[…]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
[…] con atto notificato il 20 settembre 1996 convenne la sorella […] davanti al Tribunale di Roma e, premesso che la congiunta a partire dal 1963 aveva cominciato a porre in essere nei suoi confronti un comportamento fortemente ostile, accusandolo di avere profittato dell’incapacità del fratello […] ed inducendone il tutore a denunciarlo per circonvenzione di incapace, domandò la revocazione per ingratitudine della donazione della nuda proprietà di un appezzamento di terreno in comune di […] da lui effettuata il 3 marzo 1979 in favore della medesima e del fratello […].
[…], costituitasi in giudizio, eccepì la decadenza dell’attore dal diritto esercitato, a norma dell’art. 802 c.c., essendosi estinto per inattività delle parti analogo giudizio da lui proposto nei suoi confronti con atto notificato il 20 gennaio 1989, e, nel merito, l’infondatezza della domanda, deducendo, altresì, che la donazione era stata l’esecuzione di altra verbale, o testamento nuncupativo, fatto in suo favore da una prozia, e chiese ed ottenne di chiamare in causa del fratello […].
Intervenne nel processo il chiamato in causa, assumendo la propria estraneità alla controversia, ed il Tribunale, con sentenza del 28 settembre 1999, accolse la relativa eccezione della convenuta e dichiarò […] decaduto dal diritto alla revocazione. La decisione, impugnata dall’attore e, in via incidentale, dalla convenuta quanto alla sua condanna al pagamento delle spese in favore del chiamato in causa, venne confermata il 18 maggio 2002 dalla Corte di Appello di Roma, che rigettò il gravame principale e dichiarò inammissibile quello incidentale.
Osservò il giudice di secondo grado, per quello che ancora rileva, che l’estinzione dell’anteriore processo iniziato dall’attore per la revocazione della donazione aveva determinato l’inidoneità della domanda introduttiva di quel giudizio ad impedire la sua decadenza dall’esercizio del diritto e che la sua proposizione dimostrava che egli già all’epoca aveva acquisito quella certezza del comportamento gravemente ingiurioso della donataria, da cui decorreva il termine annuale di decadenza, ed ai fini dell’osservanza di quest’ultimo nessuna rilevanza aveva l’essere perdurata la condotta gravemente ingiuriosa della donataria.
[…] è ricorso con tre motivi per la cassazione della sentenza e l’intimata […] ha resistito con controricorso notificato il 26 settembre 2003.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, denunciando la violazione dell’art. 801 c.c. ed art. 802 c.c., comma 1, e dell’art. 310 c.p.c., in relazione all’art.360 c.p.c., nn. 3 e 5, nonché la violazione dell’art. 3 Cost., e l’insufficiente e contraddittoria motivazione, il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata abbia negato alla domanda giudiziale di revocazione della donazione, da lui proposta nel processo anteriormente estinto per inattività delle parti, l’efficacia impeditiva della decadenza dal diritto, nonostante che espressamente l’art. 310 c.p.c., escluda che all’estinzione del processo segua anche quella dell’azione ed una interpretazione dell’art. 2645 c.c. che non sia in contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza, imponga l’applicazione del principio dell’effetto conservativo della domanda giudiziale anche nell’istituto della decadenza.
Il motivo è infondato.
La proposizione della domanda giudiziale è un evento idoneo ad impedire la decadenza da un diritto, non in quanto costituisca la manifestazione di una volontà sostanziale, bensì in quanto instaura un rapporto processuale diretto ad ottenere l’effettivo intervento del giudice ai fini di una pronuncia di merito.
Secondo un consolidato orientamento di questa Corte, l’inizio dell’azione giudiziaria non vale, pertanto, a sottrarre alla decadenza il diritto esercitato nel caso in cui il giudizio si estingua facendo venire meno il rapporto processuale instaurato (cfr.: Cass. civ., sez. 5^, sent. 8 giugno 2000, n. 7801; Cass. civ., sez. 1^, sent. 14 aprile 1994, n. 3505; Cass. civ., sez. 3^, sent. 9 marzo 1993, n. 2813), e detto principio non si pone in contrasto con l’istantaneità dell’effetto impeditivo ed il suo ricollegarsi al compimento di un solo atto ovvero con la non incidenza dell’estinzione del processo sull’azione, secondo la previsione contenuta nell’art. 310 c.p.c., comma 1, posto che la decadenza opera sul diritto e non sull’azione e che sia la mancata estinzione di quest’ultima e sia l’operatività dell’art. 2967 c.c. secondo il quale nei casi in cui la decadenza è impedita, il diritto rimane soggetto alle disposizione che regolano la prescrizione, postulano che il diritto medesimo sia ancora in vita.
Nè soccorre la tesi conservativa del diritto in caso di estinzione del processo il disposto dell’art. 310 c.p.c., comma 2, giacché la previsione in esso dell’inefficacia degli atti precedentemente compiuti non può essere arbitrariamente limitata ai soli loro aspetti processuali e non estesa anche a quelli sostanziali, fatte salve le specifiche deroghe stabilite in quella od in altre norme (vedi ad es.: art. 2945 c.c., comma 3). Non sono stati prospettati argomenti idonei a disattendere detto orientamento ed appare manifestamente infondato, altresì, il richiamo alla disparità di trattamento che dal principio deriverebbe alle parti in caso di estinzione del processo, escludendo l’art. 2964 c.c., l’estensione alla decadenza dell’effetto interruttivo della domanda giudiziale previsto dalle norme regolanti la prescrizione, atteso che tale disparità è giustificata dalla non omogeneità della natura e della funzione dei due istituti, trovando, la prescrizione, fondamento in una inerzia del titolare di un diritto, sintomatica per il protrarsi nel tempo del venir meno di un concreto interesse alla tutela e di un abbandono di esso, e, la decadenza, nel fatto oggettivo del mancato esercizio di un diritto entro un termine stabilito nell’interesse generale, od individuale, alla certezza di una determinata situazione giuridica.
Con il secondo motivo, lamentando la violazione dell’art. 801 c.c. ed art. 802 c.c., comma 1, e l’insufficiente ed illogica motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, il ricorrente si duole che la decisione, senza neppure specificarne le ragioni, abbia fatto riferimento ai fini della decorrenza del termine per l’esercizio del suo diritto al primo atto che giustificava l’azione, escludendo che l’ingiuria grave da porre a fondamento della revocazione della donazione per ingratitudine potesse consistere in un comportamento ingiurioso continuato e crescente di intensità e che, in tale ipotesi, il termine iniziasse a decorrere solo nel momento della cessazione di tale comportamento che, nella specie, si era al più verificata con l’ultimo eclatante episodio del 1997. Anche tale motivo è infondato.
Quel che rileva, ai fini della decorrenza del termine per la proponibilità dell’azione di revocazione della donazione per ingratitudine, è la piena e sicura consapevolezza, da parte del donante che il donatario abbia compiuto uno degli atti che legittimano l’esercizio del relativo diritto (cfr.: Cass. civ., sez. 2^, sent. 17 giugno 1998, n. 6025; Cass. civ., sez. 2^, sent. 3 giugno 1993, n. 6208; Cass. civ., sez. 2^, sent. 7 dicembre 1989, n. 5410). Di tale principio la sentenza di secondo grado ha fatto esatta, e correttamente motivata, applicazione, giacché, dopo avere premesso che l’attore aveva dedotto che l’intera vicenda era da inquadrare in un comportamento gravemente ingiurioso da considerare unitariamente, ha adeguatamente e logicamente considerato che dall’avere il donante “intentato l’azione poi estinta” si ricavava che egli aveva avuto la certezza di detto comportamento in tempi tali da far compiere il termine di decadenza.
Invero, il protrarsi e l’aggravarsi del comportamento gravemente ingiurioso successivamente all’introduzione dell’anteriore giudizio, non poteva valere ad escludere che, pur essendo anche tale comportamento valutabile nell’accertamento della fondatezza del diritto alla revocazione, la proposizione della domanda dimostrava una conoscenza da parte del donante dei fatti e delle circostanze sufficiente a determinare in lui quella necessaria certezza di avere subito una ingiuria grave da parte del donatario, dal cui raggiungimento l’art. 802 c.c., fa decorrere il termine annuale per l’esercizio dell’azione.
Con il terzo motivo, assumendo la violazione dell’art. 801 c.c. ed art. 802 c.c., comma 1, e l’assoluta mancanza di motivazione e la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, lamenta il ricorrente, in via subordinata, che la sentenza abbia disatteso la sua deduzione che “anche a voler sminuzzare l’unico e grave comportamento continuato in tanti pezzi autonomi, il fatto eclatante ingiurioso del febbraio 1997 avrebbe dato inizio a un nuovo termine di decadenza”, e si sia limitata ad affermare che si trattava di una enunciazione palesemente in contrasto con i principi in materia, che come tale non abbisognava di approfondimenti di sorta.
Il motivo è inammissibile.
È vero che la domanda di revocazione per ingratitudine può essere proposta per la commissione di fatti e per comportamenti del donatario tra loro ontologicamente diversi e che, se integranti più fattispecie di ingiuria grave, ciascuno di essi può essere idoneo e sufficiente a giustificare della pretesa del donante. Tuttavia, nel caso di specie, non solo l’attore aveva espressamente dedotto a sostegno della domanda un unico comportamento gravemente ingiurioso, anche se continuato e di crescente di intensità, ma non ha neppure specificato, salvo che con il generico richiamo agli atti introduttivi e difese di Tribunale e di Appello, in che cosa sarebbe consistito l’episodio eclatante ingiurioso posteriore verificatosi nel 1997 dopo l’introduzione del giudizio, e l’omissione non consente di apprezzare l’esistenza e la rilevanza dell’episodio necessaire a riconoscere un suo interesse alla proposizione della censura. All’infondatezza o inammissibilità dei motivi seguono il rigetto del ricorso e, sussistendo giusti motivi, la compensazione tra le parti delle spese del giudizio […]