Corte di Cassazione civ. Sez. I, 29-11-1986, n. 7060, dep. il 29.11.1986

[…]

Svolgimento del processo
[…] ha pignorato un immobile di proprietà di […]. Ha fatto opposizione […], marito della debitrice, assumendo che quell’immobile rientrava nella comunione legale esistente tra essi coniugi.
Nel contraddittorio anche dei creditori intervenuti […] e […], il Tribunale di Bari ha respinto l’opposizione. La Corte della stessa città con sentenza del 16 febbraio 1983 ha confermato nel decisum quella di 1° grado: è andata in contrario avviso relativamente alla interpretazione dell’art. 228 L. 151-75, ma ha ritenuto ugualmente che quell’immobile non era caduto in comunione in quanto la signora […] l’aveva acquistato personalmente destinandolo all’esercizio della sua impresa di confezioni a norma dell’art. 178 cod. civ. Contro la sentenza della Corte d’appello, […] ha proposto ricorso per cassazione, con unico motivo. […], la […] e la […] resistono con controricorso e propongono ricorso incidentale condizionato.

Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso […] lamenta violazione degli artt. 177, 178, 179 e 2647 cod. civ. Sostiene che per sottrarre dal regime di comunione un bene immobile acquistato da uno dei coniugi non è sufficiente la destinazione obiettiva di quel bene all’esercizio della impresa personale del coniuge acquirente, essendo altresì necessario che sia rispettato il disposto dell’art. 179 c. 2, applicabile anche alla fattispecie descritta dall’art. 178 cod. civ.
I ricorrente incidentali, a loro volta, tornano sulla questione ex art. 228 L. 151-75, ribadendo la tesi non accolta dalla Corte d’Appello di Bari.
E’ preliminare l’esame del ricorso principale, in quanto proposto dalla parte integralmente soccombente.
Come si è accennato, il quesito, finora non mai posto a questa Corte suprema, è se l’art. 178 cod. civ. contenga una disciplina compiuta ed esauriente in ordine all’acquisto di beni destinati all’esercizio della impresa di uno solo dei coniugi nel senso cioé che è sufficiente la destinazione obiettiva perché i beni non entrino immediatamente in comunione); oppure se debba tenersi conto anche del disposto dell’art. 179 c. 2 sì che, quando i beni destinati sono immobili o mobili registrati occorre che sia attuata la particolare procedura descritta appunto nell’art. 179 c. 2.
Una corretta interpretazione letterale – sistematica delle disposizioni di legge in questione porta a concludere per la prima delle due alternative.
Intanto, la norma di cui al secondo comma dell’art. 179 fa parte di quell’articolo e contiene una deroga alla disposizione contenuta nel primo comma dell’articolo stesso.
Non si tratta dunque di una disposizione generale, che riguardi fattispecie diverse da quelle appunto indicate nel primo comma.
Il riferimento, nel secondo comma, alle sole ipotesi di cui al primo comma è testuale: è escluso dalla comunione l’acquisto ai sensi delle lettere c) d) f) del precedente comma, non dunque ogni acquisto di bene immobile o di bene mobile registrato. Né può ritenersi che nella fattispecie ex art. 179 c. lettera d) sia ricompresa come specie nel genere quella dell’acquisto di beni che servono all’esercizio della professione di imprenditore. Questa ipotesi è disciplinata a parte di “beni destinati all’esercizio della impresa di uno dei coniugi”.
Il legislatore ha usato termini tecnico giuridici ben precisi per identificare due realtà distinte. Nell’art. 178 si parla d’impresa: certamente si fa riferimento alla realtà descritta dall’art. 2082 cod. civ. dalla quale, per interpretazione costante, è esclusa l’attività di lavoro autonomo svolta non in forma imprenditoriale ed in specie quella che si concreta in una professione intellettuale.
