Corte di Cassazione, Sez. 2, Sentenza n. 10614 del 1990

[…]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

[…] nel giugno 1982 conveniva innanzi al tribunale di Modena la figlia […], chiedendo nei suoi confronti la revoca, per ingratitudine, della donazione dell’appartamento posto al quinto piano dell’edificio sito in Modena, via Verdi n. 2, che egli aveva effettuata mediante atto notar […]. Assumeva, a prova della dedotta ingratitudine, che la figlia si era resa colpevole di ingiuria grave nei suoi riguardi, tenendo un comportamento per lui gravemente offensivo, consistente nella palese cattiva volontà dimostrata negli studi tradottasi in insuccessi scolastici e nella interruzione del corso professionale frequentato nella sua condotta di vita riprovevole, incontrollata e improduttiva; nell’uso di sostanze stupefacenti, divenuto col tempo una vera e propria tossicodipendenza, sfociata in un processo penale, con imputazione anche per concorso in spaccio; nell’aver guidato un’autovettura senza aver conseguito la relativa abilitazione; reato accertato in seguito ad un grave incidente stradale, concluso con notevoli lesioni riportate dalla stessa guidatrice. La convenuta contestava la fondatezza della domanda, che l’adito tribunale respingeva.

A seguito di impugnazione dell’attore la Corte d’Appello di Bologna, con la sentenza ora denunciata, del 12 aprile – 1 ottobre 1985, confermava la gravata pronuncia, condannando l’appellante al pagamento delle ulteriori spese giudiziali. Osservava che la revoca della donazione per ingratitudine, sotto il profilo dell’ingiuria grave, richiede un’azione consapevole e volontaria del donatario, direttamente volta contro il patrimonio morale del donante. Solo in tal caso essa può infatti essere considerata come manifestazione di un sentimento di avversione nei confronti di lui, riprovevole e idonea a giustificare il pentimento rispetto al compiuto atto di liberalità. Per contro, tutti i comportamenti che, pur potendo provocare dolorose reazioni nell’animo del donante, non sono tuttavia volti direttamente a colpirlo ma hanno quale prima vittima lo stesso agente, sono irrilevanti quanto al tema della presente controversia. […] ha proposto ricorso contro detta sentenza, in base a tre mezzi di cassazione.

[…] resiste con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con i primi due mezzi – da esaminare congiuntamente essendo volti allo stesso obiettivo giuridico mediante argomenti complementari – il ricorrente denuncia:

a) l’insufficiente motivazione circa la ricostruzione della condotta della donataria, dedotta come causa petendi dell’azione di revocazione (art. 360 n. 5 c.p.c.);

b) la violazione o falsa applicazione dell’art. 801 c.c. e contraddittoria di motivazione.

Lamenta che la Corte d’appello non sia soffermata sui fatti addotti a sostegno della domanda, nonostante che la ricostruzione della condotta della donataria fosse indispensabile per individuare la “direzione intenzionale della condotta stessa”. Apoditticamente sarebbe stato ritenuto che la menzionata direzione intenzionale non investisse la figura del padre. IL giudice di secondo grado avrebbe “finto di non accorgersi” che era stata articolata dall’attore una prova testimoniale, di cui non ha fatto alcuna menzione. inoltre, “al fine di pervenire rapidamente al rigetto del gravame”, si sarebbe sottratto “all’ingrata fatica della esegesi”, dando fondo “al pressapochismo ed al confusionismo concettuale”, che caratterizzerebbe tutta la pronuncia. La Corte territoriale – dopo aver premesso che solo la consapevolezza e la volontà della donataria di ledere il patrimonio morale del donante sono suscettive di manifestare un sentimento di avversione nei confronti di lui, legittimando il pentimento medesimo – avrebbe eluso il dilemma, giungendo ad una conclusione priva di logica giuridica. L’asprezza della critica non riesce a calare, anzi indirettamente la conferma, la totale inconsistenza giuridica della formulata tesi, peraltro di non agevole individuazione.

La cosidetta revocazione “per ingratitudine” della donazione, prevista dall’art. 801 c.c., ricorre, tra l’altro, allorché il donatario “si è reso colpevole di ingiuria grave verso il donante”; le altre ipotesi di revocazione delineate nella citata norma e quella per sopravvenienza di figli (art. 800 c.c.) sono estranee alle esigenze del presente giudizio.

