L’azione di petizione ereditaria è un’azione di condanna avente un contenuto necessariamente recuperatorio, in quanto volta ad ottenere, previo accertamento della qualità di erede, la restituzione in tutto o in parte dei beni ereditali in confronto di chiunque li possegga senza titolo o a titolo di erede (art. 533 c.c., comma 1)
Corte di Cassazione, Sez. 2, Sentenza n. 2148 del 2014, dep. il 31/01/2014
[…]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
[…] conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Catania, la sorella […], per l’accertamento della falsità del testamento olografo del fratello, […], dal quale quest’ultima risultava istituita come erede universale, nonché per (la dichiarazione d’indegnità a succedergli e) il rendiconto della gestione dei beni ereditati che ella aveva posseduto in via esclusiva.
[…] resisteva in giudizio.
Con una prima sentenza del 7.3.2001 il Tribunale dichiarava apocrifo il testamento; con una seconda pronuncia del 7.5.2004 rigettava la domanda di declaratoria dell’indegnità a succedere della convenuta, che in parziale accoglimento della domanda di rendiconto condannava al pagamento della somma di Euro 53.866,26.
Le distinte impugnazioni proposte contro dette sentenze erano riunite e respinte dalla Corte d’appello di Catania, con sentenza del 16.8.2007. Riteneva la Corte territoriale che la relazione grafologica del c.t.u. era basata su di una metodica d’indagine aggiornata e supportata da argomenti persuasivi e compiutamente illustrati, tali da condurre a risultati incontrovertibili. Le caratteristiche della scrittura sottoposta a verifica presentavano elementi rivelatori della falsificazione che per numero e portata rendevano palese la superfluità delle indagini sugli altri profili grafologici riportati nell’atto d’appello, che non avrebbero potuto condurre ad un superamento della forza probatoria dei chiari e netti indici di falsificazione rilevati.
Quanto al motivo d’impugnazione che contestava l’obbligo di rendiconto a carico di […], siccome ignara della falsità del testamento, la Corte etnea osservava che, incontroversa la gestione, conseguiva sul piano oggettivo l’applicabilità dell’art.723 c.c.. Il fatto che la convenuta non fosse a conoscenza della falsità del testamento e della conseguente limitazione dei suoi diritti alla metà dell’asse ereditario era irrilevante, perché il rendiconto non sanziona una condotta dolosa, ma regola sulla base dell’effettiva titolarità una situazione di fatto priva di supporto giuridico.
Infine, la Corte territoriale riteneva che in difetto d’indicazioni da parte della convenuta sui frutti percepiti e sugli esborsi sostenuti, era pienamente condivisibile, anche come liquidazione equitativa, la determinazione del dovuto eseguita dal Tribunale sulla scorta delle valutazioni e dei calcoli del c.t.u..
Per la cassazione di tale sentenza […] ha proposto ricorso, affidato a sei motivi, dipoi illustrati da memoria. Ha resistito con controricorso […].
Deceduto quest’ultimo, gli eredi di lui […] e […] hanno depositato memoria e successivamente procura notarile al difensore.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. – Col primo motivo d’impugnazione è dedotta la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 196 c.p.c., in connessione col vizio d’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo, in relazione, rispettivamente, all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5. Si sostiene, in ordine al rigetto di nuove indagini grafologiche, che l’insufficienza motivazionale della sentenza impugnata deriva dal non aver dato risposta alle censure di cui all’atto d’appello, che avevano rilevato che (1) lo stesso c.t.u. aveva ammesso che anche la grafologia ha dei limiti inevitabilmente connessi ad ogni metodo di studio e ricerca; sicché sarebbe contraddittorio, secondo parte ricorrente, qualificare come “incontrovertibili” risultati la cui certezza è smentita dallo stesso c.t.u.; (2) il metodo della relazione del c.t.u. non rientrava fra quelli più recenti e scientificamente accreditati, che privilegiano l’aspetto e il percorso grafico mediante l’impiego del criterio grafonomico e grafologico, andando oltre l’aspetto morfologico e calligrafico dei singoli grafemi; (3) il c.t.u. si è limitato a descrivere le caratteristiche delle varie scritture di comparazione, senza tuttavia confrontarle tra loro e con il testamento.
Richiamata la giurisprudenza di legittimità secondo cui il giudice di merito, nell’aderire alle conclusioni del c.t.u., non può esimersi dal motivare in maniera puntuale ed esaustiva le specifiche e concrete contestazioni dell’appellante, formula il seguente quesito di diritto ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c., applicabile ratione temporis alla fattispecie: “chiarisca la Suprema Corte se è esaustiva e sufficiente la motivazione della sentenza che contenga un generico rinvio alle argomentazioni del c.t.u. ed il ricorso a mere clausole di stile per esprimere la condivisione delle conclusioni peritali, pur in presenza di puntuali e specifiche censure di parte con contestuale richiesta di rinnovazione delle operazioni peritali. Soprattutto chiarisca la Suprema Corte se, in presenza di precise e puntuali contestazioni di parte alla consulenza, con espressa richiesta di parte di rinnovazione delle operazioni peritali, possa il giudice del merito limitarsi a denegare meramente la rinnovazione della consulenza, o il richiamo del consulente, ovvero se egli è tenuto a motivare puntualmente le ragioni del diniego”.
