Corte di Cassazione, Sez. 1, Sentenza n. 522 del 1995

 

[…]

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione del 2 febbraio 1981, […] convenne il Comune di [..] dinanzi al Tribunale di Milano, esponendo d’esser proprietario di un’area (mapp. 26, fg. 21, mq. 6660 circa), per la quale, nell’ottobre 1979, era intervenuto un accordo di bonaria cessione con l’Amministrazione comunale per la somma di Lit. 35.267.463 sulla base del valore agricolo. Aggiunse che il Comune convenuto, dopo la formale deliberazione del Consiglio […], aveva assicurato che la somma sarebbe stata corrisposta entro il 18 dicembre 1979 e aveva chiesto la immediata disponibilità dell’area che egli, con nota del 26 ottobre 1979, aveva concesso, permettendo al Comune di dare inizio ai lavori per la nuova destinazione (campo giochi o giardino pubblico). Poiché tuttavia l’Amministrazione non aveva provveduto al versamento della somma ed erano rimaste senza esito sia la raccomandata 24 aprile 1980, sia quella successiva 10 novembre 1980 (con la quale il convenuto era stato posto formalmente in mora con avvertimento che, in difetto, l’accordo intervenuto avrebbe dovuto intendersi risolto), il […] concluse, chiedendo la declaratoria dell’inadempimento del Comune e della risoluzione dell’intervenuto accordo; ed altresì, che, ove fosse stata accertata la impossibilità di restituzione dell’area – dati i lavori eseguiti e la sua destinazione -, il Comune fosse condannato al risarcimento del danno, corrispondente al valore commerciale dell’area, da determinarsi in corso di causa.
Si costituì il Comune convenuto, sostenendo che l’attore, con le raccomandate 24 aprile e 10 novembre 1980, aveva manifestato il proprio sopravvenuto dissenso sul prezzo concordato, che a suo dire – in seguito alla sentenza n. 5 del 1980 della Corte Costituzionale, avrebbe dovuto essere rivalutato. Rilevò, poi, che il […], con la seconda delle missive sopra indicate, aveva intimato il pagamento della somma convenuta, da intendersi, però, come anticipo del maggior credito, contestando, pertanto, che potesse configurarsi un proprio inadempimento e concludendo per il rigetto delle domande dell’avversario.
Il Tribunale adito, dopo lo svolgimento di consulenza tecnica d’ufficio – con sentenza 4-24 novembre 1986 – dichiarò risolto, per inadempimento del Comune di […], il contratto relativo alla cessione bonaria del terreno di proprietà dell’attore;
e, preso atto dell’impossibilità di restituzione dell’area, condannò il detto Comune al pagamento, in favore dell’attore, della somma di Lit. 936.562.500, oltre interessi dal giorno dell’occupazione.
Rilevava il giudice di primo grado – una volta constatato che tra le parti era intercorso un contratto, in virtù del quale l’attore aveva promesso di cedere al Comune il terreno in questione, consentendone l’occupazione, al prezzo vigente prima della sentenza n. 5-1980 della Corte Costituzionale – che la lettera 10 novembre 1980 del […] non poteva costituire diffida ad adempiere, ai sensi dell’art. 1454 C.C., perché con la medesima il promittente […] aveva modificato uno degli elementi essenziali del contratto, cioè il prezzo, dichiarandosi non più disposto ad accontentarsi della somma pattuita; che, tuttavia, il contratto doveva intendersi risolto ex art. 1453 C.C., come richiesto con l’atto di citazione, per inadempimento del Comune, che non aveva provveduto a versare la somma pattuita, non giustificato dal comportamento dell’attore, a fronte del quale si sarebbe potuto far ricorso al procedimento di messa in mora del creditore; e che, dichiarato risolto il contratto, l’appropriazione del terreno da parte del Comune doveva essere risarcita al prezzo di mercato secondo le determinazioni del consulente tecnico d’ufficio che il Collegio faceva proprie.
Avverso tale decisione interpose appello il Comune di […], chiedendo alla Corte di Milano, in via principale, la reiezione di tutte le domande del […] e, in via subordinata, previa consulenza tecnica, diversa quantificazione del valore dell’area.
