Corte di Cassazione, Sez. 1, Sentenza n. 2680 del 2000, dep. il 9 marzo 2000.

[…]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
[…], coniuge di […], dichiarato fallito dal Tribunale di Avellino con sentenza del […], conveniva in giudizio il curatore del fallimento per sentire accertare il proprio diritto di proprietà, in ragione del 50%, sul fabbricato che il fallito in costanza di matrimonio ed in regime di comunione legale dei beni aveva costruito su un terreno di sua esclusiva proprietà ed aveva poi destinato alla sua attività di impresa; la […] chiedeva anche la condanna della locataria dell’immobile a corrisponderle direttamente la metà del canone di locazione. Il Tribunale di Avellino, con sentenza del 30 settembre 1994, rigettava la domanda e la Corte di appello di Napoli, con sentenza del 9 aprile 1997, confermava la decisione. In particolare, la Corte di merito osservava che il principio generale della accessione, in virtù del quale il proprietario del suolo acquista la proprietà della costruzione ipso iure, al momento dell’incorporazione non viene derogato dall’art. 177, lett. a, cod. civ. che assoggetta a comunione gli acquisti compiuti dal coniuge durante il matrimonio;
la Corte, inoltre, in relazione ad altro motivo, osservava che lo scioglimento della comunione determina una comunione de residuo sui beni destinati all’esercizio dell’impresa, soltanto dopo che siano stati soddisfatti i creditori del coniuge imprenditore. Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione […], deducendo due motivi. Il fallimento di […] resiste con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art.177, lett. a, cod. civ. in quanto detta disposizione rende comune il risultato della attività giuridica, cui consegue l’acquisto, effettuata anche separatamente dai coniugi, ed a tale regola non si sottrae l’acquisto per accessione, la cui disciplina non subisce alcuna deroga poiché soltanto in un momento logicamente successivo, anche se cronologicamente contestuale, il coniuge del proprietario del suolo acquista, in virtù del regime patrimoniale di comunione dei beni, la comproprietà della costruzione. A sostegno del proprio assunto il ricorrente osserva che l’acquisto per accessione non è escluso dalla comunione legale; che alla costituzione di un diritto di superficie sulla costruzione non è di ostacolo il disposto dell’art. 952 cod. civ., secondo cui il diritto di superficie viene costituito dal proprietario, poiché la volontà del proprietario del suolo, da un lato si può ritenere implicitamente espressa con la scelta dei coniugi di non derogare al regime di comunione dei beni e, d’altro canto, può non essere necessaria se il legislatore, al fine di assicurare la funzione sociale della proprietà ed in collegamento con i principi di eguaglianza dei coniugi, prevede un diverso modo di acquisto della proprietà, riconducibile alla riserva (“altri modi stabiliti dalla legge”) prevista dall’art. 922 cod. civ.; che, infine, la coesistenza nello stesso soggetto della posizione di proprietario del suolo e di superficiario è consentita dal regime di comunione pro indiviso, che impedisce la confusione tra la qualità di proprietario del terreno e di contitolare del diritto di superficie.
Questa Corte con giurisprudenza costante (Cass. 11 agosto 1999, n. 8595; Cass. 12 maggio 1999, n. 4716; Cass. 22 aprile 1998, n. 4076;
Cass. 8 maggio 1996, n. 4273; Cass. 27 gennaio 1996, n. 651;
Cass. 16 febbraio 1993, n. 1921; Cass. 14 marzo 1992, n. 3141;
Cass. 11 giugno 1991, n. 6622) ha affermato il principio che in tema di comunione legale tra coniugi, la costruzione realizzata, in costanza di matrimonio, da uno dei coniugi su di un fondo a lui appartenente in proprietà esclusiva entra (in via del pari esclusiva) a far parte del suo patrimonio per effetto delle disposizioni generali in materia di accessione, senza cadere, pertanto, nel novero dei beni oggetto di comunione di cui all’art.177, lett. a) del codice civile. Ne consegue che la tutela del coniuge non proprietario del suolo opera non sul piano del diritto reale (non potendo quegli vantare, in mancanza di un apposito titolo o di una specifica disposizione di legge, alcun diritto di comproprietà, nemmeno superficiaria, sulla costruzione), bensì su quello meramente obbligatorio (nel senso che va a lui riconosciuto un diritto di credito relativo alla metà del valore dei materiali e della manodopera impiegati nella costruzione).