Va premesso che tra il concetto morale di ingratitudine e quello giuridico preso in considerazione dalla norma in esame, non v’è coincidenza: non tutte la manifestazioni d’ingratitudine comportano la possibilità di revoca della donazione, ma soltanto quelle espressamente considerate dall’art. 801 c.c.. La definitività della donazione è la regola, la sua revocabilità l’eccezione. L’ingiuria grave, pur mutando il suo concetto dal diritto penale, prescinde, per la sua rilevabilità, dal magistero penale ed è piuttosto connesso alla valutazione sociale. Essa, pertanto, deve rivolgersi contro il patrimonio morale del donante in modo diretto – come si evince dallo stesso tenore letterale della norma – e la sua gravità va valutata non solo oggettivamente, ossia dall’entità del fatto, a anche, e soprattutto, come manifestazione di perversa animosità dell’agente verso il donante. E ciò perché la revoca della donazione si giustifica come adeguata reazione alla manifestazione altrui di chiara e radicata ingratitudine.

D’altra parte tale interpretazione è confermata dalle radici storiche dell’istituto. La configurazione della revoca della donazione per ingratitudine, che discende dal diritto romano, ha trovato una definitiva disciplina nel (1) codice civile abrogato. Orbene al n. 2 dell’art. 955 del codice francese è previsto il caso del donatario che “s’est rendu coupable envers lui (del donante) de services, delits ou injures graves”.

La corte bolognese si è correttamente attenuta ai ricordati principi giuridici, che il ricorrente dapprima mostra di accettare ma poi, contraddicendosi, respinge, dichiarando di non volerli commentare per non essere riuscito a capirli. Tuttavia il concetto è chiaro ed esprimibile concisamente. Il rapporto tra padre e figlio è connotato da un tale vincolo biologico ed affettivo, che la sorte del figlio è certamente destinata a influenzare, positivamente o negativamente, la vita del padre. Ne deriva che, se il figlio interrompe gli studi, tiene una condotta inidonea alla necessaria preparazione del proprio avvenire e se nella progressiva degradazione, diventa tossicodipendente e commette anche reati, provoca nel genitore profondo dolore, un continuo stato d’ansia ed un sentimento di profonda ed accorata delusione. Tuttavia tali sentimenti non giustificano la revoca della donazione elargita dal padre in epoca anteriore al delinearsi della configurata situazione, poiché la condotta del figlio non costituisce diretta aggressione del patrimonio che, come manifestazione d’ingratitudine, giustifica la revoca dell’atto di liberalità. Sì che deve escludersi, nell’ipotesi considerata, la sussistenza di quella “grave ingiuria”, comportante la revoca della donazione.

Ciò posto, va ribadito che allorché dall’esposizione dei fatti dedotti dall’attore emerge con chiarezza che da essi non possono scaturire le conseguenze giuridiche da lui perseguite, il giudice del merito non è tenuto ad approfondirli ne’, tanto meno, a svolgere su di essi qualsiasi attività istruttoria proposta, ma deve sollecitamente procedere alla definizione del giudizio. La doglianza relativa alla mancata ammissione dei mezzi di prova, poi, è inconsistente anche per un’altra ragione, che prescinde dalle esposte, pur decisive, considerazioni: il ricorrente si riferisce ad un non meglio precisato “incombente Testimoniale” ma non lo ha indicato e specificato onde il giudice di legittimità non potrebbe comunque stabilire dalla lamentata omissione possa scaturire la violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c., comportante la cassazione della sentenza impugnata; non avendo la possibilità di valutare l’indispensabile carattere decisivo, per la definizione della controversia, della parte pretermessa.

Con il terzo mezzo […] censura l’omessa motivazione riguardo alla richiesta di compensazione delle spese giudiziali, ma anche tale doglianza è palesemente infondata. Allorché il giudice, nel determinare l’onere delle spese, lo pone a carico della parte soccombente, implicitamente respinge la richiesta subordinata di questa volta alla loro compensazione, totale o parziale. E poiché tale eventuale compensazione dipende dall’esercizio di un potere tipicamente discrezionale affidato al giudice stesso, questi non è tenuto ad esporre le ragioni che lo hanno indotto ad esercitarlo negativamente. […]

(1) “codice francese, a cui si ispirava l’art. 1081 del”