Resistette al gravame il […], che instò, inoltre, in via incidentale, per la condanna del Comune alla corresponsione, quantomeno a decorrere dalla data della sentenza del Tribunale, della ulteriore rivalutazione monetaria.
La Corte d’Appello di Milano, con sentenza del 18 giugno – 10 settembre 1991, in riforma della decisione impugnata, respinse le domande proposte da […] nell’atto introduttivo del giudizio.
La Corte, in particolare, dopo aver preliminarmente condiviso l’interpretazione della domanda del […] data dal Tribunale – nel senso che la stessa può essere qualificata siccome domanda di risoluzione del contratto per inadempimento ex art. 1453 cod. civ. – non ha ritenuto ravvisabile alcun inadempimento del Comune nel mancato versamento, da parte di quest’ultimo al […], della somma pattuita per la cessione dell’area e, quindi, ha reputato insussistente il presupposto per la pronuncia di risoluzione del contratto.
La Corte ha fondato il proprio giudizio sul significato da attribuire alle lettere inviate dal […] al Comune il 24 aprile ed il 10 novembre 1980: dopo aver sottolineato che, con la prima lettera, il […], “lungi dal chiedere il versamento della somma a suo tempo concordata per la cessione, invocava la sentenza n. 5-1980 della Corte Costituzionale e revocava ogni propria adesione ed acquiescenza, formulando la richiesta di corresponsione di un giusto prezzo”, i giudici d’appello hanno affermato che tale dichiarazione non può interpretarsi che come rifiuto di accettare il corrispettivo pattuito, anche perché siffatto significato è confermato dal tenore della seconda lettera, nella quale il […] aveva precisato che “la somma precedentemente offerta poteva costituire solo un acconto, dando, comunque, al Comune il termine di 15 giorni per versarla a tale titolo”.
Dall’interpretazione di tali missive la Corte milanese ha fatto discendere le seguenti considerazioni: a) – in primo luogo, la seconda lettera non può giuridicamente qualificarsi diffida ad adempiere, in quanto il […] aveva modificato il prezzo contenuto nel contratto stipulato; b) – in secondo luogo, di fronte al rifiuto del creditore di accettare la prestazione, ogni attività destinata a sollecitare la sua collaborazione sarebbe stata superflua ed irrilevante: in particolare, il ricorso al procedimento di messa in mora del creditore ex art. 1206 ss. cod. civ. (dalla cui omissione i giudici di primo grado avevano fatto discendere l’inadempimento del Comune), oltre ad essere, in linea generale, uno strumento lasciato alla facoltà del debitore, si sarebbe rivelato, nella specie, “inidoneo a sanzionare una condotta del creditore (il rifiuto della prestazione con i riflessi liberatori per il debitore), poiché costui (analogamente a quanto avviene a norma dell’art. 1219, 2 comma n. 2 C.C. per il debitore) ben poteva ritenersi – in seguito al suo comportamento – già versate in mora ex re”; c) – infine, con la prima lettera dell’aprile 1980, il […], pur affermando che era scaduto il termine entro il quale avrebbe dovuto essergli versata la somma pattuita, non si era doluto affatto del ritardo, ma aveva preteso di mutare radicalmente le condizioni della convenzione conclusa con il Comune.
La Corte, dopo aver ritenuto l’insussistenza dell’inadempimento del Comune e rigettato, conseguentemente, la domanda di risoluzione proposta dal […], ha concluso, affermando che “ogni altro aspetto della causa rimane così assorbito”.
Avverso tale decisione […] ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi di censura, illustrati con memoria. Resiste, con controricorso, illustrato con memoria, il Comune di […], che ha anche spiegato un motivo di ricorso incidentale.

MOTIVI DELLA DECISIONE
2.1. Con il primo motivo (con cui deduce: “Violazione degli artt.1219, 1362, 1366 e 1429 cod. civ., in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.”), il ricorrente sostiene che la Corte milanese avrebbe errato nel qualificare le lettere dell’aprile e del novembre 1980, come dichiarazione anticipata di non voler adempiere, e nel ritenerlo, quindi, in mora “ex re”.
