Corte di Cassazione, Sez. 1, Sentenza n. 18054 del 2004, dep. il 08/09/2004

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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il sig. […] morì senza testamento lasciando eredi i due figli, […] ed […], e la vedova sig.ra […]. Poiché uno di detti figli, il sig. […], era stato in precedenza dichiarato fallito dal tribunale di Prato, gli altri due eredi chiesero che venisse ammesso in prededuzione al passivo un proprio credito di complessive L. 547.772.000: somma pari ai due terzi delle donazioni in denaro che i ricorrenti asserivano esser state fatte in vita dal defunto padre in favore del predetto sig. […] e di cui chiedevano fosse operata la collazione. L’istanza di ammissione al passivo fu rigettata dal Tribunale di Prato con decisione poi confermata, a seguito di gravame, dalla Corte d’appello di Firenze. La corte, in particolare, ritenne che la demanda di collazione fosse inammissibile, in quanto proposta al di fuori del procedimento di divisione ereditaria ed, anzi, dopo che la divisione aveva già avuto luogo stragiudizialmente, come affermato nell’atto introduttivo del giudizio dagli stessi ricorrenti. Osservò, poi, che neppure era stata fornita idonea prova delle asserite donazioni in favore del fallito, non poteva infatti considerarsi attendibile l’unico teste che aveva confermato l’esistenza di un’elargizione in contanti, e non era dimostrato che la prestazione ad opera del de cuius di una garanzia fideiussoria per debiti del figlio fosse accompagnata da animus donandi.
Per la cassazione di tale sentenza ricorrono la sig.ra […] ed il sig. […]
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso si colloca sul piano processuale. Con esso viene infatti denunciata la violazione degli artt. 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c., con conseguente nullità dell’impugnata sentenza, perché la corte d’appello avrebbe confermato la decisione di primo grado sostanzialmente limitandosi a riportarne le argomentazioni e senza in realtà confutare le censure che, avverso quella decisione, gli appellanti avevano sollevato. La doglianza così formulata è però manifestamente priva di fondamento. Non v’è dubbio che la motivazione costituisca uno degli elementi essenziali della sentenza, e che la sua eventuale mancanza (o mera apparenza) comprometta la validità della sentenza stessa ed integri perciò un vizio deducibile in Cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c.. Il mero fatto, però, che il giudice di secondo grado riprenda nella propria sentenza argomentazioni già esposte nella sentenza di primo grado non basta certo per affermare che la sentenza d’appello sia priva di un’autonoma motivazione, ogni qual volta da essa comunque emergano le ragioni di fatto e di diritto in base alle quali quel giudice e pervenuto alla decisione in concreto adottata. Nè certo si può parlare di assoluta mancanza di motivazione, tale da rendere invalida la sentenza nel suo complesso, sol perché il giudice del merito non abbia eventualmente esaminato e valutato singolarmente tutte le argomentazioni prospettate dalle parti. Si potrà semmai discutere, in tal caso, di omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, e si potrà perciò ravvisare (sempre che le argomentazioni difensive o le circostanze di fatto trascurate abbiano davvero carattere decisivo) un vizio riconducibile alla previsione dell’art. 360, n. 5, c.p.c.; mai sarebbe però configurabile un’ipotesi di nullità della sentenza, nei termini prospettati nel motivo di ricorso ora in esame.
Nel caso di specie, la lettura dell’impugnata sentenza mostra con assoluta chiarezza quali sono state le ragioni che hanno indotto la corte d’appello a condividere il giudizio negativo del primo giudice in ordine alla fondatezza della pretesa azionata in causa dai ricorrenti e, quindi, a rigettare il gravame da costoro proposto. Ragioni plurime, come s’è già accennato in narrativa, che attengono in primo luogo, alla ritenuta inammissibilità di una richiesta di collazione formulata fuori da un giudizio di divisione dell’asse ereditario ed, anzi, a divisione già stragiudizialmente realizzata;
in secondo luogo, all’insufficienza della prova dell’esistenza di atti di donazione compiuti in vita dal de cuius in relazione ai quali possa farsi luogo a collazione. Si può, ovviamente, contestare la fondatezza in fatto ed in diritto di tali ragioni (ed i ricorrenti la contestano), ma non si può negare che esse siano argomentate – la prima essenzialmente in diritto e con riferimento a circostanze di fatto desunte da quanto esposto nell’atto introduttivo del giudizio, la seconda anche con riguardo all’esito dell’esperita prova testimoniale – e che costituiscano un plurimo fondamento logico della decisione.
Questa non è perciò priva di motivazione, e tanto basta a licenziare il primo motivo di ricorso.
2. S’è appena detto che l’impugnata sentenza è fondata su diverse – ed autonome – rationes decidendi. La prima di esse, ed in certo senso preliminare, è quella concernente l’impossibilità che già in via di principio l’istituto della collazione, quale disciplinato dagli artt. 737 e segg. c.c., sia validamente invocato fuori dall’ambito di un giudizio di divisione dell’eredità.
Quest’affermazione è criticata dai ricorrenti, i quali, in particolare nel terzo e quarto motivo di ricorso, assumono l’erroneità del principio giuridico in tal senso postulato dalla corte d’appello e sostengono, al contrario, la piena ammissibilità di una domanda volta ad ottenere il ripristino dell’asse ereditario anche prima ed indipendentemente dalla divisione di esso. Le critiche contenute nei suaccennati motivi di ricorso sono, però, prive di fondamento.
Tralasciando le discussioni dottrinarie circa la natura della collazione, è sufficiente qui rilevare che innegabilmente tale istituto riveste una funzione strumentale rispetto alle esigenze della divisione ereditaria, come dimostra già la stessa collocazione degli artt. 737 e segg. nel capo 2^ del Titolo 4^ (del Libro 2^) del codice civile, dedicato appunto alla divisione ereditaria. Soprattutto poi quando, come nella specie, si tratti di collazione di denaro (art. 751 c.c.), e la domanda dei coeredi sia volta ad ottenere dal donatario il versamento della quota di loro spettanza su quanto si assume che il donatario medesimo abbia ricevuto dal de cuius in vita, è impossibile scindere una tal domanda dal contesto della divisione, essendo essa intrinsecamente contraddittoria con qualsiasi ipotesi di mantenimento in comunione del donatum di cui si pretende l’immediata restituzione pro quota.
La collazione del denaro, infatti, si attua naturalmente per imputazione. Ma la collazione per imputazione di una porzione del donatum – che si tratti di denaro o di altro tipo di beni – presuppone necessariamente un’operazione di divisione dell’asse ereditario, realizzandosi l’imputazione appunto con un minor prelevamento rispetto a quanto altrimenti spetterebbe pro quota al donatario sull’intero asse. Donde, appunto, l’impossibilita di scindere logicamente i due momenti -quello della collazione e quello della formazione delle quote ereditarie spettanti a ciascun coerede – e perciò la necessità che la collazione si compia all’interno dell’operazione di divisione dell’asse ereditario. Di tale principio la corte d’appello ha fatto buona applicazione, traendo da esso la corretta conclusione che l’asserito diritto di collazione non può essere posto a base di una pretesa creditoria, avulsa dalla divisione, direttamente e personalmente azionata dai coeredi nei confronti dell’asserito donatario; e che neppure dunque una tal pretesa può esser fatta valere, sotto forma d’insinuazione al passivo del credito in prededuzione, nella procedura di fallimento cui il donatario medesimo sia soggetto.
3. Quanto appena esposto rende evidentemente superfluo l’esame degli ulteriori motivi del ricorso, che va perciò senz’altro rigettato
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