 c.p.c., comma 2, n. 4, per cui deve ritenersi, in particolare, soddisfatta, qualora il documento sia stato prodotto, nella fase di merito, dallo stesso ricorrente e si trovi nel fascicolo dello stesso, mediante la produzione del fascicolo, purché nel ricorso si specifichi che il fascicolo è stato prodotto e la sede in cui il documento è rinvenibile; ovvero, qualora il documento sia stato prodotto dalla controparte, mediante indicazione che il documento è prodotto nel fascicolo del giudizio di merito di tale parte (cfr. SU (ord) n. 7161/2010). E risulta, altresì, ammissibile, con riferimento al tema di indagine relativo al rispetto dei canoni di ermeneutica legale, tenuto conto del contenuto stresso della sentenza impugnata, che, al fine di escludere la rilevanza dell’atto transattivo, ha dato ingresso ad un profilo diverso da quello preso in considerazione dai giudici di primo grado, che le società ricorrenti hanno in conseguenza censurato.
3. Nel merito, tuttavia, il motivo è infondato.
Giova, al riguardo, premettere, in conformità al consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che l’interpretazione degli atti negoziali implica un accertamento di fatto riservato al giudice di merito, che, come tale, può essere denunciato, in sede di legittimità, solo per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale (art. 1362 ss cc in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) ovvero per vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), fermo l’onere del ricorrente di indicare specificamente il modo in cui l’interpretazione si discosti dai canoni di ermeneutica o la motivazione relativa risulti obiettivamente carente o logicamente contraddittoria, non potendosi, invece, limitare a contrapporre interpretazioni o argomentazioni alternative o, comunque, diverse rispetto a quelle proposte dal giudice di merito, non potendo il controllo di logicità del giudizio di fatto risolversi in una revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice di merito ad una determinata soluzione della questione esaminata.
In tal contesto, poi, i canoni legali di ermeneutica contrattuale sono governati da un principio di gerarchia, in forza del quale i canoni strettamente interpretativi (artt. 1362 e 1365 c.c.) prevalgono su quelli interpretativi – integrativi (artt. 1366 e 1371 c.c.) e ne escludono la concreta operatività, quando l’applicazione
degli stretti canoni interpretativi risulti, da sola, sufficiente per rendere palese la comune intenzione delle parti stipulanti. Nell’ambito, poi, dei canoni strettamente interpretativi, risulta prioritario il canone fondato sul significato letterale delle parole (art. 1362 c.c., comma 1), con la conseguenza che, quando quest’ultimo risulti sufficiente, l’operazione ermeneutica deve ritenersi utilmente conclusa, mentre, in caso contrario, il giudice può, in via sussidiaria e gradatamente, ricorrere agli altri, al fine di identificare, nel caso concreto, la comune intenzione delle parti contraenti (v. ex plurimis ad es Cass. n. 23273/2007; Cass. n. 20660/2005; Cass. n. 7548/2003). Di tali principi la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione, avendo individuato nel testuale e ripetuto riferimento all'”intercorso rapporto di lavoro a contenuto dirigenziale”, quale oggetto dell’accordo transattivo, l’impossibilità di ritenere transatta ogni pretesa connessa all’intero svolgimento del rapporto di lavoro. L’interpretazione cui è pervenuta la corte territoriale, sulla base del significato letterale delle parole del testo negoziale, sono contestate dalle ricorrenti (allegando che la corte di merito avrebbe “trascurato totalmente nella motivazione il riferimento all'”intercorso” per focalizzare l’attenzione sulla parte successiva della frase che richiama il “contenuto dirigenziale”) sul presupposto che, in realtà, il riferimento sarebbe al “vissuto lavorativo” complessivo del dipendente ( “…comprensivo pertanto del periodo anteriore al 1995 in cui…ha lavorato in categorie sub dirigenziali”), ma senza specificare sotto quale aspetto l’utilizzazione del prioritario criterio dell’interpretazione letterale risulti illogica o contraddittoria o incompatibile con i canoni legali che presiedono all’interpretazione dei contratti. Con la conseguenza che il ricorso, in quanto volto solo a prefigurare una diversa opzione interpretativa, senza sminuire, tuttavia, la adeguatezza logica e normativa di quella adottata dai giudici di merito, non risulta, pertanto, idoneo a contrastare l’accertamento da questi ultimi operato.
4. Anche il secondo motivo (sebbene ammissibile, per denunciare le società ricorrenti l’adeguatezza degli elementi sintomatici presi in considerazione, e puntualmente descritti, dai giudici di merito ai fini della ricostruzione della fattispecie interpositoria, e non precluso da alcuna autonoma statuizione, rimasta priva di impugnazione) è, nel merito, infondato.