In particolare, il […] afferma che – siccome egli aveva, sia pure erroneamente, ma in buona fede, ritenuto che, in conseguenza della sentenza della Corte Costituzionale n. 5 del 1980, gli spettasse un’indennità maggiore di quella precedentemente pattuita con il Comune – nelle sue dichiarazioni farebbe difetto l’elemento psicologico del dolo, con la conseguenza che, “alla stregua di un’interpretazione secondo buona fede (art. 1366 cod. civ.), le dichiarazioni di cui si tratta non potevano essere ricondotte nell’ambito dell’art. 1219 comma 2 n. 2 cod. civ., trattandosi dell’esercizio putativo di un diritto”.
D’altro canto, aggiunge il ricorrente, che egli non avesse inteso, con le predette lettere, mutare unilateralmente le condizioni contrattuali, sarebbe dimostrato dal fatto che nell’atto introduttivo del giudizio la domanda di risoluzione sarebbe fondata unicamente sul lamentato inadempimento del Comune al pagamento del prezzo pattuito, senza fare il minimo riferimento alle richieste di revisione del corrispettivo, da ritenersi, quindi, del tutto abbandonate.
Con il secondo motivo (con cui deduce: “Violazione degli artt. 1218, 1453, 1455, 1175, 1206 ss. cod. civ., in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.; omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.”), il ricorrente – dopo aver premesso che costituiscono circostanza incontestate sia l’autorizzazione, data dal […] al comune, ad occupare il terreno, sia la realizzazione sul terreno occupato dell’opera pubblica; e dopo aver ricordato che, a fronte della domanda giudiziale di risoluzione per inadempimento, il Comune aveva semplicemente resistito, chiedendo il rigetto delle domande e mostrando, in tal modo, di voler mantenere in vita il contratto – sostiene che i giudici d’appello avrebbero omesso di valutare, in primo luogo, se la domanda del […] non potesse valere come atto idoneo a mettere in mora il Comune, con la conseguenza che questo avrebbe dovuto adempiere alla prima udienza di comparizione, o comunque senza indugio; e, in secondo luogo, se comunque un inadempimento del Comune, in ipotesi insussistente fino alla domanda di risoluzione, non fosse sorto per effetto della stessa scelta giudiziale di conservare il contratto e non fosse diventato grave in corso di giudizio, a causa del suo perdurare per oltre dieci anni.
2.2 Con l’unico motivo di ricorso incidentale (con cui deduce: “Violazione dell’art. 1453 e 1454 C.C., in relazione all’art. 360 n.3 C.P.C., pronunzia ultra petita; omessa motivazione”), il Comune di […] si duole del fatto che la sentenza, pur avendo constatato che il […] era già receduto dal contratto (con le predette lettere dell’aprile e del novembre 1990), abbia poi dato risposta alla domanda di risoluzione senza ritenerla inammissibile, dal momento che, sarebbero state violate le norme disciplinatrici della risoluzione, l’applicazione delle quali presupporrebbe un contratto ancora in vita; e si duole, altresì, del fatto che la decisione impugnata avrebbe giudicato “ultra petita”, non limitandosi a pronunciare sulla richiesta di risoluzione ex art. 1454 cod. civ., ma interpretando la domanda dell’attore, senza motivazione, come contenente anche una richiesta di risoluzione ex art. 1453 cod. civ. 2.3. Il ricorso principale merita accoglimento, mentre deve essere rigettato quello incidentale (previa loro riunione, ex art. 335 cod. proc. civ., in quanto proposti contro la stessa sentenza).
2.3.1. È indispensabile porre in evidenza, in limine, i fatti incontestati fra le parti, quali emergono sia dalla decisione impugnata, sia dagli atti difensivi.
A) È certo, innanzitutto, che, a seguito dell’inserimento, da parte del Comune di […], di un’area di proprietà del […] nel progetto di realizzazione di un parco pubblico, debitamente approvato, il ricorrente principale comunica per iscritto all’Ente la propria disponibilità alla cessione bonaria dell’area stessa.
