Corte di Cassazione Sez. 1, Sentenza n. 2597 del 2006 , dep. il 07/02/2006

[…]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Nel maggio 1997 […] convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma Gianfranco […], dal quale si era separata consensualmente il 30 ottobre 1995, chiedendo lo scioglimento della comunione legale con attribuzione a essa attrice della metà dei relativi beni costituiti da due autovetture, un garage, la somma di L. 54.700.053, depositata in un conto corrente in essere presso la Banca di Roma, e l’ulteriore somma di L. 150.000.000 in titoli giacenti in un deposito a custodia intestato al convenuto presso lo stesso istituto di credito.
In parziale accoglimento della domanda, il Tribunale adito attribuì alla […] la somma di L. 4.209.760, oltre interessi, corrispondente alla metà del saldo attivo del conto corrente esistente all’atto della cessazione del regime di comunione legale, e rilevò – quanto ai titoli in deposito, venduti dal […] in data 4 ottobre 1995 con accredito del controvalore su conto corrente a lui intestato – che, riguardando la divisione esclusivamente i beni de residuo, non potevano essere sindacati gli atti posti in essere da ciascuna delle parti prima della maturazione della invocata causa di cessazione del regime legale della comunione.
Decidendo sul gravame della […], la Corte di Appello di Roma condannò il […] a corrispondere all’appellante l’ulteriore somma di Euro 49.580,00, oltre interessi, pari alla metà del controvalore dei titoli venduti dall’intestatario del deposito a custodia prima dell’udienza presidenziale ex art. 706 c.p.c. e dallo stesso prelevato due giorni dopo dal conto corrente, in cui era residuato un saldo attivo di appena otto milioni; condannò, altresì, l’appellato al pagamento delle spese del grado liquidate in […] Escluse in motivazione che fosse stata introdotta una domanda nuova in appello, come eccepito dall’appellato, poiché, per un verso, la citazione introduttiva del giudizio di primo grado conteneva una indicazione specifica dei beni caduti in comunione, dei quali si era chiesta la divisione e, per altro verso, il tenore della domanda implicava necessariamente, in caso di contestazione, l’accertamento della consistenza della comunione e l’appartenenza alla stessa dei titoli; questi ultimi erano suscettibili, quale ne fosse la natura, di essere ricompresi nella comunione legale a mente dell’art. 177 c.c., comma 1, lett. a), trattandosi di investimenti ormai entrati a far parte stabilmente dei beni comuni, sicché incombeva al convenuto l’onere di fornire una prova rigorosa (mancata nella specie) atta a vincerne la presunzione legale di conproprietà. A conclusione analoga doveva pervenirsi per le somme originariamente depositate sul conto corrente intestato al […], in quanto il disposto dell’art. 177 c.c., comma 1, lett. c), deve essere interpretato alla luce del complesso delle disposizioni regolanti la comunione legale e il suo scioglimento, e quindi nel senso che ricadono nella comunione c.d. de residuo non solo quei redditi di cui, di fatto, si riesca a provare la sussistenza all’atto dello scioglimento della comunione, ma anche quelli percetti o percipiendi dei quali il coniuge titolare non riesca a provare l’avvenuto utilizzo per i bisogni della famiglia o per l’adempimento delle obbligazioni di cui all’art. 186 c.c.. Nella specie tale prova non era stata fornita, mentre era risultato che parte consistente del saldo attivo del conto, pari a L. 42.000.000, era stata investita, in costanza di matrimonio, nell’acquisto di titoli, incrementando il precedente analogo investimento ammontante a L. 150.000.000 operato dal […], di guisa che era incontestabile il diritto della appellante quanto meno all’attribuzione della metà di detta somma.
Avverso tale sentenza la […] ha proposto ricorso, chiedendone la cassazione per due motivi.
Il […] replica con controricorso contenente ricorso incidentale articolato in quattro motivi.

MOTIVI DELLA DECISIONE
I due ricorsi, proposti contro la medesima sentenza, vanno riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c.. Con il primo motivo del ricorso principale, la […] denunzia violazione dell’art. 112 c.p.c., non avendo la Corte Territoriale esaminato la domanda di “riliquidazione delle spese processuali liquidate in primo grado” avanzata in appello per effetto del maggior valore complessivo assumibile e di fatto assunto dalla causa a seguito dell’accoglimento del gravame.
Con il secondo, denunzia violazione del D.M. 5 ottobre 1994, n. 585, art. 4, comma 1, capo 1; avuto riguardo agli onorari minimi per le prestazioni di avvocato previste dalla tariffa professionale con riferimento al valore della causa parametrato a quanto ottenuto complessivamente da essa attrice all’esito del giudizio di appello (scaglione da Euro 51.645,69 a Euro 103.291,38). Tenuto conto dei limiti minimi normativamente fissati per le varie voci, spettavano, a titolo di onorario di avvocato, Euro 2.107,14.
