Corte di Cassazione, Sez. 2, Sentenza n. 15131 del 2005, dep. il 18/07/2005

[…]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione 14.10.87, […] – premesso che il 10.2.72 era deceduto ab intestato […] lasciando un patrimonio costituito da un appartamento sito in Roma, alla via [… ], due appezzamenti di terreno ubicati in […] dell’estensione di mq. 10.000 circa ciascuno, un’azienda per la vendita e riparazione di pneumatici in Roma […], un distributore di benzina installato davanti al detto esercizio commerciale; che nell’eredità relitta erano succeduti il coniuge superstite, […], per l’usufrutto sulla quota d’un terzo, ed i due figli, ossia essa attrice ed il fratello […], ciascuno in ragione della metà, sia per la nuda proprietà sulla quota gravata dall’usufrutto uxorio, sia per la piena proprietà sui restanti due terzi; che, intervenuta rinunzia all’usufrutto da parte della […], di fatto essa deducente era rimasta nel possesso dell’appartamento e d’uno dei terreni, mentre il fratello aveva avuto il possesso delle due aziende e dell’altro terreno; che, peraltro, questi non aveva mai voluto renderle il conto della gestione dei due esercizi commerciali e s’era sempre rifiutato d’addivenire ad una divisione, adducendo che fosse già intervenuto un accordo da lui predisposto e fattole firmare ma assolutamente nullo ed inefficace – conveniva […] e […] innanzi al tribunale di Roma chiedendo che, previa declaratoria di nullità ed inefficacia dell’ex adverso preteso accordo, fosse dichiarata aperta la successione di […] e disposta, previo rendiconto fra i coeredi e previa formazione dello stato attivo e passivo della comunione, la divisione dei beni e l’attribuzione delle porzioni.
Costituendosi, […] – premesso che l’azienda per la vendita e riparazione di pneumatici era stata gestita in società da lui e dal padre; che, con accordo transattivo 11.3.77 s’era proceduto alla divisione dei beni, prevedendo anche la futura attribuzione ad esso deducente d’un appartamento in Tor […], intestato alla […], a compensazione della minor quota conseguita sull’eredità paterna; che, successivamente, per atto Notar […] 11.5.97, aveva acquistato le quote dell’azienda medesima di pertinenza della sorella e della madre; che, tuttavia, l’attribuzione prevista nell’accordo transattivo non aveva avuto luogo, non avendo la […] proceduto alla promessa donazione; ch’egli aveva sopportato l’onere dei tributi gravanti sulla comunione ereditaria – si opponeva alla domanda di divisione in quanto pattiziamente già regolata e ne chiedeva il rigetto, mentre, in via riconvenzionale per il caso la convenzione fosse stata dichiarata nulla, chiedeva disporsi nella divisione la condanna della sorella al pagamento in suo favore d’una somma pari al valore dell’appartamento in Tor […] a titolo di conguaglio sull’eredità paterna ed, in ulteriore subordine, disporsi nella divisione la condanna della sorella medesima a rimborsargli tutte le somme erogate in ragione delle passività della comunione.
Inizialmente contumace, nel corso del giudizio si costituiva anche […] dichiarando d’aderire alla domanda dell’attrice.
Con sentenza 3.4.97, l’adito Tribunale – dopo aver affermato in motivazione, tra l’altro, che la clausola relativa all’attribuzione dell’appartamento in Tor […], pur invalida in quanto l’atto successorio, non inficiava, tuttavia, l’intera divisione concordata con la scrittura 11.3.77, mancando la prova che le parti non sarebbero ad essa addivenute in difetto di tale clausola – respingeva la domanda di nullità avanzata in relazione alla divisione convenzionale 11.3.77 complessivamente considerata, dichiarava consequenzialmente inammissibile la domanda di divisione giudiziale, rigettava la domanda proposta in via riconvenzionale dal convenuto. Avverso tale decisione […] proponeva gravame chiedendo dichiararsi la nullità dell’intera convenzione 11.3.97, riconoscersi l’inesistenza di divisioni tra le parti e, per l’effetto, dichiararsi ammissibile la domanda di divisione con ogni consequenziale statuizione.
Resisteva […] denunziando l’inammissibilità dell’avverso gravame e proponendo appello incidentale con il quale chiedeva riconoscersi la proprietà di […] su di un appartamento sito in Roma alla via […], dichiararsi l’inesistenza della società di fatto tra […] ed il de cuius […] e l’appartenenza all’asse ereditario dell’azienda di via […], attribuirlesi l’appartamento di via […]. La […] rimaneva contumace.
Decidendo delle opposte impugnazioni con sentenza 28.6.00, la corte d’appello di Roma accoglieva in parte la principale e respingeva l’incidentale sulle seguenti considerazioni: che la domanda del […], intesa alla declaratoria d’invalidità dell’intera convenzione 11.3.97, rappresentasse un’emendatio libelli rispetto alla domanda, avanzata in primo grado, intesa all’accertamento della validità della convenzione stessa, in quanto quest’ultima aveva avuto, quale presupposto, l’estensione del richiesto accertamento all’intera convenzione, ivi compresa la clausola relativa all’appartamento in […], come dimostrato dalla riconvenzionale per il conguaglio pari al valore del detto appartamento nell’ipotesi si fosse addivenuti alla divisione, onde la declaratoria di nullità della sola clausola de qua e la reiezione dell’avversa domanda di divisione e della sua domanda di conguaglio da parte del tribunale aveva fatto venir meno il detto presupposto e giustificava la domanda d’invalidazione dell’intera convenzione 11.3.97; che il tenore stesso della clausola de qua dimostrasse come, in difetto di essa, le parti non sarebbero addivenute neppure all’accordo transattivo nel suo complesso, e che questo, pertanto, dovesse essere dichiarato nullo;
che, di conseguenza, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, la domanda di scioglimento della comunione fosse ammissibile e, tuttavia, in quanto nuova per l’appellante e non riproposta per l’appellata, non potesse essere presa in considerazione; che l’appellata non avesse interesse alla declaratoria della proprietà della controparte sull’appartamento di via[…]; che, ancora, l’appellata avesse contraddittoriamente dedotto, da un lato, la proprietà della controparte sull’azienda, e chiesto, dall’altro, dichiararsi l’azienda medesima parte dell’asse ereditario; che, in fine, ostasse alla declaratoria della proprietà dell’appellata sull’appartamento di via […] la nullità della convenzione 11.3.97.
Detta decisione veniva impugnata per Cassazione da […] con ricorso basato su tre motivi.
Resisteva […] con controricorso, contestualmente proponendo ricorso incidentale basato su di un unico motivo.
Dispostasi l’integrazione del contraddittorio nei confronti della […], l’incombente diveniva ultroneo per essere detta condividente deceduta nelle more lasciando unici eredi le medesime parti già in causa.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, i due ricorsi, proposti avverso la medesima sentenza e tra loro connessi, vanno riuniti ex art. 335 C.P.C.. Quanto al ricorso principale, devesi, anzi tutto, rilevare come la volontà processuale della parte risulti, nel suo complesso, di disagevole individuazione: la ricorrente conclude, infatti, per “l’accoglimento con tutte le conseguenze di legge”, id est, in difetto d’altre specifiche istanze nelle conclusioni stesse e nel contesto dei motivi, “per l’annullamento della sentenza n. 2292/00 della corte d’appello di Roma”, come indicato nell’intestazione dell’atto; ma se tale istanza fosse accolta così come proposta, id est la sentenza impugnata fosse annullata sic et simpliciter con cassazione senza rinvio, ciò comporterebbe che la controversia rimarrebbe definitivamente regolata nei termini stabiliti dalla sentenza di primo grado, quella stessa sentenza che ha dichiarato inammissibile la domanda di divisione proposta dall’allora attrice, la quale non solo ebbe ad impugnarla con appello incidentale, ma l’ha, anche in questa sede, espressamente censurata con il secondo ed il terzo motivo del ricorso, laddove ha imputato alla corte d’appello d’essere incorsa nei medesimi vari pretesi errori in precedenza commessi dal tribunale in relazione, tuttavia, ad un’impugnazione con la quale non s’era censurata la sentenza di primo grado sull’essenziale punto dell’inammissibilità dell’originaria domanda preclusiva per difetto d’interesse delle questioni invece dedotte. Ond’è che il ricorso andrebbe, già sol per questo, dichiarato inammissibile per difetto anch’esso d’interesse alla pronunzia formalmente richiesta nonché per difetto di coerenza tra il dedotto ed il richiesto.
Il qual ricorso, d’altronde, quand’anche gli si volesse riconoscere un senso compiuto, risulterebbe, comunque, immeritevole d’accoglimento sotto tutti i prospettati profili, a tale conclusione inducendo l’esame tanto della motivazione dell’impugnata sentenza quanto degli atti di causa, consentito quest’ultimo al giudice di legittimità essendosi denunziata con i motivi anche una serie di pretesi errores in procedendo.
Con il primo motivo, la ricorrente principale denunzia la violazione degli artt. 458 C.C. e 345 C.P.C. per avere la corte territoriale erroneamente ritenuto ammissibile in appello la domanda, da ritenersi nuova eppertanto inammissibile, proposta dalla controparte la quale, dopo aver chiesto, in primo grado, accertarsi la validità della convenzione 11.3.77, compreso il patto successorio nella stessa inserito con la quinta clausola, aveva poi, in secondo grado, chiesto dichiararsi la nullità non del solo patto successorio, come riscontrata dal primo giudice, ma dell’intera convenzione. Il motivo non merita accoglimento.
Anzi tutto, per difetto d’interesse della parte, sotto il profilo processuale (quello di fatto è evidente ma non rileva), alla deduzione del preteso vizio, giacché la corte territoriale, dichiarando la nullità integrale della convenzione 11.3.77, ha accolto non soltanto la domanda in tal senso dell’appellante ma, di fatto, anche quella nel medesimo senso espressamente proposta dall’originaria attrice con l’atto di citazione introduttivo del presente giudizio.
In vero, ne’ l’attrice, che aveva espressamente domandato, come si è detto, dichiararsi la nullità integrale della convenzione, ne’ il convenuto, che aveva domandato in via principale dichiararsene l’integrale validità ed in subordine l’integrale invalidità, come si dirà in seguito, avevano chiesto al riguardo una declaratoria d’invalidità parziale, ond’è palese che il primo giudice, in quest’ultimo senso decidendo, aveva pronunziato ultra perita, come giustamente rilevato dal secondo giudice.
Per sola completezza, dunque, può aggiungersi che, ove con il motivo siasi inteso, per quel che sembra, censurare l’impugnata pronunzia per esservisi dichiarata la nullità dell’intera convenzione 11.3.77 a seguito della domanda, da considerare nuova secondo la ricorrente, in tal senso proposta in appello dalla controparte, si dovrebbe rilevare, in contrario, come il giudice a quo abbia ben spiegato, con motivazione adeguata ed immune da vizi logici, che già in primo grado l’allora convenuto aveva manifestato il proprio intento di sostenere la validità della convenzione stessa solo se considerata nel suo complesso, eppertanto comprensiva anche della discussa quinta clausola traducentesi in sostanziale patto successorio, non anche se la convenzione fosse stata considerata valida in tutto ma con esclusione della detta clausola; ciò in quanto siffatta alternativa prospettazione delle proprie ragioni e richieste, ha sottolineato il giudice a quo, lo stesso convenuto aveva espressamente giustificata, nel costituirsi, adducendo che, nella seconda ipotesi, si sarebbe ripristinata quella diseguaglianza nei valori delle quote ereditarie, quali convenzionalmente stabilite con le altre clausole della medesima scrittura 11.3.77, alla quale appunto con detta particolare pattuizione i condividenti avevano inteso rimediare. In tal guisa argomentando, il giudice a quo ha proceduto ad un’interpretazione della volontà processuale manifestata dall’originario convenuto nel giudizio di primo grado e statuito quindi sul punto, con capo di pronunzia autonomo non ricompreso nel dispositivo ma costituente un antecedente logico-giuridico delle ulteriori statuizioni adottate, che l’odierna ricorrente avrebbe dovuto, pertanto, onde evitarne le conseguenze, impugnare espressamente, ex art. 360 n. 3 CPC in relazione agli artt. 1362 ss. C.C.; per converso, ciò non avendo fatto la ricorrente, detta interpretazione resta irretrattabile per essersi formato il giudicato sul relativo capo di pronunzia.
Sulla base di tale interpretazione, lo stesso giudice ha, poi, ritenuto che la domanda d’invalidazione dell’intera convenzione proposta dall’originario convenuto con l’atto d’appello, sebbene nuova rispetto alle domande proposte in primo grado, costituisse, non di meno, una consentita emendatio libelli e non un’inammissibile mutatio libelli ed ha, quindi, proceduto all’esame della detta domanda pervenendo al convincimento che, effettivamente, proprio per le ragioni che avevano indotto i condividenti ad inserire la clausola in discussione nella convenzione, questa non sarebbe stata conclusa senza quella, eppertanto la domanda stessa meritasse accoglimento ex art. 1419/1 C.C., in quanto fondatamente intesa all’annullamento dell’intera convenzione in ragione dell’invalidità della clausola ritenuta determinante.
Siffatta conclusione è da considerare esatta ma non ne è corretta la ragione giustificatrice, in quanto la questione non andava risolta in termini di domanda nuova, se pure consentita sotto il profilo dell’emendatio libelli, bensì in termini d’insussistenza di quella novità della domanda che, eccepita dalla resistente, tra l’altro in difetto d’interesse come già evidenziato, il giudice a quo ha ritenuto, invece, di ravvisare.
Se, invero, come risulta alla lettura della comparsa di costituzione del convenuto in primo grado ed anche dalla ricostruzione della volontà processuale della parte operata dallo stesso giudice a quo, il convenuto, già nello svolgere le proprie preliminari difese in quella sede, aveva contrastato l’avversa domanda di divisione giudiziale adducendo l’esistenza d’una preesistente divisione convenzionale ma sul presupposto che questa fosse stata convalidata nella sua interezza e non anche ove ne fosse stata invalidata la sola quinta clausola, egli di fatto, se pure in via subordinata alla reiezione della proposta eccezione di validità integrale della convenzione contrapposta alla domanda di controparte intesa alla declaratoria d’integrale nullità della stessa, sempre in via subordinata aveva aderito a tale avversa domanda facendola propria, eppertanto, riproponendo tale istanza in appello, non aveva proposto affatto una domanda nuova.
In definitiva, ai sensi dell’art. 384/2 C.P.C., integratane da un lato e correttane dall’altro, nei termini che precedono, la motivazione, l’impugnata decisione, peraltro conforme a diritto nel decisum, non è soggetta a cassazione sul punto.
Con il secondo motivo, la ricorrente principale, denunziando violazione degli artt. 566, 737, 2556 C.C. e vizi di motivazione, si duole che la corte territoriale, disattendendo, come già il primo giudice, le istanze istruttorie e le difese d’essa deducente, abbia pretermesso di valutare la lesione arrecatale dalla controparte con la sottrazione di metà dell’azienda paterna all’obbligo di collazione – attraverso la surrettizia asserzione, da lei contestata, della sussistenza d’una società di fatto tra padre e figlio per la gestione dell’azienda stessa – e di considerare l’appartenenza dell’azienda stessa all’asse relitto in ragione d’una metà per ciascuno dei coeredi.
Con il terzo motivo, la stessa ricorrente, denunziando ancora la violazione degli artt. 566 e 737 C.C., si duole che la corte territoriale, parimenti come già il primo giudice, abbia mancato d’accogliere la domanda con la quale ella aveva chiesto che, ai fini della divisione, venisse posta in collazione anche la donazione indiretta dell’appartamento di via […], questo essendo stato intestato al fratello ma acquistato con denaro fornito dal padre.
Neanche i riportati motivi – che, per comunanza di argomenti, possono essere trattati congiuntamente – meritano accoglimento. Al riguardo, devesi, anzi tutto, rilevare come vi si trovino contestualmente commiste censure alle sentenze di primo e di secondo grado – sì che, tra l’altro, neppure è agevole distinguere se siano rivolte all’una od all’altra o ad entrambe – con argomentazioni del tutto ininfluenti in questa sede, dacché gli eventuali errori del primo giudice non rilevano se non in quanto denunziati al secondo e gli errori di quest’ultimo rilevano solo nei limiti del devoluto, finalità del giudizio d’appello essendo, entro tali limiti, una nuova valutazione degli elementi da porre a base della decisione ed una nuova definizione della controversia, non anche un riesame delle argomentazioni e della decisione di primo grado, riesame che può anche aver luogo, in vista della nuova pronunzia, ma che non ne costituisce il presupposto ne’ ne condiziona l’autonomia; per il che nel giudizio di legittimità il vaglio della decisione di secondo grado non può avere ad oggetto se non gli eventuali vizi ad essa propri, del tutto irrilevante essendone il rapporto con quella di primo grado, che viene in considerazione, ma solo indirettamente e comunque mai per gli eventuali errori in essa contenuti, solo ove il giudice del gravame abbia omesso di vagliare criticamente la sentenza stessa in relazione alle censure contro di essa proposte, nel qual caso il vizio della decisione di secondo grado si traduce in vizio d’omessa pronunzia sui motivi di gravame.
Ed, in effetti, le doglianze della ricorrente vanno, nella loro sostanza, ricondotte ad una denunzia di tale vizio che, tuttavia, oltre ad essere inidoneamente formulate, risultano, anche in questo caso indipendentemente dalle ragioni poste dal giudice a quo alla base dell’adottata decisione, infondate.
Perché, infatti, possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio d’omessa pronunzia, è necessario, da un lato, che al giudice del merito fossero state rivolte una domanda od un’eccezione (nella specie uno o più motivi di censura avverso la sentenza di primo grado) autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si rendesse necessaria ed ineludibile, e, dall’altro, che tali domanda od eccezione siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini, nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo o del verbale d’udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primis, la ritualità e la tempestività ed, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi; ove, infatti, si deduca la violazione, nel giudizio di merito, dell’art. 112 C.P.C., ciò che configura un’ipotesi di error in procedendo per il quale questa Corte è giudice anche del “fatto processuale”, detto vizio, non essendo rilevabile d’ufficio, comporta pur sempre che il potere-dovere del giudice di legittimità d’esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato all’adempimento da parte del ricorrente, per il principio d’autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l’altro, il rinvio per relationem agli atti della fase di merito, dell’onere d’indicarli compiutamente, non essendo consentita al giudice stesso una loro autonoma ricerca ma solo una loro verifica.
Nei motivi in esame, con i quali non è dedotto, tra l’altro, l’error in procedendo ma la violazione di norme di diritto sostanziale, non è fatto, per contro, alcuno specifico riferimento alle censure mosse alla sentenza di primo grado ne’ alcun puntuale riferimento ai termini della loro deduzione con l’atto d’appello incidentale, mentre non è affatto rilevante cosa ed in qual modo fosse stato chiesto al primo giudice e quali ne fossero state le ragioni in fatto ed in diritto; ond’è che le doglianze svolte in questa sede al fine di far valere una pretesa omessa pronunzia sui proposti motivi d’appello risultano del tutto inadeguate all’onere di specificità sopra richiamato, imposto dall’art. 366 n. 4 C.P.C. in relazione al principio di autosufficienza del ricorso e, pertanto, sotto il profilo in esame, evidentemente inammissibili.
D’altronde, entrambi i giudici del merito, ciascuno per i diversi motivi rispettivamente addotti (il tribunale per inammissibilità della domanda di divisione giudiziale, esistendone già una negoziale valida; la corte d’appello per insussistenza di valida domanda di divisione giudiziale, non avendola riproposta l’originaria attrice ed essendo inammissibile quella ritenuta proposta ex novo in appello dall’originario convenuto), hanno concluso non potersi dare ingresso ad una domanda di divisione giudiziale; ond’è che, anche indipendentemente dalle ragioni reiettive dei motivi d’appello, evidentemente non potevano trovare ingresso le domande di collazione, quand’anche dall’odierna ricorrente effettivamente e ritualmente proposte in primo grado ed iterate mediante i motivi d’appello in secondo grado, dal momento che dette domande solo nel giudizio di divisione hanno una loro ragion d’essere.
È ben per questo, oltre che per le ragioni premesse alla trattazione dei suoi motivi di ricorso principale, che la stessa ricorrente non dovrebbe dolersi dell’accoglimento del ricorso incidentale, cui consegue una riapertura, in sede di rinvio, del giudizio di divisione. La giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente evidenziato, infatti, come la collazione ereditaria costituisca, in entrambe le forme previste dalla legge id est per conferimento del bene in natura oppure per imputazione, uno strumento giuridico volto alla formazione della massa ereditaria da dividere al fine d’assicurare, nei reciproci rapporti tra i coeredi condividenti, equilibrio e parità di trattamento in guisa da non alterare il rapporto di valore tra le rispettive quote, da determinarsi, in relazione alla misura del diritto di ciascun condividente, sulla base della sommatoria del relictum e del donatum al momento dell’apertura della successione, sì da garantire a ciascun condividente la possibilità di conseguire una quantità di beni proporzionata alla rispettiva quota (Cass. 30.7.04 n. 14553, 1.2.95 n. 1159, 31.3.90 n. 2630); ond’è che, come espressamente disposto dall’art. 737 C.C., l’obbligo della collazione sorge automaticamente a seguito dell’apertura della successione, salva l’espressa dispensa da parte del de cuius e sempre nei limiti della sua validità, eppertanto i beni donati devono essere conferiti indipendentemente da una specifica domanda in tal senso da parte dei condividenti, essendo sufficienti la domanda di divisione e la menzione in essa di determinati beni – indicati come oggetto di pregressa donazione diretta od indiretta e quali facenti parte dell’asse ereditario da ricostruire – a sollecitare che il preliminare accertamento da parte del giudice della consistenza dell’asse abbia luogo con riferimento anche ai detti beni, con l’ulteriore ovvia conseguenza che sulla parte dalla quale si eccepisca un fatto ostativo alla collazione grava l’onere di fornirne la prova nei confronti di tutti gli altri condividenti (Cass. 27.4.01 n. 6116, 16.11.00 n. 14864, 1.2.95 n. 1159, 6.11.86 n. 6490). Poiché, inoltre, il giudizio di divisione è per sua natura universale, id est deve comprendere tutti i beni relitti dal de cuius e deve ritenersi instaurato al fine di pervenire al completo scioglimento della comunione, siffatta ampiezza della domanda di divisione comporta che tutte le questioni insorte nel corso del giudizio, anche se riferite ad un solo bene da dividere, debbano essere esaminate nell’insieme dei rapporti reciproci dei vari condividenti e, quindi, considerate accertamenti incidentali finalizzati alla definizione dell’unico, inscindibile, giudizio principale, ond’è che non può ritenersi nuova ne’, per tal motivo, preclusa la domanda di simulazione, relativa alla compravendita d’un bene stipulata tra il de cuius ed uno dei coeredi condividenti, che sia proposta, quand’anche in corso di causa, ai fini della collazione del bene stesso nella massa, in quanto trattasi di richiesta d’accertamento incidentale che non sovverte l’originario thema decidendum quale introdotto con l’atto di citazione per la divisione, siffatta domanda di simulazione essendo volta, al pari di quella di collazione, a far rientrare nell’asse ereditario ed assoggettare alla pronunzia di divisione il bene che si deduca fittiziamente compravenduto (Cass. 20.2.03 n. 2568). Venendo al ricorso incidentale, con esso il ricorrente fondatamente si duole che la corte territoriale abbia dichiarato inammissibile la sua domanda di divisione ritenendola nuova eppertanto preclusa nel giudizio d’appello.
Anche in questo caso il giudice a quo non s’è avveduto che la domanda di divisione era stata indubbiamente proposta dall’originario convenuto – sia pure in via subordinata ed alternativa, rispetto alle eccezioni sollevate avverso la medesima domanda proposta dall’originaria attrice, ed in correlazione con quella domanda di declaratoria di nullità dell’intera convenzione 11.3.77 della quale si è in precedenza trattato – già con la comparsa di costituzione in primo grado.
Dalla qual comparsa, infatti, nonostante l’esposizione tutt’altro che chiara, ben può in definitiva desumersi – attese la proposizione della subordinata domanda di declaratoria d’invalidità della convenzione e la prospettazione, ad essa correlata, di più ipotesi d’attribuzione dei beni caduti in successione e specialmente, per il caso fosse stata disposta una ripartizione dei beni stessi conforme a quella pattiziamente convenuta, della domanda di conguaglio in ragione della disparità di valore delle quote – la proposizione d’una domanda di divisione.
L’impugnata sentenza va, dunque, annullata in relazione al ricorso accolto e la causa, di conseguenza, rimessa per nuovo esame ad altro giudice del merito di secondo grado, che s’indica in diversa sezione della medesima corte d’appello di Roma, cui è anche demandato, ex art. 385 C.P.C., di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.
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