B) È incontestato, in secondo luogo, che il Comune delibera l’acquisizione dell’area, la corresponsione al […] della somma di Lit. 35.267.463, senza fissazione di termine, e la successiva stipula dell’atto notarile di trasferimento della proprietà.
C) È pacifico, ancora, che, a seguito dell’adozione di questa formale deliberazione, in forza di autorizzazione scritta del […], il Comune occupa l’area e realizza l’opera pubblica progettata.
D) È certo, infine, che la somma di Lit. 35.267.463 non è mai stata ne’ offerta in pagamento, ne’ effettivamente corrisposta dal Comune al […].
Ciò posto, al fine di delimitare rigorosamente il “thema decidendum”, è opportuno sottolineare che ambedue le parti concordano, in primo luogo, sul fatto che, a seguito dei comportamenti dianzi ricordati, le stesse hanno concluso un accordo, una convenzione o un contratto (giuridicamente qualificato siccome “preliminare di cessione volontaria”, sulla scorta di quanto osservato dai giudici di primo grado); e, in secondo luogo, che la materia controversa attiene, per un verso, alla sussistenza, o non, dell’inadempimento, da parte del Comune, dell’obbligo, pacificamente sullo stesso gravante, di pagamento della somma formalmente deliberato dal Consiglio comunale (ricorso principale); e, per l’altro, sull’effettiva proposizione, da parte del […], della domanda (costitutiva) di risoluzione per inadempimento (ricorso incidentale).
Non spetta certamente a questa Corte, in sede di legittimità, ricostruire i fatti o qualificarli giuridicamente; sicché, deve ritenersi per certo che la fattispecie attiene alla risoluzione – nell’ambito di un procedimento espropriativo di un’area per la realizzazione di parco pubblico – di un accordo preliminare di cessione volontaria del bene espropriando, intervenuto fra privato e Comune, per preteso inadempimento, da parte di quest’ultimo, dell’obbligo di pagamento del corrispettivo concordato. I limiti istituzionali posti al giudizio di legittimità e quelli derivanti sia dalla “ratio” della decisione impugnata, sia dal contenuto delle censure formulate dalle parti, impongono, pertanto, una “thema decidendum” rigorosamente delimitato ad aspetti, per così dire, “privatistici”.
2.3.2. Il ricorso incidentale, ancorché proposto subordinatamente all’accoglimento di quello principale, deve essere preliminarmente esaminato e deciso per evidenti ragioni di pregiudizialità, postoché con esso si censura la sentenza impugnata, laddove la stessa avrebbe, erroneamente e senza motivazione, ritenuto proposta dal […], oltreché la domanda di accertamento della risoluzione di diritto ex art. 1454 cod. civ., anche quella costitutiva ex art.1453 cod. civ.; nonché laddove avrebbe, contraddittoriamente, applicato la disciplina sulla risoluzione (sia pure per affermare l’insussistenza del presupposto dell’inadempimento), nonostante avesse precedentemente accertato lo scioglimento del contratto per il recesso unilaterale del […] operato mediante le lettere dell’aprile e del novembre 1980.
Questo secondo profilo è palesemente infondato, in quanto – come risulterà ancor più chiaro dall’analisi del ricorso principale – la Corte milanese ha interpretato le lettere “de quibus”, non già come espressioni d’esercizio della facoltà di recesso dal contratto, bensì come rifiuto anticipato del […] di ricevere il corrispettivo della cessione, con ciò, ovviamente, seppur implicitamente, considerando il contratto stesso efficace fra le parti.