Con il primo motivo del suo ricorso, il […], denunciando violazione dell’art. 112 c.p.c., deduce che la sentenza impugnata ha pronunciato su una domanda diversa e nuova introdotta per la prima volta in appello dalla […], la cui istanza di divisione era stata riferita, in primo grado, esclusivamente ai beni de residuo e, in sede di gravame, anche a quelli che, pur non risultando più nel patrimonio comune, avrebbero dovuto comunque farne parte. Nè assumeva rilievo contrario l’indicazione delle somme nell’atto introduttivo del giudizio, essendo esse cadute in comunione non originariamente ma, ai sensi dell’art. 177 c.c., lett. c), solo al momento della separazione. La domanda era diversa, e quindi nuova per petitum e per causa petendi, in quanto le somme da dividere non facevano più parte della comunione al momento della separazione, e implicava l’elemento – estraneo all’azione di divisione ordinaria – della loro volontaria e cosciente sottrazione o del loro occultamento.
Con il secondo motivo, il ricorrente incidentale denuncia contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia. Deduce che la Corte Territoriale ha erroneamente interpretato la stessa domanda, poiché fuorviata dal falso presupposto che i beni provenienti dall’attività separata di uno dei coniugi, una volta acquisiti in costanza di matrimonio, siano utilizzabili soltanto per scopi inerenti la famiglia, con la conseguenza di assoggettare detti proventi alla disciplina dell’art. 177 c.c., lettera a) malgrado in un primo tempo avesse escluso che, perdurante il matrimonio, vi possa essere una comunione dei beni provenienti da attività separata regolati dalla lettera c) della disposizione predetta e affermato che la fattispecie rientrava nella comunione de residuo. Di contro, il sindacato circa le modalità di disposizione, da parte di ciascun coniuge, dai provanti della propria attività lavorativa, ammissibile solo nei limiti dalla normativa esistente, non può affatto ritenersi insito nella domanda di scioglimento della comunione. Vertendosi in tema di comunione de residuo, la fuoriuscita dei proventi prima che essi cadano in comunione equivale a sottrarli alla stessa comunione e quest’aspetto non è fungibile con una fittizia ricostruzione dell’asse familiare. Non si possono supporre come esistenti somme di denaro che in realtà non ci sono più. Si può agire per recuperarle o per fare accertare eventuali responsabilità, ma non si può certo supporre fittiziamente l’esistenza di un patrimonio non più esistente.
Con il terzo motivo, denunciandosi violazione dell’art. 177 c.c., lett. c) e dell’art. 2697 c.c., si insiste ancora sull’equivoco in cui sarebbe incorsa la Corte d’Appello circa il momento in cui i beni che residuano dopo lo scioglimento del matrimonio finiscono in comunione. Se tale momento è quello della separazione, non può presumersi che detti beni cadano in comunione durante il matrimonio. Conseguenza di questo errore di impostazione, e cioè di non riconoscere residualità alla comunione dei beni provenienti da attività separata, è avere posto a carico del percettore l’onere della prova della destinazione delle somme in contestazione. Al contrario, poiché prima della separazione i beni personali non confluiscono nella comunione, chi afferma la comunione ha l’onere di provare la sussistenza di detti beni al momento della separazione. Con il quarto motivo, si denuncia violazione dell’art. 177 c.c., lettere a) e c). Si ascrive alla Corte Territoriale di avere trattato i titoli – nella specie BOT – alla stregua di attività da ricomprendersi nella comunione legale a mente dell’art. 177 c.c., lettera a). In quanto forma di risparmio di agevole smobilitazione, i predetti titoli non rappresentano, a ben vedere, beni diversi dal denaro. La custodia di titoli da parte delle banche fa parte del concetto di risparmio gestito. Seguendo il ragionamento della Corte del merito, la conversione dal denaro in BOT avrebbe comportato di per sè la variazione di disciplina del medesimo bene dalla lettera c) alla lettera a) dell’art. 177 c.c., viceversa, detti titoli andavano considerati esclusivamente ex art. 177 c.c., lettera c), non avendo assunto natura diversa da quella di proventi da attività separata e non essendo mai entrati a far parte del patrimonio comune. Nell’ordine logico-giuridico, si prospetta preliminare l’esame del ricorso incidentale, giacché dal suo eventuale accoglimento rimarrebbe assorbito il principale, contenente doglianze relative al regolamento delle spese di lite.