Nell’art. 179 si usa, specularmente, la parola “professione” per indicare la realtà descritta nel titolo III del libro V del codice civile, ossia attività di lavoro non subordinato ma non imprenditoriale. Decisiva inoltre è la constatazione che le due norme, gli art. 178 e 179, prevedono effetti diversi. Per l’art. 178 i beni ivi previsti non sono beni personali, ma rientrano nella comunione “de residuo” (“si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa”): Per l’art. 179 i beni ivi previsti, se sussistono le condizioni, sono invece beni personali, non costituiscono affatto, nemmeno de residuo, oggetto della comunione. E’ dunque impensabile applicare alla fattispecie es art. 178 una norma, quale quella di cui al secondo comma dell’art. 179, cui si ricollegano alternative (beni personali o beni oggetto di comunione de residuo). (1)
Ove si dovesse seguire l’altra tesi, cioé quella prospettata dal ricorrente, si avrebbe infatti la assurda conseguenza per cui se fosse seguita la procedura ex art. 179, c. 2 per l’acquisto di beni immobili destinati all’impresa del coniuge, questi beni sarebbero addirittura esclusi anche dalla comunione de residuo in quanto sarebbero da ritenere “beni personali” di quel coniuge. Ne risulta dunque che la disciplina relativa agli acquisti di beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio, siano questi dei beni mobili e dei beni immobili e dei mobili di cui all’art. 2683 cod. civ. è tutta contenuta nell’art. 178 cod. civ. : disciplina esauriente, senza che sia possibile in base ai criteri normali di interpretazione, completarla con l’applicazione di altra norma che quella fattispecie non riguarda.
In realtà le osservazioni del ricorrente e di quella parte della dottrina che ha suggerito (in verità assai cautamente) l’estensione anche alla fattispecie ex art. 178 della norma contenuta nell’art. 179 c. 2 si limitano ad indicare pretesi, inconvenienti che, in mancanza, si verificherebbero in pregiudizio del coniuge non imprenditore e del terzo.
Ma, in verità, questi inconvenienti e non sussistono o sono il corollario inevitabile di scelte discrezionali del legislatore che, nel disciplinare la delicata materia della comunione legale, ha tenuto conto di esigenze spesso confliggenti dando soluzione legislative che mediassero tali potenziali conflitti.
Quanto alla posizione del coniuge non acquirente, la diversa disciplina per le due differenti ipotesi (beni destinati all’esercizio (2) della professione) ha una sua razionalità logica che tiene conto delle differenze tra le due situazioni (impresa e professione non imprenditoriale) ed è conforme alla logica interna all’intero istituto della comunione legale.
Il legislatore si è posto l’obiettivo fondamentale – anche se non l’unico – di far profittare ad ambedue i coniugi degli incrementi patrimoniali che nel corso del matrimonio si possono verificare come risultato, essenzialmente, della attività di lavoro “esterna” di uno o di ambedue coniugi. Di questi incrementi debbono profittare in pari quota ambedue i coniugi, chiunque dei due abbia lavorato all’esterno”, qualunque sia la proporzione tra i proventi ottenuti separatamente dai due. Logicamente, dunque ha disposto (art. 177 lettera c) che costituiscono oggetto della comunione i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi, se non siano stati consumati. Logicamente ha disposto art. 177 lettera a) che della comunione fanno parte gli acquisti compiuti dai due coniugi, insieme o separatamente. Codesti acquisti, infatti, non sono che investimento, capitalizzazione, di frutti e soprattutto di proventi di attività lavorativa: dunque spettano ad ambedue ed immediatamente, all’atto dell’acquisto, questi beni sono oggetto della comunione.
Ma lo stesso legislatore si è preoccupato di non sacrificare a tale fine la libertà individuale di ciascuno dei coniugi; in specie, per quanto qui rileva, il diritto di cui vi è un eco costituzionale nell’art. 41 cost. di liberamente scegliere la propria attività lavorativa. Ora, tale libertà è reale se la scelta di ciascuno non è condizionata da interferenze del coniuge: in specie se non è subordinato ad interferenze del coniuge l’acquisto dei beni che sono strumentalmente necessari per l’esercizio della attività scelta e la disponibilità di beni a quel fine acquistati. Il legislatore, come le norme contenute negli art. 178 e 179 lettera d) ha voluto soddisfare tale esigenza: nel doppio senso di escludere ogni potere di veto su acquisto e destinazione dei beni e di attribuire piena disponibilità di tali beni al coniuge acquirente che tali beni utilizza per il suo lavoro produttivo; piena disponibilità che è necessaria per rendere reale la libertà di scelta del tipo di lavoro. Nella sua discrezionalità il legislatore poteva dare una soluzione identica per i due casi, attività d’impresa ed attività professionale in senso stretto: ha dato invece soluzione differenziate e, come era si vedrà, di tratta di differenze che hanno una loro logica giustificazione.