Questa Corte ha messo in luce che la disciplina dettata dall’art.934 cod. civ. ha un campo di applicazione non limitato al caso della costruzione, post nuptias, di un’unità funzionalmente autonoma e strutturalmente identificata, ma esteso ad altre variegate fattispecie ipotizzabili che vanno dalla ristrutturazione di un edificio o di un appartamento alla trasformazione delle colture di un fondo, al rimboschimento, ai lavori di miglioramento ed abbellimento. In tutti questi altri casi, espressamente contemplati dalla disposizione sull’accessione ed aventi a base la stessa ratio normativa, non è posto in discussione il principio dell’acquisto per accessione con la conseguenza che l’incremento del bene personale di uno dei coniugi esclude qualsiasi ipotesi di comunione di diritti reali e fa sorgere soltanto un diritto di credito in favore dell’altro coniuge della stessa comunione. Come appare evidente, non è facile distinguere nel contesto dello scenario normativo dell’accessione la sola ipotesi della costruzione di un bene funzionalmente autonomo e strutturalmente identificabile e ritenerla il possibile oggetto di un acquisto automatico privo di titolo pattizio o di una specifica previsione normativa; ne’ è facile limitare, in base a criteri non soggettivi, quale parte del suolo di proprietà esclusiva, al di là dell’area coperta della costruzione, debba ritenersi caduta in comunione o comunque asservita al nuovo bene e quindi sottratta alla proprietà personale di uno dei coniugi.
In tale situazione ed in presenza della scelta del legislatore di esigere una deroga espressa dei principi dettati in tema di accessione, non si vede come possa attribuirsi carattere derogativo al disposto dell’art. 177 lett. a), che, pur dettando una disposizione di carattere generale sugli acquisti del singolo coniuge in regime di comunione legale, non prevede alcuna espressa deroga ai principi della accessione e non detta alcun criterio per operare le distinzioni e le individuazioni richieste dalla tesi sostenuta dal ricorrente.
Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art.178 cod. civ. in quanto il bene in questione sarebbe comunque ricaduto nella comunione de residuo, come bene aziendale, in virtù di una contitolarità immediata dei coniugi (e non in virtù di un mero diritto di credito), sia pure con attribuzione al coniuge imprenditore del potere di gestione e di disposizione, a seguito dello scioglimento della comunione per effetto della dichiarazione di fallimento.
Il motivo è infondato. Come è noto, ai sensi dell’art. 178 cod. civ., in regime di comunione legale, tutti i beni che vengano acquistati da uno dei coniugi e siano destinati all’esercizio di un’impresa costituita dopo il matrimonio fanno parte della comunione medesima solo de residuo, cioè se e nei limiti in cui sussistano al momento del suo scioglimento. Da ciò consegue che i beni acquistati e destinati all’esercizio dell’impresa sono, prima dello scioglimento della comunione, aggredibili per intero dai creditori del coniuge acquirente (Cass. 29 novembre 1986, n. 7060; Cass. 21 maggio 1997, n. 4533); sarebbe, pertanto, del tutto irragionevole pensare che con la dichiarazione di fallimento la garanzia dei creditori possa dimezzarsi. In secondo luogo, se è vero che la dichiarazione di fallimento determina lo scioglimento della comunione (art. 191\1 cod. civ.), non vi è dubbio che il fallimento determina anche lo spossessamento del debitore ed il vincolo di tutti i suoi beni, in virtù di una sorta di pignoramento generale, al soddisfacimento dei creditori. Tale vincolo, seppure contestuale da un punto di vista cronologico all’effetto dello scioglimento della comunione, è, tuttavia, da un punto di vista logico, antecedente poiché concorre a costituire la ratio legis dello scioglimento della comunione. Inoltre, anche prescindendo dalla ipotesi del fallimento, è chiaro che lo stesso concetto di comunione de residuo non può avere riguardo ai beni destinati a confluirvi senza avere contemporaneamente riguardo alle passività che gravano su quei beni, anche solo in virtù della garanzia generica ex art. 2740 cod. civ.. In conclusione, quando i coniugi sono in regime di comunione legale dei beni, il fallimento di uno di essi determina la comunione de residuo, sui beni destinati post nuptias all’esercizio dell’impresa, soltanto rispetto ai beni che dovessero residuare dopo la chiusura della procedura.
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