I vari motivi del ricorso incidentale possono essere esaminati unitariamente, in quanto essi ruotano sostanzialmente intorno a un’unica questione – id est la portata e la funzione della comunione de residuo disciplinata all’art. 177 c.c., comma 1, lettera c) – dalla cui soluzione rimangono in varia guisa influenzate anche le questioni eminentemente procedurali agitate con i primi due motivi. Per vero, se l’enunciato normativo dovesse interpretarsi nella latitudine opinata dal Giudice a quo, con statuizione censurata più specificamente con i motivi terzo e quarto, la domanda di scioglimento della comunione riguarderebbe ipso iure anche le attività che lo stesso Giudice ha ritenuto ricomprese nella comunione legale da residuo, con conseguente inconfigurabilità dei vizi (violazione dell’art. 345 c.p.c., ed errata interpretazione della domanda) denunziati con i primi due mezzi.
Ad avviso di questa Corte, l’interpretazione della disposizione normativa di cui all’art. 177 c.c., comma 1, lettera c), effettuata dalla Corte di Appello è errata per le considerazioni che saranno in seguito esposte, d’altra parte, va rilevato che la sentenza qui impugnata si presenta lacunosa anche in ordine all’accertamento del collante fattuale del sillogismo giuridico operato dalla Corte del merito e ritenuto errato in diritto.
Come riportato in istorico, la Corte capitolina ha ritenuto che formano oggetto di comunione non solo i beni acquistati con i proventi dell’attività separata – a menta dell’art. 177 c.c., lett. a), secondo cui costituiscono oggetto della comunione “gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio” – ma anche i provanti medesimi. Ai sensi dell’art. 177 c.c., lett. c), costituiscono oggetto della comunione “i proventi
dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento dalla comunione, non siano stati consumati”. Tale norma dovrebbe interpretarsi alla luce delle altre disposizioni disciplinanti la comunione legale, e in particolare dell’art. 192 c.c., nel senso che i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi sono destinati ai bisogni della famiglia e, qualora non siano stati consumati all’atto dello scioglimento della comunione, entrano nella comunione de residuo in via assoluta. Siffatta interpretazione sarebbe in asse con il principio fondamentale ispiratore della comunione legale, che una contraria esegesi svuoterebbe di contenuto, in quanto detti proventi sono concepiti dal legislatore come destinati all’utilizzazione da parte della famiglia indipendentemente dalla loro provenienza (se, cioè, dall’attività lavorativa di uno solo dei coniugi, o di entrambi in misura analoga o diversa). I proventi, percetti o percipiendi, dell’attività separata di ciascuno dei coniugi, dunque, entrano di pieno diritto a far parte della comunione immediata, così come vi entrano a far parte gli acquisti con essi compiuti; spetta, quindi, al coniuge che ne è titolare dimostrare, ove non rinvenuti al momento dello scioglimento dalla comunione legale, di averli consumati a vantaggio della famiglia. Sulla base di tali premesse giuridiche, la Corte Territoriale ha incluso nella comunione legale sotto diversi profili – rispettivamente all’ art. 177 c.c., lett. a) e lett. c) – le somme servite per l’acquisto dei BOT (già oggetto di un deposito a custodia intestato al […]), appunto in quanto acquisti effettuati con proventi personali, nonché il ricavato della loro vendita transitato nel conto corrente, poi prosciugato, pure intestato all’ex marito, non avendo questi dimostrato di averlo destinato alle esigenze della famiglia.
Al riguardo, una prima notazione si impone: la Corte romana non ha considerato che alla data del 30 ottobre 1995, di scioglimento di diritto della comunione legale conseguente alla intervenuta omologazione della separazione consensuale, la (sola) situazione attuale e rilevante era quella del saldo attivo, pari a L. 8.419.520, del conto corrente intestato al […]. In buona sostanza, la Corte Territoriale ha finito per considerare due volte il medesimo “bene” della (ravvisata) comunione vale a dire, i (presunti) proventi dell’attività separata del […], riguardati dapprima come “acquisti” (i BOT) e successivamente come proventi non rinvenuti al momento dello scioglimento della comunione e ritenuti, in assenza di prova contraria, consumati in danno della comunione residuale; per l’inverso, essa avrebbe dovuto tenere presente che al momento della cessazione della comunione legale non v’era più traccia dei cennati titoli già disinvestiti dal […], il quale ne riversò il ricavato nel suo conto corrente, prelevandone in seguito, quasi per l’intero, il saldo attivo.
In realtà, il fulcro del ragionamento svolto dalla Corte è che costituiscono oggetto della comunione ai sensi dell’art. 177 c.c., lett. c), non solo quei redditi per i quali si riesca a dimostrare che sussistano ancora al momento dello scioglimento della comunione, ma anche quelli, percetti e percipiendi, rispetto ai quali il coniuge titolare non riesca a dimostrare che siano stati consumati per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione. Alla luce di tale principio, espressamente richiamato dall’impugnata sentenza e che da solo giustificava le conclusioni assunte, senz’uopo di apprezzare in pratica, sotto la diversa disciplina di cui all’art. 177 c.c., lettera a), lo stesso bene della vita in seguito valutato sub specie della comunione residuale, la Corte ha ritenuto che l’importo di L. 192.439.825 – costituente in un dato momento il saldo del conto corrente ove era stato fatto confluire il controvalore della vendita dei BOT, quasi interamente prelevato dal […] prima della omologazione della separazione – doveva considerarsi facente parte della comunione (de residuo), non avendone egli provato l’impiego per i bisogni della famiglia, con la conseguenza che la meta doveva essere restituita all’altro coniuge.