Per quanto riguarda il coniuge imprenditore ha disposto con l’art. 178 cod. civ. essere sufficiente la “sua” destinazione del bene, anche se immobile o mobile registrato, al servizio dell’impresa, escludendo ogni ingerenza dell’altro coniuge.
Logicamente perché è assai frequente che l’imprenditore abbia proprio la necessità di tali beni (sede dello stabilimento, mezzi di trasporto per persona e cose, diritti di brevetto per invenzioni industriali): e, soprattutto, perché è proprio nella logica della impresa che di quei beni l’imprenditore abbia piena e totale disponibilità, senza sottostare ai pesanti oneri ex art. 189 seg. cod. civ. Ma, proprio in considerazione del maggiore valore che di regola hanno i beni destinati ad un’impresa, è stabilito che tali beni non siano “personali” del coniuge, bensì formano oggetto della comunione de residuo, il che significa che, allo scioglimento della comunione, del valore di essi si dovrà tener conto in accredito al coniuge non imprenditore. Con questa disciplina si è cercato di contemperare le due esigenze. Inquadrando i beni così acquistati nella categoria dei beni oggetto della comunione de residuo, si soddisfa, seppure parzialmente l’esigenza di tutelare l’altro coniuge al quale è riservata l’aspettativa in ordine a quei beni quando la comunione sarà sciolta. Si soddisfa d’altra parte l’esigenza fondamentale delle imprenditore di potere fare scelte soltanto sue negli acquisti e di disporre liberamente dei beni così acquistati e destinati: è infatti sufficiente il regime di comunione de residuo per attribuire al coniuge la libera disponibilità di questi beni.
D’altronde, a questo modo, sono meglio tutelati i creditori dell’imprenditore, i quali sanno di potere contra su tutti i beni che risultano intestati all’imprenditore e facenti parte dell’azienda.
Questa protezione dei creditori appare logica proprio perché l’imprenditore è, per la attività stessa, fisiologicamente, soggetto che ricorre al credito altrui (fornitori, banche).
Diversa, ma logicamente diversa, la disciplina relativa ai beni acquistati dal professionista. La legge ha preferito la soluzione più radicale: la destinazione all’esercizio della professione esclude il bene da ogni forma di comunione, anche quella de residuo, fa sì che il bene sia “personalmente”: è la stessa regola dettata, significativamente, per i beni di uso strettamente personale. Ma tale regola è stata limitata, a protezione del coniuge, con la introduzione della pesante interferenza di cui all’art. 179 c. 2.
Per i beni immobili ed i mobili registrati, di regola beni di maggiore valore patrimoniale, se l’altro coniuge non è d’accordo, la semplice destinazione non riesce ad attribuire al bene acquistato la qualifica di bene personale; sicché se manca tale accordo il bene resta in comunione attuale, il coniuge professionista non ne può disporre liberamente.
E’ una limitazione che non incide troppo gravemente sulla libertà del coniuge professionista: è meno probabile, stando all’id quod plerumque accidit, che un professionista abbia proprio bisogno, assolutamente bisogno, per esercitare la sua professione, di avere la piena individuale disponibilità di beni immobili o mobili registrati.
Certo, da questo sistema possono apparire pregiudicati i creditori personali del professionista perché rischiano di trovarsi dinanzi a beni che, pur acquistati dal loro debitore e pur essendo destinati alla sua attività, in realtà non appartengono solo a lui ma alla comunione; sì che qui creditori si troveranno nella situazione deteriore prevista dall’art. 179 c. 2. Ma la scelta pare anche sotto quest’aspetto razionale.
E’ statisticamente meno frequente che un professionista – a differenza dell’imprenditore – ricorra al credito altrui per acquistare beni immobili o mobili registrati utili per la sua attività. Qui è parso dunque al legislatore più opportuno sacrificare gli interessi dei creditori del professionista per meglio proteggere gli interessi del coniuge.
Resta da dire dell’argomento cui fa cenno il ricorrente quando adduce che la decisione impugnata sarebbe in violazione dell’art. 2647.
Secondo il ricorrente se davvero l’art. 178 fosse univa norma disciplinante la sorte degli acquisti dei beni immobili destinati alla impresa, ne risulterebbe un vuoto nel sistema di pubblicità tramite le trascrizioni immobiliari.
Il terzo non saprebbe come regolarsi per accertare se il bene immobile che gli interessa (per acquistarlo, per costituire un’ipoteca, per agire in executivis) sia di proprietà individuale di colui che risulta titolare nell’atto di acquisto trascritto, o appartenga alla comunione o vi appartenga solo de residuo.