E ciò, non senza sottolineare, per un verso, che nell’intera motivazione della decisione impugnata non v’è alcun accenno che possa far ritenere un accertamento, sia pure implicito, di recesso del […] dal contratto; e per l’altro, che il recesso unilaterale, lungi dal costituire una facoltà “normale” attribuita alle parti contraenti, presuppone, invece, a norma dell’art. 1372 comma 1 e 1373 comma 1 cod. civ., che essa sia specificamente ed espressamente attribuita per legge o per clausola contrattuale (cfr. Cass. n. 987 del 1990, 8776 del 1987, 3626 del 1989, 1609 del 1994); mentre, nella specie, dalla decisione impugnata non si trae alcun elemento circa l’esistenza di una clausola siffatta. Quanto al primo profilo, esso è parimenti infondato: sia perché, secondo un orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio (cfr. sent. n. 2423 del 1987), non può ravvisarsi ultrapetizione nella pronuncia del giudice che, richiesto di dichiarare la risoluzione ex art. 1454 cod. civ., esamini la domanda ai sensi dell’art. 1453 stesso codice in base al principio secondo il quale nella domanda maggiore e più ampia è compresa la minore; sia, comunque, perché, dall’esame degli atti consentito alla Corte dal denunziato vizio “in procedendo” – emerge chiaramente che la domanda del […] (“dichiarare l’inadempimento del Comune di […] e per l’effetto dichiarare risolto l’accordo….”) era fondata non soltanto sulla diffida ad adempiere del novembre 1980 rimasta senza effetto, ma anche, sostanzialmente, sul preteso inadempimento del Comune, consistente nel mancato pagamento del corrispettivo della cessione entro un determinato termine che si deduceva convenuto al dicembre 1979; ed emerge, altresì, che il Comune convenuto aveva contestato, nel merito, la sussistenza del denunziato inadempimento.
2.3.3. La “ratio decidendi” della sentenza impugnata può essere così sintetizzata: la domanda di risoluzione per inadempimento del Comune di […] (mancato pagamento del corrispettivo della cessione), proposta dal […] ex art. 1453 cod. civ., non può essere accolta, perché non sussiste il denunciato inadempimento: postoché, infatti – in assenza di un termine per l’adempimento, contrattualmente convenuto a carico del Comune – le lettere dell’aprile e del novembre 1980 debbono interpretarsi come rifiuto anticipato del creditore di ricevere la prestazione, siffatto comportamento, giuridicamente qualificabile – in analogia a quanto disposto, per il debitore, dall’art. 1219 comma 2 n. 2 cod. civ. – siccome “mora ex re” del creditore medesimo, rende “superflua ed irrilevante ogni attività destinata a sollecitare la collaborazione del creditore nel ricevere la prestazione”.
La decisione della Corte milanese appare affetta da un duplice vizio.
Per apprezzare appieno la sussistenza di tali vizi, di seguito evidenziati, pare utile ribadire, in limine, quanto già dianzi rilevato (cfr. supra prf. 2.3.1), e cioè, in particolare, che, nel periodo in cui il […] inviò al Comune di […] le lettere “de quibus” (aprile – novembre 1980), le parti erano pacificamente astrette da vincolo contrattuale (non importa, in questa sede, se di natura “preliminare o definitiva”) di cessione volontaria del bene espropriando; che su tale bene, occupato dal Comune con il consenso del proprietario, era già stata realizzata l’opera pubblica; e che il corrispettivo della “cessione” convenuto dalla parti – senza espressa prefissione di termine per il suo pagamento – non era stato ancora nemmeno “offerto” dal Comune. Orbene, l’affermazione della Corte di Milano – secondo cui le lettere dell’aprile e novembre 1980 debbono interpretarsi, puramente e semplicemente, come rifiuto, da parte del […], di accettare il corrispettivo pattuito – è contraddetta da alcune espressioni, contenute nelle predette lettere e testualmente evidenziate nella motivazione della sentenza impugnata: infatti, i giudici d’appello sottolineano che, nella lettera dell’aprile 1980, il […] “invocava la sentenza n. 5-1980 della Corte Costituzionale…. formulando la richiesta di corresponsione di un giusto prezzo”; e che, nella successiva del novembre dello stesso anno, il ricorrente “precisava che la somma precedentemente offerta poteva costituire solo un acconto, dando, comunque, al Comune il termine di 15 giorni per versarla a tale titolo”.
Appare, dunque, intimamente contraddittoria la motivazione della decisione impugnata, nella misura in cui la mera riduzione del senso delle lettere del […] ad un secco ed inequivocabile rifiuto di ricevere la prestazione è inconciliabile con il significato “letterale” delle espressioni usate dallo stesso – come riprodotte dai giudici di merito – ed in particolare con la richiesta di pagamento della somma (originariamente) pattuita, entro un certo termine, ancorché a titolo di “acconto”.