La impostazione in diritto della sentenza riecheggia una tesi che ha ricevuto l’avallo in diversi arresti di questa Corte. Si vuoi fare riferimento alle sentenze nn. 8865/1996, 9355/1997 e 14897/2000 nelle quali, da collimanti angoli visuali, questa Corte si è occupata sia della problematica dell’individuazione del momento in cui i proventi dell’attività separata di ognuno dei coniugi entrano a far parte della comunione legale, sia della questione, che a quella problematica è strettamente collegata, della titolarità dei beni acquistati, con denaro proprio, dal singolo coniuge. Denominatore comune di tali sentenze e il principio, che innerva le statuizioni di quella impugnata, per cui i proventi dell’attività separata dei coniugi, contemplati all’ art. 177 c.c., lettera c), entrano immediatamente e di pieno diritto a far parte della comunione.
In particolare, la sentenza n. 8865/1996 (non massimata dall’Ufficio del Ruolo e del Massimario) ha stabilito che, una volta dimostrata l’esistenza di redditi personali di uno dei coniugi, si verificherebbe una inversione dell’onere della prova e spetterebbe al coniuge titolare dell’attività dimostrare di avere utilizzato i redditi percepiti per soddisfare bisogni della famiglia o fare investimenti in beni caduti in comunione, il coniuge che percepisse i redditi non li potrebbe utilizzare liberamente (pur fatto salvo il dovere di contribuzione), ma, de facto, li dovrebbe destinare obbligatoriamente nella loro totalità ai bisogni della famiglia, pena il dovere di rimborsarli alla comunione stessa al momento del suo scioglimento.
La sentenza n. 9355/1997, nella parte motiva, ha affermato, sia pure a livello di obiter dietim, ma per ben due volte, che i proventi dell’attività separata dei coniugi sono destinati indistintamente al “consumo” della famiglia e entrano di pieno diritto a far parte della comunione immediata.
Sulla stessa scia della n. 8865/1996 si e collocata la sentenza n. 14897/2000, la quale ha affermato il principio, espressamente condiviso dalla sentenza impugnata, che costituiscono oggetto della comunione da residuo, ai sensi della disposizione richiamata, non solo quei redditi per i quali si riesca a dimostrare che sussistano ancora al momento dello scioglimento della comunione, ma anche quelli, effettivamente percepiti o che si sarebbe dovuto percepire, rispetto ai quali il coniuge titolare non riesca a dimostrare che siano stati consumati per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione. Come noto, il problema concernente il modus e il tempus operandi della comunione de residuo animò non poco la dottrina, soprattutto all’indomani della riforma del diritto di famiglia. Le maggiori perplessità riguardarono proprio la disciplina dei proventi dell’attività separata dei coniugi. Secondo la tesi maggioritaria in dottrina, i proventi de quibus entrano nella comunione soltanto per la parte non consumata al momento dello scioglimento, senza che il coniuge non percettore possa contestarne in alcuna maniera il modo d’impiego, a meno naturalmente di comportamenti tali da integrare gli estremi di una violazione degli artt. 143 e 146 c.c., comma 3. In altri termini, in mancanza di una specifica normativa riguardante l’amministrazione dei beni in questione, è a essi applicabile la disciplina prevista per i beni personali dei coniugi, sicché, manente communione, una volta adempiuti gli obblighi di contribuzione ex artt. 143 e 148 c.c., comma 3, ciascuno dei coniugi ha piena libertà di godimento e disposizione sui proventi della propria personale attività e sui relativi frutti, senza alcun obbligo di rendiconto nei confronti dell’altro coniuge.
Altra impostazione, rifiutando l’idea che uno dei coniugi potesse disporre a proprio piacimento dei beni destinati a ricadere in comunione de residuo, ritenne che l’unica possibile interpretazione dell’art. 177 c.c., comma 1, lett. c), in linea con lo spirito della riforma fosse quella di considerare i proventi dell’attività separata dei coniugi ricadenti in comunione immediata. Nell’ambito di tale filone dottrinario, si sostenne in particolare che, allo scioglimento della comunione, cadono in essa non solo i redditi individuali ancora esistenti, non essendo stati fino a quel momento consumati, bensì tutti i redditi percepiti, o che dovevano esserlo, per i quali manchi la prova, ad opera del coniuge titolare, del loro utilizzo per le esigenze della famiglia o per investimenti già compresi nella comunione.
