Corte di Cassazione, sez. 2, n. 20143, dep. 03.09.2013

Il diritto all’azione di riduzione ha natura potestativa (art.553 cod. civ. e ss). Alla morte del de cuius, il legittimario leso può rinunciare all’azione. L’abdicazione può avvenire anche in modo tacito. In questo caso, deve ricorrere un comportamento c.d. concludente, inequivoco ed incompatibile con la volontà di far valere il diritto. La sentenza della S. C. di seguito riportata chiarisce che, oltre alla rinuncia espressa, in determinate condizioni può configurarsi una rinuncia tacita.

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2. – Con l’unico motivo (omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 553, 554, 555, 556, 563, 713 e 2909 cod. civ.) si premette che la sentenza n. 149/96 riguardava un giudizio di scioglimento della comunione ereditaria ed una riduzione parziale proposta dal solo coerede […], nei limiti occorrenti alla reintegrazione della sua quota, laddove il secondo giudizio ha ad oggetto una domanda di riduzione di quella parte della donazione non coinvolta nella prima decisione.
Secondo il ricorrente, tra le due azioni, aventi finalità diverse, non sarebbe ipotizzabile ne’ un contrasto di giudicati ne’ una preclusione da giudicato. Infatti, rispetto all’azione di divisione ereditaria, tendente allo scioglimento della comunione ereditaria nei confronti di tutti i partecipanti alla comunione stessa, con contestuale assegnazione delle porzioni, l’azione di riduzione mirerebbe, indipendentemente dalla divisione, al soddisfacimento dei diritti dei legittimari lesi nei confronti unicamente di coloro che hanno beneficiato delle disposizioni lesive di tali diritti. Tra le due azioni, di riduzione e di divisione, non sussisterebbe identità nè della causa petendi, trattandosi di domande basate su due diritti diversi, ne’ del petitum, rivolto, in un caso, allo scioglimento della comunione, e, nell’altro, all’inefficacia parziale dell’atto di donazione.
Nè vi sarebbe preclusione derivante dal positivo esercizio dell’azione di riduzione da parte di altro legittimario, […], giacché il diritto di agire in riduzione ha natura di diritto potestativo e spetta a ciascuno dei legittimari. 3. – Il motivo è scrutinabile nel merito, non essendo soggetto, ratione temporis, al regime del quesito di diritto, introdotto dall’art. 366-bis cod. proc. civ. con riguardo ai ricorsi avverso provvedimenti pubblicati con decorrenza dal 2 marzo 2006. È pertanto da rigettare l’eccezione preliminare di inammissibilità sollevata dalla difesa dei controricorrenti.
4. – Nel merito, la doglianza articolata con il motivo è fondata. Occorre premettere che la domanda di divisione si propone quando, costituitasi la comunione ereditaria in seguito alla apertura della successione legittima o testamentaria, gli eredi chiedono lo scioglimento e le conseguenti assegnazione delle porzioni o attribuzione dei beni. Poiché anche la divisione comporta la collazione e l’imputazione (art. 724 cod. civ.), carattere precipuo della domanda di divisione è che, con questa, nessun erede deduce di aver subito una lesione della quota di riserva: in altre parole, gli eredi tenuti alla collazione ed alla imputazione non affermano che quanto dal defunto, direttamente o indirettamente, è stato donato abbia ecceduto la disponibile. Il petitum, pertanto, consiste nel conseguimento della quota ereditaria, mentre la causa petendi è data dalla semplice qualità di erede legittimo o testamentario. L’azione di riduzione, invece, si propone nel caso in cui le disposizioni testamentarie o le donazioni siano eccedenti la quota di cui il defunto poteva disporre e ha come scopo, anzitutto, la determinazione dell’ammontare concreto della quota di legittima: vale a dire, della quota di cui il defunto poteva disporre e di stabilire come ed in quale misura le singole disposizioni testamentarie o le donazioni debbano ridursi per integrare la legittima. Essendo stabilito dalla legge il diritto del legittimario ad una determinata quota, con l’azione di riduzione egli mira a conseguire in concreto tale diritto e cioè ad accertare (costitutivamente), nei confronti della successione che lo riguarda, l’ammontare della quota di riserva e, quindi, della lesione che ad essa hanno apportato le disposizioni del de cuius, nonché le modalità e l’ammontare delle riduzioni di dette disposizioni lesive. Contestualmente, l’attuazione della reintegrazione in concreto implica la proposizione delle istanze di restituzione.
Nell’azione di riduzione, quindi, assumono una fisionomia a sè tanto il petitum, quanto la causa petendi. Il primo consiste nel conseguimento della quota di riserva, previa determinazione di essa mediante il calcolo della disponibile e la susseguente riduzione delle disposizioni testamentarie o delle donazioni compiute in vita dal de cuius; la seconda è data dalla qualità di erede legittimario e dalla asserita lesione della quota di riserva. Nel petitum e nella causa petendi dell’azione di riduzione sono presenti elementi ulteriori e più specifici di quelli costituenti il petitum e la causa petendi della domanda di divisione.
Da questo quadro ricostruttivo, i cui tratti sono costantemente delineati nella giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. 2, 16 novembre 2000, n. 14864; Cass., Sez. 2, 23 gennaio 2007, n. 1408;
Cass., Sez. 2, 13 gennaio 2010, n. 368), deriva che è da escludere che il giudicato sullo scioglimento della comunione ereditaria in seguito all’apertura della successione legittima, nella specie limitato al relictum essendo stato il coerede donatario dispensato dalla collazione (cfr. Cass., Sez. 2, 6 marzo 1980, n. 1521), comporti un giudicato implicito sulla insussistenza della lesione della quota di legittima, per effetto della donazione compiuta in vita dal de cuius, in capo a ciascun coerede condividente. Il giudicato implicito postula infatti che tra la questione decisa e quella che si vuole tacitamente risolta sussista un rapporto di dipendenza indissolubile, che determini l’assoluta inutilità di decidere la seconda questione; esso, pertanto, non è configurabile nella specie, in considerazione dell’autonomia e della diversità dell’azione di divisione ereditaria rispetto a quella di riduzione e del fatto che il “meno”, costituito dalla domanda di divisione, non contiene “il più”, rappresentato dalla proposizione della domanda di riduzione.
Ne consegue che il coerede, convenuto nel giudizio di scioglimento della comunione ereditaria, può, dopo il passaggio in giudicato della sentenza di divisione, esperire l’azione di riduzione della liberalità compiuta in vita dal de cuius nei confronti di altro coerede dispensato dalla collazione, lamentando l’eccedenza della donazione rispetto alla disponibile e chiedendo la reintegrazione della quota di riserva, con le conseguenti restituzioni. È bensì vero che, morto il de cuius, il legittimario leso può rinunciare all’azione di riduzione delle disposizioni lesive della sua quota di riserva, ma è necessario, a tal fine, che egli manifesti positivamente la volontà di rinunciare al suo diritto di conseguire l’integrazione spettantegli. Ove manchi una rinuncia espressa in tal senso, si può giungere a ritenere l’esistenza di una rinuncia tacita solo in base ad un comportamento inequivoco e concludente del soggetto interessato, che sia incompatibile con la volontà di far valere il diritto alla reintegrazione. Ma è da escludere che la mancata costituzione nel giudizio di scioglimento della comunione ereditaria promosso da altro coerede esprima l’inequivoca volontà della parte convenuta contumace di rinunciare a far valere, in separato giudizio, il suo diritto alla reintegrazione della quota di eredità riservatale per legge (cfr. Cass., Sez. 2, 7 maggio 1987, n. 4230; Cass., Sez. 2, 21 maggio 2012, n. 8001). A ciò aggiungasi che il diritto alla reintegrazione della quota, vantato da ciascun legittimario, è autonomo nei confronti dell’analogo diritto degli altri legittimari, non essendo espressione di un’azione collettiva spettante complessivamente al gruppo dei legittimari (Cass., Sez. 2, 11 luglio 1969, n. 2546; Cass., Sez. 2, 13 dicembre 2005, n. 27414; Cass., Sez. 2, 20 dicembre 2011, n. 27770); sicché il giudicato sull’azione di riduzione promossa vittoriosamente da uno di essi – se non può avere l’effetto di operare direttamente la reintegrazione spettante ad altro legittimario che abbia preferito, pur essendo presente nel processo di divisione contemporaneamente promosso, rimanere per questa parte inattivo (Cass., Sez. 2, 28 novembre 1978, n. 5611) – neppure preclude a quest’ultimo di agire separatamente, nell’ordinario termine di prescrizione, con l’azione di reintegrazione della sua quota di riserva.
Questa conclusione è conforme al principio secondo cui, nel caso di pluralità di legittimari, ciascuno ha diritto ad una frazione della quota di riserva e non già all’intera quota, o, comunque, ad una frazione più ampia di quella che gli spetterebbe se tutti gli altri facessero valere il loro diritto e, quindi, ciascun legittimario può ottenere soltanto la parte a lui spettante della quota di riserva e non pure quella di coloro che sono rimasti inattivi o che hanno rinunciato all’azione di riduzione (Cass., Sez. 2, 22 ottobre 1975, n. 3500; Cass., Sez. 2, 28 novembre 1978, n. 5611).
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