Dall’indicazione di questo inconveniente il ricorrente deduce che l’unica soluzione corretta per l’interprete è di ammettere che, invece, anche gli acquisti ex art. 178 sono disciplinati dall’art. 179, c. 2. Sol così il terzo saprebbe come regolarsi: se dalla trascrizione dell’atto di acquisto non risultasse l’adesione dell’altro coniuge, egli dovrebbe dedurne che il bene immobile de quo è già subito in comunione, solo de residuo.
Ma il discorso non regge. L’art. 2647 cod. civ. prevede solo la trascrizione “degli atti di acquisto di beni personali a norma delle lettere c, d, f, dell’art. 179”. La norma pare da intendersi nel senso che la destinazione e l’accordo del coniuge su di essa debbono risultare non solo dal contratto di acquisto ma anche dalla trascrizione. Si che, ove tale specifica trascrizione manchi, al terzo non è opponibile l’effetto, pur connesso della legge alla applicazione del congegno ex art. 179, c. 2, cioé l’appartenenza del bene al solo coniuge acquirente, come bene suo personale.
E’ vero dunque che non è prevista una specifica trascrizione ai fini dell’art. 178 cod. civ.
Ma tale apparente lacuna è il corollario del fatto che, come si è visto, l’effetto previsto dall’art. 178 cod. civ. , cioé l’inserimento del bene nella comunione de residuo, non è in funzione di un particolare e specifico contenuto dell’atto di acquisto (presenza dell’altro coniuge, sua accettazione della destinazione), ma si verifica per il fatto in sé che l’acquirente è un imprenditore e che il bene è destinato all’esercizio della sua impresa, circostanza che è obiettiva, non risulta dall’atto di acquisto come tale, dunque non può essere oggetto di trascrizione.
Da questa logica conseguenza, sul piano della pubblicità tramite registri immobiliari, della regola di diritto sostanziale ora ricordata non può dedursi che, dunque, questa regola non è applicabile.
La regola è quella e va applicata come tale. Può darsi che ne consegua qualche inconveniente, ma ciò non consente all’interprete di negare che esiste quella regola.
D’altronde, la mancanza di un sistema di pubblicità ex art. 2643 segg. cod. civ. non esclude che eventuali conflitti si possano risolvere sulla base di altri principi. In particolare, stipulato e trascritto un acquisto di beni immobili da parte di un soggetto coniugato, la questione se quel bene appartiene alla comunione attuale o de residuo andrà risolta accertandosi se quell’acquirente era imprenditore e se quel bene da lui acquistato è stato destinato alla sua impresa. In funzione di tale accertamento varranno i normali criteri circa l’onere della prova. Poiché dall’atto, e dalla trascrizione, risulta soltanto che un acquisto di ben immobile è stato fatto da persona coniugata, la presunzione, juris tantum, è che il bene sia già subito caduto in comunione.
Starà dunque a chi pretende di giovarsi della situazione differente dare la prova che tale situazione differente (comunione de residuo) esiste davvero: dare la prova cioé che l’acquirente è imprenditore e che il bene è stato destinato alla impresa di lui. Se tale prova sarà stata data se ne trarranno le conseguenze. Così come è avvenuto nel caso specifico. Le Banche che hanno fatto il pignoramento immobiliare hanno provato, come ha stabilito il giudice di merito con sua decisione tra l’altro non impugnata su tale punto, che, la signora […] aveva acquistato quel locale destinandolo ad un’impresa da lei solo condotta. Hanno dunque provato che sussistono le condizioni per cui quel locale non è attualmente in comunione.
Poiché, quando si tratta di beni in comunione solo de residuo, questo è attualmente, per i terzi creditori del proprietario, un bene in comunione solo de residuo, questo è attualmente, per i terzi creditori del proprietario, un bene che rientra nella garanzia ex art. 2740 cod. Civ. e sul quale l’altro coniuge non vanta attualmente alcuna pretesa, la soluzione logica è quella correttamente data dalla Corte di merito: l’opposizione del coniuge andava respinta.
I ricorsi incidentali sono assorbiti. La particolare delicatezza della questione, mai affrontata finora dalla giurisprudenza di legittimità e cui la dottrina ha proposto soluzioni alternative, con dubbi e perplessità, induce questa corte alla compensazione totale delle spese.
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