A tale ultima tesi, come si e visto, ha per lungo tempo prestato piena adesione la (citata) giurisprudenza di questa Corte. Secondo le cennate decisioni, infatti, una volta dimostrata l’esistenza di redditi, si verificherebbe un’inversione dell’onere della prova e spetterebbe al coniuge titolare dell’attività dimostrare di avere utilizzato i redditi percepiti per soddisfare bisogni della famiglia o per fare investimenti in beni caduti in comunione. Solo i proventi per i quali è raggiunta questa prova restano esclusi dalla caduta in comunione de residuo.
La conseguenza di tale affermazione non può che essere la negazione della libertà del coniuge di disporre dei redditi percepiti in maniera differente dal soddisfacimento dei bisogni della famiglia, pena il dovere di rimborsarli alla comunione stessa al momento del suo scioglimento.
Le prime prese di posizione di questa Corte hanno rinfocolato il dibattito sulla tematica della comunione de residuo. La dottrina assolutamente maggioritaria ha sottoposto a serrate critiche l’orientamento così espresso dalla giurisprudenza di legittimità, mettendo in luce che esso finisce per proporre una interpretazione abrogante della parte finale dell’art. 177 c.c., lett. c) – ove si dispone che i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi cadono in comunione solo de residuo – in quanto tali proventi farebbero parte della comunione immediata. Con l’ulteriore conseguenza che si dovrebbero probabilmente considerare abrogate anche le altre ipotesi di comunione de residuo contemplate dagli artt. 177 e 178 c.c., lett. b). L’orientamento non ha trovato pieno consenso neppure tra coloro mostratisi sensibili alla posizione del coniuge non percettore di redditi. Di vero, pur escludendosi la totale liberti del coniuge percettore di disporre dei redditi da attività separata, si ritenne più appropriato configurare a suo carico, in caso di dissipazione di attività, un’ipotesi di responsabilità per abuso del diritto. Vi fu chi propugnò l’utilizzabilità da parte del coniuge non percettore sia di strumenti di tutela approntati direttamente dalla disciplina della comunione legale – come lo scioglimento della comunione ex art. 193 c.c., comma 2 – sia di strumenti di carattere più generale –
come il risarcimento a favore della comunione ex art. 2043 c.c., o i classici mezzi di tutela della garanzia patrimoniale (prima fra tutti l’azione revocatoria) – quando non, addirittura, l’esperibilità di azioni giudiziali di natura cautelare – come il provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c., o il sequestro ante causam. In particolare, si è evidenziato in dottrina che l’orientamento criticato:
– non trova riscontro nel dettato normativo, l’art. 177 c.c., lett. c) non accennando affatto alle modalità di impiego dei proventi dell’attività svolta da uno dei partecipanti alla comunione legale, nè tampoco al dovere di impiegarli per esigenze della famiglia; e nel silenzio della normativa – la quale non pone obblighi di destinazione sui beni oggetto della comunione de residuo ne’ limiti o controlli alla facoltà di “consumazione” – l’impiego nei più vari modi, non tradottosi in nuovi e durevoli acquisti, sottrae “lecitamente” cespiti a quella che, al momento dello scioglimento della comunione, diverrà esattamente la comunione de residuo, tanto da costituire un fatto “impeditivo” suscettibile di essere opposto al coniuge il quale dimostri il godimento di determinate entrate da parte dell’altro;
– onera il coniuge che presta la propria opera al di fuori delle mura domestiche di un puntuale rendimento dei conti circa il modo con cui ha impiegato i proventi della propria attività (al momento della cessazione del regime legale, eventualmente dopo svariati anni di vita in comune), e quindi anche di ima contabilità gravosissima, atteso che la prescrizione in materia comincia a decorrere solo dal passaggio in giudicato della sentenza che ha pronunciato la separazione dei coniugi, o da qualsiasi altro evento che ha condotto alla cessazione del regime legale;
– induce conseguenze molto rilevanti anche nei rapporti dei coniugi con i terzi, in particolare con i creditori. Si verificherebbe, infatti, un forte squilibrio a favore dei creditori della comunione (che si possono soddisfare, ex lege, sui beni della comunione e, in via sussidiaria, sui beni di ciascuno dei coniugi nella misura della metà del credito) a tutto svantaggio dei creditori particolari di ciascuno dei coniugi (che prima devono soddisfarsi ex lege, sui beni personali del coniuge – a quel punto potenzialmente molto ridotti – e solo in via subordinata possono aggredire i beni della comunione “fino al valore corrispondente al valore della quota del coniuge obbligato”), nel momento in cui si interpreta l’art. 177 c.c., lettere a) e c), nel senso che i proventi