Oltre a siffatta, intrinseca contraddittorietà, la motivazione della decisione impugnata relativamente all’interpretazione delle lettere più volte menzionate – è palesemente insufficiente, per un verso, in quanto omette del tutto di inserirne il significato nella concreta ed incontestata vicenda contrattuale (come dianzi evidenziata), e, per l’altro, in quanto siffatta omissione attiene anche allo svolgimento – contestuale alla redazione delle lettere “de quibus” – della vicenda legislativa in tema di determinazione dell’indennità di espropriazione per le aree fabbricabili successiva alla nota sentenza della Corte Costituzionale n. 5 del 1980: infatti, la disciplina (vigente all’epoca della redazione della lettera del novembre 1980, e poi dichiarata incostituzionale con la altrettanto nota sentenza n. 223 del 1983), introdotta dalla legge 29 luglio 1980 n. 385 (norme provvisorie sulla indennità di espropriazione di aree edificabili, nonché modificazioni di termini previsti dalle leggi 28 gennaio 1977 n. 10, 5 agosto 1978 n. 457 e 15 febbraio 1980 n. 25), statuiva, fra l’altro, all’art. 1 comma 3, che nel caso di cessione volontaria di cui all’art. 12 L. n. 865 del 1971 e successive modificazioni, la maggiorazione del 50 per cento trova(va) applicazione sia sull’indennità corrisposta a titolo di “acconto”, e soggetta a “conguaglio” (in base ai criteri determinandi da “apposita legge sostitutiva delle norme dichiarate illegittime…. da emanarsi entro un anno”: cfr. art. 1 commi 1 e 2), sia su quella definitiva. D’altro canto – e qui si annida il secondo vizio della decisione impugnata – ove anche, in ipotesi – mediante un corretto procedimento ermeneutico delle lettere “de quibus”, si pervenisse a qualificarle come mero rifiuto preventivo, del […] di ricevere il corrispettivo pattuito, non per questo ne discenderebbe, automaticamente (“mora ex re”) l’insussistenza dell’inadempimento del Comune, posto a base della domanda di risoluzione proposta dal ricorrente.
Non è, innanzitutto, corretto, sul piano dogmatico e su quello dell’analisi del diritto positivo, porre un rapporto analogico fra “mora ex re” del creditore e “mora ex re” del debitore. Infatti, gli istituti della “mora credendi” e della mora “debendi” rispondono a scopi radicalmente diversi, dal momento che il primo tende alla liberazione del debitore dall’obbligo, sullo stesso gravante, di adempiere la prestazione “invito creditore” e, quindi, all’estinzione del rapporto obbligatorio; mentre il secondo mira all’effetto contrario della “perpetuatio obligationis” (art. 1221 cod. civ.);
inoltre, mentre il primo istituto presuppone una situazione di sostanziale (art. 1220 cod. civ.) o formale (artt. 1208, 1209, 1216, 1217 cod. civ.) “non inadempimento” del debitore; il secondo implica, invece, proprio l’inadempimento del medesimo. Ed allora, non è neppure ipotizzabile, sul piano dogmatico, una “mora ex re” del creditore, se si conviene sul rilievo – dipendente dalla disciplina positiva – secondo cui, perché possa verificarsi la “mora credendi”, è sempre necessario (oltreché l’assenza di un motivo legittimo per il rifiuto della prestazione da parte del creditore o per la sua mancata cooperazione all’adempimento del debitore) che quest’ultimo proceda all’offerta della prestazione nei modi indicati dagli artt.1208, 1209, 1216, 1217 cod. civ. -. Affermare l’ipotizzabilità di una “mora ex re” del creditore, implicherebbe la negazione del presupposto indispensabile per la sussistenza della “mora credendi”, vale a dire l’offerta della prestazione da parte del debitore. In altri termini, e con riferimento al caso di specie, nell’ipotesi in cui (come nella specie, se si giungesse alla qualificazione delle più volte citate lettere del […] siccome rifiuto anticipato di ricevere la prestazione) il creditore, prima della scadenza del termine (come nella specie, nella quale, incontestatamente, il termine per il pagamento del corrispettivo della cessione non era stato esplicitamente convenuto), ovvero prima di qualsiasi offerta della prestazione da parte del debitore (che, nella specie, è incontestatamente mancata), dichiarasse che non intende ricevere la prestazione, non per questo verserebbe, automaticamente) in una sorta di inammissibile “mora ex re”; mentre, invece, un comportamento siffatto varrebbe, semmai, soltanto ad esimere il debitore dal procedere alla c.d. “offerta ordinaria” ex art. 1220 cod. civ., legittimandolo a passare immediatamente a quella “solenne”, ma non già ad esimerlo, “tout court”, dall’offerta della prestazione.