5. Ravvisato lo snodo decisivo della causa nella individuazione del soggetto destinatario delle prestazioni, la corte di merito ha accertato, in punto di fatto, che la […], conferita al […] la posizione di direttore generale del […], aveva richiesto alla […] di “emettere una lettera” (funzionale al conseguimento del suo permesso di soggiorno a […]), in cui si attestava che sarebbe stato iscritto nei libri paga della […] e che gli sarebbe stato corrisposto da quest’ultima il salario mensile, con successivo addebito all’ufficio di […] della […]; che era stata la […] a determinare il trattamento economico del […] e a provvedere ai relativi adeguamenti (al pari di quanto avveniva per i dipendenti della […] distaccati all’estero e che operavano nella stessa area del […]); che era stata la […] a determinare gli “obiettivi fondamentali della posizione” del dipendente, individuato, in una nota a firma del “valutatore […]”, con “la posizione e la qualifica di Area manager – […]e”, “appartenente all’Ente Direzione vendite Area Extra Europa”; che la […] si era fatta carico pure della sua posizione contributiva, provvedendo al pagamento annuale di 5.000,00 dollari, “da attingere dai fondi di funzionamento”; ed ancora che la […] si occupava di trattori e macchine agricole, laddove il […] (per come risultava dal documento con il quale la […] fissava gli obiettivi per il […]) era stato incaricato di “promuovere tutte quelle attività che consentano una ripresa delle nostre attività in […] sulla linea […], e, quindi, di promuovere una tipologia merceologica affatto distinta da quella dell’impresa che lo aveva formalmente assunto.
Dal complesso di tali dati di fatto, correttamente valutati dai giudici di merito, e, pertanto, insindacabili in questa sede di legittimità, la corte piemontese ha dedotto che, in tale periodo, la […] aveva in concreto gestito l’attività lavorativa del […], sia sotto l’aspetto organizzativo, che gerarchico ed economico, ed aveva usufruito delle relative prestazioni, assumendo nei confronti dello stesso la veste di effettivo datore di lavoro, in luogo della società controllata estera che lo aveva formalmente assunto.
Le contrarie valutazioni delle società ricorrenti, fondate essenzialmente sulla considerazione che “l’interessamento e l’ingerenza della […] nella vita delle società collegate e consociate” dovevano considerarsi del tutto “fisiologiche”, oltre che coerenti “col ruolo di direzione strategica unitaria rivestito dalla […] nell’ambito dell’assetto strutturale del gruppo” e non risultavano, pertanto, idonee ad evidenziare la sussistenza della fattispecie interpositoria, non inficiano la correttezza logica e giuridica del ragionamento della corte territoriale. Ed, al riguardo, merita di essere, innanzi tutto, ricordato come anche di recente la giurisprudenza di questa Suprema Corte abbia ribadito come costituisca regola generale dell’ordinamento lavoristico il principio secondo cui il vero datore di lavoro è quello che effettivamente utilizza le prestazioni lavorative, anche se i lavoratori sono stati formalmente assunti da un altro (datore apparente) e prescindendosi da ogni indagine (che tra l’altro risulterebbe particolarmente difficoltosa) sull’esistenza di accordi fraudolenti (fra interponente ed interposto) (così SU n. 22910/2006). Regola – giova soggiungere – che si è correttamente ritenuto non abbia perduto consistenza nemmeno a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 267 del 2003, dal momento che le forme di dissociazione fra titolarità del rapporto e destinazione effettiva della prestazione ivi previste debbono considerarsi come tipologie negoziali eccezionali, in deroga al principio che parte datoriale è solo colui su cui in concreto fa carico il rischio economico dell’impresa nonché l’organizzazione produttiva nella quale è di fatto inserito con carattere di subordinazione il lavoratore, e l’interesse soddisfatto in concreto dalle prestazioni di quest’ultimo, con la conseguenza che chi utilizza tali prestazioni deve adempiere tutte le obbligazioni a qualsiasi titolo derivanti dal rapporto di lavoro medesimo (giur. Cit.; v. anche, con riferimento alla disciplina comunitaria dei licenziamenti, Corte Giust.10.9.2009, causa C- 44/08 per l’affermazione che per la realizzazione dell'”effetto utile” dei diritti collettivi di tipo procedimentale, il gruppo non rileva al fine di escludere la responsabilità del “diretto” datore di lavoro).
Se, pertanto, la giurisprudenza conferma la rilevanza che, in ambito lavoristico, assume il concetto di impresa e di datore di lavoro, individuabile, sulla base di una “concezione realistica”, nel soggetto che effettivamente utilizza la prestazione di lavoro ed è titolare dell’organizzazione produttiva in cui la prestazione stessa è destinata ad inserirsi, non vi è dubbio che tale direttiva, con riferimento al fenomeno dei gruppi di società, impone una attenta valutazione degli indici utilizzabili al fine di distinguere fra la fisiologia e la patologia del fenomeno delle imprese a struttura complessa.