dell’attività separata di un coniuge cadono in comunione immediata, si opera quindi uno spostamento non indifferente della garanzia patrimoniale a vantaggio dei creditori della comunione e contro i creditori particolari del coniugo titolare dell’attività separata. A tale proposito, particolarmente significativo diventerebbe il caso del coniuge imprenditore: i suoi creditori vedrebbero automaticamente dimezzata, perché ricadente in comunione immediata, la garanzia rappresentata dai profitti dell’impresa, con la presumibile conseguenza che un imprenditore coniugato e in regime di comunione legale diventerebbe automaticamente meno affidabile di uno non coniugato o i cui rapporti patrimoniali siano disciplinati da un altro regime;
– inasprisce fortemente le limitazioni strutturali che l’istituto della comunione legale pone alla libertà dei coniugi, aggiungendo a livello interpretativo ulteriori restrizioni che renderebbero l’istituto troppo vincolante e oppressivo e, dunque, inficiato dal rischio di essere ben poco desiderato se non addirittura abbandonato dai coniugi;
– apre la strada a tutta una serie di strumenti a disposizione del coniuge non percettore di redditi, a favore del quale, anziché una aspettativa di mero fatto o di diritto in relazione alla caduta in comunione differita dei beni di cui agli artt. 177 e 178 c.c., lett. b) e c), e si configurerebbe un vero e proprio diritto soggettivo) con conseguente titolarità di strumenti di tutela quali l’azione revocatoria o l’azione surrogatoria in relazione a crediti derivanti dall’attività separata dell’altro coniuge, pur sa poi il coniugo non titolare dell’attività azionerebbe un diritto della comunione; si potrebbe persino arrivare alla conclusione che il debito nei confronti di un lavoratore (dipendente o autonomo), sposato e in regine di comunione legale, costituisce un’obbligazione nei confronti della comunione, con tutta la conseguenze che ne derivano: ad esempio, il lavoratore non potrebbe, senza il consenso del coniugo, rinunciare ai propri crediti o concludere transazioni in merito senza correre il rischio di un’azione di annullamento ex art. 184 c.c., da parte del coniuge.
Si e giustamente rimarcata, poi, la incongruenza, logica prima ancora che giuridica, che dall’orientamento giurisprudenziale deriverebbe in raffronto ai beni personali acquistati dai coniugi e in particolare a quelli di uso strettamente personale e che servono all’esercizio della professione (art. 179 c.c., lettera c) e d), quando (cioè nella quasi totalità dei casi) essi vengono acquistati con i proventi dell’attività separata di uno dei coniugi. Se, infatti, i proventi dell’attività separata cadono in comunione immediata, risulta difficile concepire poi la distrazione dalla comunione medesima di quei beni che sono personali (perché, per ipotesi, necessari all’esercizio della professione o di uso strettamente personale), ma che normalmente vengono acquistati proprio mercè l’utilizzo di quei proventi.
Si e, infine, altrettanto convincentemente osservato che l’acquisizione differita dei redditi personali non avrebbe significato se il percettore dei redditi, dopo aver assolto l’obbligo di contribuzione, non avesse la più ampia disponibilità dei redditi stessi. Egli, pertanto, a sua discrezione, deve poter consumare i redditi personali operando acquisti che, a norma dell’art. 177 c.c., lett. a), entrano in comunione, ovvero che, per l’uso cui vengano destinati, vanno considerati quali beni personali ex art. 179 c.c., lett. c) e d).
Dunque, la dottrina assolutamente prevalente non ebbe dubbi sull’inesistenza di un dovere del coniuge di destinare ai bisogni della famiglia tutti i propri redditi, anche quelli eccedenti i bisogni della famiglia stessa. È meno che mai sorsero dubbi sulla caduta in comunione di tali beni soltanto per la parte non consumata al momento dello scioglimento della comunione stessa. Condividendo le critiche rivolte all’orientamento sopra riportato, secondo cui i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi “entrano di pieno diritto a far parte della comunione immediata”, essendo destinati indistintamente al “consumo” della famiglia, questa Corte è giunta in seguito ad affermare il contrario principio che l’art. 177 c.c., lett. c) esclude dalla comunione legale tra coniugi i proventi dell’attività separata svolta da ciascuno di essi e consumati in epoca precedente allo scioglimento della comunione (cfr. Cass. n. 13441/2003). Il Collegio ritiene di aderire all’indirizzo inaugurato dalla sentenza da ultimo citata, approvando le sopra riportate critiche mosse al precedente orientamento dalla dottrina maggioritaria e in parte richiamate dalla pronuncia medesima, le cui conclusioni sono del resto congruenti con la configurazione data dal legislatore agli istituti in discussione.