Insomma, in tanto il ritardo del creditore-titolare della pretesa alla prestazione da parte del debitore, obbligato ad adempierla – ha rilievo giuridico, in quanto la prestazione stessa sia stata “offerta”. Affermare, invece, come la Corte milanese, che il mero rifiuto anticipato del creditore di ricevere la prestazione (ovvero, la sua inerzia nella previa cooperazione, quando prevista o necessaria, all’adempimento del debitore) è sufficiente, anche in assenza di qualsiasi offerta del debitore stesso, a costituirlo in mora (“ex re”, in quanto comportamenti siffatti concreterebbero un ritardo giuridicamente rilevante di per sè), significa, in definitiva, invertire le situazioni giuridiche soggettive del rapporto obbligatorio; trasformare il titolare del diritto di credito in soggetto “obbligato” a ricevere la prestazione (onde l’errata analogia con il disposto dell’art. 1219 comma 2 n. 2 cod. civ.) e svuotare, quindi, di contenuto l’obbligo di adempimento del debitore, con conseguente impossibilità giuridica di predicare, in ipotesi siffatte, l’inadempimento di quest’ultimo.
Le considerazioni che precedono, d’altro canto, si pongono su una linea interpretativa già segnata da alcune pronunce di questa Corte: la sentenza n. 3843 del 1969 ha affermato, infatti, che, nell’ipotesi in cui la prestazione del debitore abbia per oggetto, come nella specie, denaro, “gli effetti della mora del creditore – compreso fra questi l’obbligo del risarcimento dei danni si verificano dal giorno dell’offerta, che, a seconda dei casi, deve essere reale o per intimazione, ma che è necessaria in ogni caso, anche in quello in cui la consegna deve avvenire al domicilio del creditore, ossia anche quando, a costituire in mora il debitore, altro non occorre che la scadenza del termine, e vale, perciò, il principio “dies interpellat pro homine”; e la sentenza n. 809 del 1986 ha affermato che “il dovere del creditore di cooperare, quando necessario, all’adempimento da parte del debitore si configura … come un dovere strumentale all’adempimento dell’obbligazione e non assurge affatto, anch’esso, al rango di obbligazione costituente oggetto di un rapporto avente per soggetto attivo il debitore della prestazione cui è correlato il dovere di cooperazione e come soggetto passivo l’obbligato a tale cooperazione” (cfr. anche Cass. n. 1981 del 1983).
3. In conclusione, i vizi che inficiano la decisione impugnata consistono, per un verso, nella contraddittorietà e nell’insufficienza della motivazione circa la qualificazione giuridica – siccome mero rifiuto di ricevere la prestazione – delle più volte citate lettere del […] (qualificazione che attiene ad un punto decisivo della controversia, postoché una diversa, o più integrata, interpretazione delle lettere “de quibus”, ad esempio, come atti anche di costituzione in mora del debitore, sarebbe idonea a fondare una decisione diversa da quella adottata in punto sussistenza, o non, dell’inadempimento del Comune); e, per l’altro, nell’affermazione dell’errato principio giuridico, secondo cui il rifiuto anticipato del creditore di ricevere la prestazione vale a costituirlo in “mora ex re”, rendendo irrilevante l’offerta del debitore.
4. All’accertamento di tali vizi conseguono l’annullamento della decisione impugnata ed il rinvio della causa, anche per la regolazione delle spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano […]