Corte di Cassazione, Sez. 1, Sentenza n. 2632 del 1993,

[…]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Nel ’64 i sig.ri […] e […] costituirono una societa’ in accomandita semplice, la “[…]” s.a.s. Il primo assunse la qualità di socio accomandatario; il secondo quella di socio accomandante; e stabilirono la trasferibilità delle quote sociali “con effetto verso la società” col consenso della maggioranza del capitale, nonché, “in caso di morte”, “il diritto” degli “eredi di continuare la società”. Deceduto il […], nel giugno ’80 la sig.ra […], sua unica erede, convenne davanti al Tribunale di Varese il […], chiedendo (fra l’altro) che fosse accertato l’acquisto della sua qualita’ di accomandataria, in virtù di successione mortis causa, nella quota del 50% già spettante al marito (col conseguente diritto ad ottenere l’iscrizione della nuova ragione sociale); e che fosse, inoltre, dichiarato illegittimo ogni eventuale atto di ingerenza da parte del socio accomandante nella amministrazione della società.
Il convenuto, costituitosi in contraddittorio chiese in via riconvenzionale l’esclusione dell’attrice dalla società. Il tribunale accolse la domanda della […] e respinse quella riconvenzionale.
2. Su gravame del […], con sentenza 26 maggio 1991 la Corte d’appello di Brescia confermò la decisione del primo giudice, osservando che la successione della […] nella quota sociale comportava l’assunzione nella nuova socia della stessa posizione giuridica (come accomandatario e amministratore) già spettante al […]. Quanto alla doglianza relativa al rigetto della domanda riconvenzionale, ritenne che l’atteggiamento inibitorio della accomandataria (addotto dall’appellante) non integrava un inadempimento idoneo a giustificarne l’esclusione.
3. Avverso questa sentenza il […] ha proposto ricorso per cassazione con due mezzi di annullamento. La […] ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Col primo complesso motivo il ricorrente denuncia falsa applicazione dell’art. 1722, n. 4, c.c.; violazione degli art. 2322, 2284, 2318 c.c. e dei criteri di interpretazione dei contratti; nonché carenza di motivazione. E censura la sentenza impugnata, deducendo, nell’ordine, che: a) l’art. 1722, n. 4, c.c., applicabile alla sola ipotesi di morte del mandante imprenditore, non sarebbe invocabile nella fattispecie in esame, in cui l’imprenditore non è l’accomandante, ma l’accomandatario; b) la Corte di merito non avrebbe considerato che l’attribuzione nel contratto sociale dello status di amministratore e rappresentante al sig. […] (nominativamente indicato) intendeva ribadire il carattere personale della attribuzione e, quindi, la sua intrasmissibilità senza il consenso di tutti i soci; c) nella successione ereditaria delle quote sociali resterebbero esclusi gli eventuali diritti personali ad esse connesse e sarebbe, nulla, ex art. 1418 c.c., una clausola che stabilisse la tramissibilità anche della qualità di accomandatario e del munus di amministratore.
2. Queste deduzioni, strettamente connesse e da esaminarsi, quindi, congiuntamente, sono fondate nei limiti di cui alle considerazioni che seguono.
La Corte di merito ha stabilito che l’art. VIII del contratto sociale della […], posto in essere dal […] (socio accomandatario) e dal […] (socio accomandante), configurava una clausola di continuazione della società, da cui conseguiva (con l’accettazione dell’eredità) la successione dell’erede nella stessa posizione del socio accomandatario, con l’assunzione della qualità di accomandatario e del munus di amministratore già spettanti al defunto. E ha affermato la validità del patto, osservando che il connotato personalistico della quota del socio accomandatario non contrasta con contenuto della clausola stessa, in quanto destinatari dell’intuitus personae sono gli stessi soci che hanno già tutelato preventivamente il proprio interesse. Ha aggiunto che il subingresso dell’erede nel munus già affidato al socio accomandatario amministratore è coerente con l’ordinamento, posto che è già previsto (art. 1722, n. 4, c.c.) che il mandato concernente atti relativi all’esercizio di un’impresa non si estingue, se questo continua.
3. Queste statuizioni non possono essere condivise. La normativa sulla società in accomandita semplice (capo IV, titolo V, libro V) non contiene specifiche disposizioni per il trasferimento della quota del socio accomandatario. La relativa disciplina deve essere, perciò, desunta, in virtù del duplice richiamo di cui agli artt. 2315 e 2293 c.c., da quella della società semplice. In caso di morte dell’accomandatario è, quindi, applicabile l’art. 2284 c.c., che stabilisce, come criterio generale, che gli altri soci devono liquidare la quota agli eredi, a meno che preferiscano sciogliere la società ovvero continuarla con gli eredi stessi e questi vi acconsentano. È, dunque, esclusa l’automatica trasmissibilità, iure ereditario, della partecipazione sociale del socio defunto, illimitatamente responsabile, prevista (2322 c.c.), invece, nel caso di morte del socio accomandante. Con l’accettazione dell’eredità all’erede del socio accomandatario compete, pertanto, secondo la disciplina ordinaria, il diritto alla sola conversione della partecipazione sociale in un credito, corrispondente al valore della quota (art. 2289 c.c.). In deroga a questo regime, l’art. 2284 c.c. fa, tuttavia, salva ogni contraria disposizione del patto sociale.
La legittimità di tali contrarie pattuizioni, soprattutto quando esse contengano una c.d. “clausola di continuazione” con gli eredi, acquista un rilievo del tutto specifico nell’ipotesi di morte dell’accomandatario nella società in accomandita semplice: sia per la posizione qualitativamente diversa delle due categorie di soci: sia in considerazione del ruolo tipologico della riserva di amministrazione ai soci accomandatari, specie laddove esista un unico accomandatario.
4. Sulla validità delle clausole di continuazione (c.d. “facoltativa”), stabilite in favore degli eredi del socio defunto, senza distinzione tra accomandante ed accomandatario, questa Corte si è ripetutamente espressa in senso favorevole (Cass. 16 luglio 1976, n. 2815). La questione si ripropone in una prospettiva diversa nell’ipotesi di una clausola di continuazione che (come quella configurata, secondo l’interpretazione del giudice del merito, nella fattispecie) preveda l’automatica trasmissibilità all’erede dell’accomandatario del munus di amministratore, quale elemento inscindibile dalla posizione del defunto. In tale situazione è necessario verificare se e in quali limiti, essendovi interessi sottratti alla disponibilità delle parti, l’ordinamento consente di attribuire efficacia alla clausola.
Occorre, anzitutto, considerare che la scelta dell’amministratore costituisca, in linea generale, un interesse assolutamente disponibile da parte della volontà collettiva dei soci, ed integra un elemento essenziale del contratto di società, sia che la nomina avvenga all’atto della sua costituzione, sia che, con riferimento alla società in accomandita semplice, essa si realizzi con atto separato (artt. 2319 c.c.), che coinvolge la volontà e degli accomandatari e degli accomandanti.
Perciò, una clausola di prosecuzione post mortem, come deroga alla disciplina dell’art. 2284 c.c., ove i contraenti abbiano già individuato la persona chiamata a succedere all’accomandatario in caso di decesso, ben potrebbe estendersi alla funzione amministrativa connessa alla qualifica dell’unico accomandatario. Il problema della validità di tale clausola si pone, invece, quando essa contenga una designazione della funzione amministrativa in incertam personam o delineata con criteri di indifferenza, così da costituire, sostanzialmente, un atto abdicativo, da parte di un socio (l’accomandante superstite), all’espressione della volontà negoziale su un punto essenziale del contratto sociale. La funzione amministrativa integra il momento gestorio dell’attività sociale, è strettamente strumentale al perseguimento del fine sociale ed attiene alla qualificazione della società come impresa.
Ma tale funzione, proprio perché essenziale, non potrebbe essere realizzata da un soggetto che, al momento in cui è posto in essere il negozio societario, resti indeterminabile ovvero sia individuabile con criteri di indifferenza rispetto alle sorti della società e allo scopo che i soci intendono perseguire.
Una designazione in incertam personam coinvolgente la stessa struttura societaria, lederebbe, perciò, necessariamente, un elemento essenziale del contratto della società in accomandita. Egualmente, sarebbe illegittima una clausola di continuazione che, con indifferenza rispetto ai soci accomandatari o accomandanti, prevedesse genericamente il subentro degli eredi del socio defunto anche nella qualifica di amministratore da lui rivestita nella società. E non potrebbe impedire una diversa determinazione negoziale da parte dell’erede dell’accomandatario e dell’accomandante superstite.
Ciò, indipendentemente dal problema (che qui non è necessario affrontare) della trasmissibilità iure ereditario di un situazione personale del de cuius, qual’è la qualifica di amministratore.
5. In questo quadro non ha rilievo, ne’ significato il richiamo dell’art. 1722, n. 4, c.c., contenuto nella sentenza impugnata, a sostegno della tesi qui criticata.
L’eccezione all’estinzione per morte del mandato – prevista in detta norma – se il mandato ha per oggetto il compimento di atti relativi all’esercizio di un’impresa, trova, infatti, applicazione, come questa Corte ha da tempo chiarito (Cass. 28 marzo 1966, n. 822), soltanto in caso di morte del mandante che sia imprenditore; e la deroga non si estende all’estinzione del mandato per morte del mandatario, in quanto, secondo un’opinione che trova conforto anche nei lavori preparatori (v. relazione n. 716), a fondamento della designazione di un dato mandatario vi è sempre la fiducia nella persona che si designa.
Se si considera che nella società in accomandita l’accomandante non è imprenditore, viene, dunque, meno ogni possibilità di ipotizzare una ratio comune alle due ipotesi, che possa giustificare, sotto tale profilo, il subingresso dell’erede nel munus di amministratore già spettante all’accomandatario.
6. Alla stregua delle considerazioni che precedono, il motivo deve essere, pertanto, accolto.
Rimane assorbito l’esame del secondo motivo del ricorso, con cui si lamenta la mancata esclusione della […], quale accomandataria, dalla società.
In relazione alle censure accolte la sentenza impugnata deve essere, conseguentemente, cassata e la causa rimessa per un nuovo esame ad altro giudice.
Il giudice del rinvio deciderà in conformità ai suenunciati principi, e tenendo anche conto che l’invalidità di una clausola del tipo qui considerato, in base al principio di conservazione del negozio giuridico (art. 1397 c.c.), non potrebbe incidere sul diritto dell’erede dell’accomandatario alla partecipazione sociale. […]