L’attuale comunione dai beni trova, invero, il suo precedente immediato nella “comunione degli utili e degli acquisti”, compresa tra i regimi patrimoniali convenzionali della famiglia nel quadro della normativa (ora sostituita) risultante dagli artt. 159 e 229 c.c.; tale comunione, a sua volta, aveva in parte ricalcato il
modello delineato nel codice civile del 1865 che, nonostante l’esempio del codice francese, non aveva accolto come regime legale la comunione dei beni. Ora, nello spirito costituzionale della totale parità tra i sessi e della eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con la riforma del diritto di famiglia introdotta nel 1975 si è inteso dare ai rapporti tra i coniugi un assetto autenticamente paritario, che si esprime prioritariamente nell’obbligo dei medesimi di contribuire col proprio lavoro (anche se soltanto casalingo per l’uno di essi) ai bisogni della famiglia (art. 143 c.c., comma 3). Tuttavia, con la elevazione della comunione dal rango di regime convenzionale a quello di regime legale, non è stata del tutto sacrificata sul piano patrimoniale la liberti individuale. Innanzitutto, rimane integra la facoltà di scelta del regime patrimoniale, ben potendo i coniugi optare per un diverso regime;e quindi anche per la separazione dei beni (art. 162 c.c.); inoltre, sono esclusi dalla comunione (art. 179 c.c., comma 2) gli acquisti di beni immobili e gli acquisti di beni mobili soggetti a trascrizione, però rientranti nelle categorie di beni di uso strettamente personale od occorrenti per l’esercizio professionale o acquisiti con il prezzo di beni di proprietà esclusiva o col loro scambio, quando l’esclusione risulti dall’atto di acquisto e sempre che sia intervenuto anche l’altro coniuge. Perciò, nella contrapposizione tra i beni che costituiscono oggetto della comunione (art. 177 c.c.) – pur se si tratta di comunione cosiddetta de residuo concernente i frutti dei beni propri dell’uno dei coniugi e i proventi dell’attività separata non consumati allo scioglimento della comunione – e i beni che ne sono esclusi ai sensi dell’art. 179 c.c., la comunione stessa appare strutturata essenzialmente sugli “acquisti” (art. 177 c.c., lett. a), sulle aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio (art. 177 c.c., lett. d), nonché sugli utili e incrementi delle aziende appartenenti a uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi (art. 177 c.c., comma 2). Ne consegue che i redditi individuali dei coniugi – tanto che si tratti di redditi di capitali (art. 177 c.c., lettera b), quanto che si tratti di proventi della loro attività separata (art. 177 c.c., lettera c) – non cadono automaticamente in comunione, ma rimangono di pertinenza del rispettivo titolare, salvo a diventare comuni, nella misura in cui non siano stati già consumati, al verificarsi di una causa di scioglimento della comunione.
Sostenere che possono considerarsi “consumati” e quindi esclusi dalla comunione de residuo – solo i redditi utilizzati o per soddisfare i bisogni della famiglia o per procurare “acquisti” alla comunione legale non è conforme al sistema varato nel 1975, nel quale non vi è traccia di strumenti concessi al “partner” per sindacare o impedire l’utilizzo delle disponibilità individuali dell’altro coniuge.
In diversi termini, il legislatore del 1975 ha coniato un regime di comunione differita relativo a quattro diverse categorie di beni: 1) i frutti dei beni di ciascuno dei coniugi (art. 177 c.c., lett. b);
2) i proventi delle attività separate (art. 177 c.c., lett. c); 3) i beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi, cioè dell’azienda costituita dopo il matrimonio (art. 178 c.c., prima parte); 4) gli utili e gli incrementi dell’impresa costituita da uno dei coniugi anche prima del matrimonio (art. 178 c.c., ultima parte). I beni rientranti in queste quattro categorie, come è palesemente evidenziato anche dalla formulazione legislativa, entreranno a far parte della comunione solo se sussistono allo scioglimento di questa, al momento: cioè, in cui, per qualsiasi ragione, si verifichi la cassazione del regime della comunione legale; prima appartengono in via esclusiva al singolo coniuge, che ne potrà liberamente ed autonomamente disporre.
In definitiva, se è vero che il sistema legale è quello comunitario, e anche vero che questo si caratterizza per l’esser variamente e notevolmente temperato, giacché comprende pienamente, facendone oggetto di comunione attuale, solo gli acquisti – e non tutti gli acquisti – mentre per gli utili si prevede solo una comunione virtuale e de residuo, formando essi oggetto di una semplice aspettativa di futura partecipazione.