Ed, infatti, la direzione ed il coordinamento che compete alla società capogruppo, e che qualifica, ora anche in sede normativa (art. 2497 ss cc), il fenomeno dell’integrazione societaria, può evolversi in forme molteplici, che possono riflettere una ingerenza talmente pervasiva da annullare l’autonomia organizzativa delle singole società operative (accreditando un uso puramente strumentale o, in altri termini, puramente “opportunistico” della struttura di gruppo), ovvero un rilevante, ma fisiologico, livello di integrazione (che può costituire il presupposto per una valutazione differenziata che la rilevanza dell'”interesse unitario di gruppo” manifesta rispetto all’adempimento dell’obbligazioni che risultano funzionali alla realizzazione di tale interesse).
In questo contesto, e con specifico riferimento alle problematiche lavoristiche, del tutto decisivo appare il riferimento alle forme di utilizzazione del personale dipendente, potendo l’ingerenza della società dominante nella gestione del rapporto di lavoro spingersi sino al punto di determinare una utilizzazione del tutto indistinta e promiscua della forza lavoro all’interno del gruppo (accreditando una situazione di “confusione contrattuale”, tale da far constatare, in realtà, l’esistenza di una impresa unitaria, solo apparentemente organizzata in forma di gruppo: v. per tutte Cass. n. 6707/2004); ovvero, in presenza di gruppi genuini, ma fortemente integrati, determinare la destinazione della prestazione di lavoro al complesso delle società operative, secondo le note forme della prestazione cumulativa o alternativa; oppure riguardare solo la determinazione generale degli obiettivi strategici delle singole società operative, anche per ciò che riguarda le politiche del personale, ma senza alcuna incidenza sulla concreta gestione del personale e sulla destinazione della prestazione alla società che assume la veste di datore di lavoro. Con riferimento a tali molteplici fattispecie, ha avuto modo la giurisprudenza di legittimità di precisare (per citare solo alcune esempi, indicativi delle situazioni evidenziate), da un lato, come “il collegamento economico funzionale tra imprese appartenenti ad un medesimo gruppo societario non è di per sè sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, intercorso fra una di esse ed il lavoratore, debbano estendersi anche all’altra, e che, tuttavia, in presenza di una società capogruppo, formalmente estranea al rapporto di lavoro, che si comporti come effettivo dominus, decidendo il distacco del lavoratore presso altra società del gruppo e la data del suo licenziamento anche per ragioni organizzative, va ravvisato un fenomeno di illecita interposizione di manodopera con la conseguente imputazione del rapporto di lavoro alla capogruppo” (cfr Cass. n. 19931/2010); ma anche, che “è giuridicamente possibile concepire un’impresa unitaria che alimenta varie attività formalmente affidate a soggetti diversi, il che non comporta sempre la necessità di superare lo schermo della persona giuridica, ne’ di negare la pluralità di quei soggetti, ben potendo esistere un rapporto di lavoro che veda nella posizione del lavoratore un’unica persona e nella posizione del datore di lavoro più persone, rendendo così solidale l’obbligazione del datore di lavoro” (così Cass. n. 4274/2003). Nel caso in esame, sulla base degli accertamenti svolti dalla corte di merito, deve ritenersi che l’interesse della […] “alla destinazione e al risultato dell’attività lavorativa del […]” (così nel ricorso) non fosse solo riflesso del ruolo di coordinamento e di direzione strategica unitaria dalla stessa rivestito nell’ambito dell’assetto strutturale del gruppo, ma determinasse una concreta incidenza nella gestione del rapporto di lavoro del dipendente (per aspetti decisivi e qualificanti, quali la determinazione della retribuzione, la previsione degli obiettivi e la valutazione dei risultati della prestazione, la sopportazione dei costi relativi alla posizione previdenziale) e l’inserimento di quest’ultimo (ben evidenziato anche dalla tipologia dell’attività produttiva della società controllata, a fronte dei ben diversi compiti assegnati al lavoratore) nell’organizzazione produttiva di una impresa diversa da quella che lo aveva formalmente assunto, al pari di altri dipendenti della […] distaccati all’estero e che operavano nella stessa area del […]. Così convertendosi l’interesse della […] al “risultato dell’attività lavorativa del […]” in un interesse, non di mero fatto, ma giuridicamente qualificato e tale da determinare l’imputazione del rapporto di lavoro al soggetto che era stato effettivo destinatario ed utilizzatore della prestazione.
6. Il ricorso va, pertanto, rigettato e va, al riguardo, formulato il seguente principio di diritto:
In presenza di un gruppo di società, la concreta ingerenza della società capogruppo nella gestione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle società del gruppo, che ecceda il ruolo di direzione e coordinamento generale alla stessa spettante sul complesso delle attività delle società controllate, determina l’assunzione in capo alla società capogruppo della qualità di datore di lavoro, in quanto soggetto effettivamente utilizzatore della prestazione e titolare dell’organizzazione produttiva nella quale l’attività lavorativa si è inserita con carattere di subordinazione.
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