L’indirizzo contrario, fatto proprio dalla sentenza qui impugnata, attribuisce alla comunione legale una onnicomprensività che va ben oltre il dettato normativo. Si tratta di soluzione che, pur nell’apprezzabile intento di garantire maggiormente il coniuge economicamente più debole, si pone palesemente in contrasto con la lettera della legge, che non prevede vincoli di destinazione, ne’ impone limiti o controlli al diritto di ciascun coniuge di disporre del “surplus” dei propri redditi. Corollario di tale affermazione che non esiste alcun diritto, giuridicamente, tutelato, di ciascun coniuge sui proventi dell’altro e sul modo in cui questi li amministra. Di conseguenza manente communione il coniuge percettore avrà, rispetto ai proventi dell’attività personale, un potere di godimento, amministrazione e disposizione pieno, ex art. 217 c.c., salvo il limite di contribuire ai bisogni della famiglia, che peraltro sussiste anche con riferimento ai beni personali (art. 185 c.c.). Tirando le fila del discorso, per i proventi dell’attività separata di uno dei coniugi, è dall’art. 177 c.c., lett. c) prevista la cosiddetta comunione de residuo, la quale si realizza al momento dello scioglimento della comunione, limitatamente a quanto effettivamente sussista nel patrimonio del singolo coniuge e non a quanto avrebbe potuto ivi rinvenirsi ritenendo a essa destinati ex lege i proventi personali che non siano stati provatamente impiegati per il soddisfacimento dei bisogni familiari, o che siano stati comunque investiti in acquisti già caduti in comunione. Deve quindi ribadirsi il principio che l’art. 177 c.c., lett. c), esclude dalla comunione legale i proventi dell’attività separata svolta da ciascuno dei coniugi e consumati, anche per fini personali, in epoca precedente allo scioglimento della comunione. Può soggiungerai che la comunione de residuo non fa nascere un vero e proprio diritto di credito in favore della comunione ed a carico del singolo coniuge, ma di luogo ad una semplice aspettativa di fatto, in quanto solo al momento dello scioglimento della comunione viene ad operarsi un vero e proprio ritrasferimento, nel senso di una comproprietà differita. All’altro coniuge la legge non riserva un diritto reale attuale, ma attribuisce pur sempre una forma di tutela verso lo scarso senso di solidarietà coniugale da parte del percettore del reddito.
In questa prospettiva, a venire in gioco non sono i diritti che si ricollegano al regime patrimoniale legale della famiglia, quanto i doveri fondamentali sanciti dagli artt. 143 e 147 c.c., che costituiscono il regime matrimoniale primario nel senso sopra precisato.
Ed allora i possibili rimedi a fronte di un comportamento del coniuge tale da pregiudicare le aspettative dell’altro saranno quelli legislativamente previsti, e cioè la facoltà per ciascun coniuge di chiedere la separazione giudiziale dei beni prevista dall’art. 193 c.c., comma 2, nel caso in cui la condotta tenuta dall’altro
nell’amministrandone dei beni metta in pericolo gli interessi del coniuge o della comunione (esprimendo un concetto che può comprendere l’aspettativa inerente la comunione residuale). Contro l’abuso che l’altro coniuge faccia delle proprie risorse economiche, disperdendole senza tenere conto delle esigenze proprie della famiglia, il coniuge non percettore potrebbe utilizzare strumenti di carattere più generale, come il risarcimento del danno in favore della comunione ex art. 2043 c.c., o il mezzo di tutela della garanzia patrimoniale costituito dall’azione revocatoria, accogliendo l’art. 2901 c.c., una nozione lata di credito, comprensiva della mera aspettativa, con conseguente irrilevanza delle relative fonti di acquisizione; ciò in coerenza con la funzione propria dell’azione, la quale non persegue scopi specificamente restitutori, ma mira a conservare la garanzia generica sul patrimonio del debitore in favore di tutti i creditori, compresi quelli meramente eventuali (difficile sostenere invece la possibilità di ricorrere alla azione surrogatoria implicante la qualità di creditore attuale nel soggetto agente).
Le considerazioni che si sono andate esponendo avvalorano la denunciata violazione dell’art. 177 c.c., comma 1, lett. c), da parte della Corte di merito.
Peraltro, come anticipato in apertura della presente disamina, dalla lettura della sentenza non risulta operata in maniera chiara e appagante la verifica della premessa fattuale della problematica in tema di comunione legale de residuo risolta dalla Corte capitolina con le adottate statuizioni) e cioè che le somme di denaro dapprima investite in buoni ordinari del tesoro e poi transitate sul conto corrente siano effettivamente proventi dell’attività separata del […]. Detta circostanza, che, in quanto contestata in giudizio dall’appellante, avrebbe richiesto un rigoroso accertamento, viene in un certo senso data per scontata dalla Corte Territoriale. Dall’accoglimento del ricorso incidentale discende l’assorbimento di quello principale rivolto alle statuizioni in materia di spese processuali.
Conclusivamente, la sentenza va cassata in relazione alle censure accolte. Il Giudice di rinvio si atterrà al sopra enunciato principio in materia di comunione de residuo (art. 177 c.c., lettera c)), previamente approfondendo l’accertamento in ordine alla effettiva provenienza (e alla conseguente qualificazione) delle somme oggetto di contestazione tra le parti.
Allo stesso Giudice, che si designa in altra sezione della stessa Corte d’Appello, viene demandato di regolamentare le spese della presente fase di legittimità.
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