2. – Il secondo motivo denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112 e 263 c.p.c. e degli artt. 533, 535, 723 e 1148 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. La Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere applicabile alla fattispecie l’art. 723 c.c., che disciplina il rendiconto in materia di divisione ereditaria. Tale norma esulerebbe dal caso di specie in quanto l’azione esercitata dall’attore sarebbe qualificabile come petitio hereditatis, con conseguente applicabilità dell’art. 533 c.c. e segg., che non prevedono l’obbligo di rendiconto a carico dell’erede possessore di buona fede dei beni ereditari. Segue il quesito: “dica la Suprema Corte se l’azione finalizzata all’accertamento della qualità di erede consenta il richiamo e l’applicazione arbitraria da parte del giudice del merito della norma dell’art. 723 c.c., sulla divisione dei beni ereditari (senza alcuna richiesta espressa di parte in tal senso) e chiarisca infine la Suprema Corte se l’erede possessore di buona fede che amministri i beni ereditari in presenza di un testamento poi dichiarato mallo, sia obbligato a rendere il conto della gestione al coerede”.
3. – Col terzo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112,183,184 e 263 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Sostiene parte ricorrente che la Corte d’appello ha errato nel confermare la condanna della convenuta al pagamento della somma calcolata dal c.t.u. a titolo di restituzione dei frutti dei beni ereditari, non avendo l’attore mai chiesto una pronuncia di condanna, nè essendo quest’ultima inclusa in quella di rendiconto. Questo il quesito: “dica la Suprema Corte se l’azione finalizzata all’accertamento del conto è un’azione di accertamento mero, ovvero se in tale azione è implicita la domanda di condanna al pagamento delle somme accertate nel rendiconto”.
4. – Col quarto motivo si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 183 e 184 c.p.c. e della L. n. 353 del 1990, in relazione agli artt. 3 e 5 dell’art. 360 c.p.c.. […] soltanto (e per la prima volta) all’udienza del 16.1.2004, in sede di precisazione delle conclusioni, ha proposto la domanda espressa di pagamento delle somme quantificate dal c.t.u. relativamente ai frutti dei beni ereditari. Pertanto tale domanda è tardiva e la relativa inammissibilità avrebbe dovuto essere rilevata d’ufficio dalla Corte territoriale.
Formula al riguardo il seguente quesito: “dica la Suprema Corte se contrasta con il sistema delle preclusioni introdotto con la L. n.353 del 1990 e pertanto deve considerarsi tardiva, inammissibile e quindi rilevabile d’ufficio dal Giudice, la domanda proposta per la prima volta al momento della precisazione delle conclusioni”.
5. – Il quinto mezzo d’annullamento espone la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., artt. 535 e 1148 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. I giudici di merito hanno errato nel ritenere applicabile alla fattispecie l’art. 723 c.c., essendo invece applicabili le norme degli artt. 535 e 1148 c.c., che non prevedono alcun obbligo di rendiconto a carico del possessore di buona fede. Ne discende che la Corte distrettuale ha errato nel confermare la sentenza di primo grado, atteso che in forza delle predette disposizioni […] avrebbe semmai dovuto essere dichiarata tenuta, eventualmente, alla restituzione dei frutti maturati pro quota dal giorno della proposizione della domanda giudiziale e non anche dei frutti maturati dal giorno dell’apertura della successione.
Segue il quesito: “chiarisca la Suprema Corte se l’erede possessore in buona fede dei beni ereditali, in forza del rinvio all’art. 1148 c.c. operato dall’art. 535 c.c., comma 1, è tenuto alla restituzione
dei frutti civili e naturali maturati dai beni ereditari dal giorno dell’apertura della successione, ovvero dal giorno della proposizione della domanda giudiziale volta alla restituzione di detti frutti”.
6. – Il sesto motivo denuncia la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 196 c.p.c., nonché l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5. La Corte d’appello, limitandosi ad un generico richiamo alla conclusioni del c.t.u. e disattendendo senza neppure menzionarle le specifiche censure mosse dall’appellante all’elaborato tecnico dell’ausiliario del giudice, ha violato – secondo parte ricorrente – l’obbligo di motivazione imposto dalla legge.
In particolare, non sono stati considerati i rilievi specifici dedotti da parte appellante nella comparsa conclusionale e in quella di costituzione del nuovo difensore (carattere esplorativo dell’indagine tecnica, mandato troppo generico, mancata indicazione dei criteri utilizzati per calcolare i frutti in relazione a ciascun cespite, omessa considerazione delle migliorie apportatevi dalla convenuta, considerazione, in parte, di beni non ricadenti nell’asse ereditario), il tutto volto a confutare le conclusioni del c.t.u. in quanto errate e manifestamente eccessive.
Segue il quesito: “dica la Suprema Corte se esaurisce il proprio obbligo di motivazione il giudice del merito che si limita ad aderire alle conclusioni cui è pervenuto il c.t.u. nella propria relazione tecnica mediante il generico richiamo alle stesse, pur in presenza di puntuali e specifiche contestazioni di parte, mai esaminate dal consulente medesimo”.
7. – Il primo motivo è infondato.
La censura sub (1) è priva di qualsivoglia consistenza logica. La decontestualizzazione del richiamato passaggio della relazione del c.t.u. non consente di stabilire senso ed effettiva portata dell’affermazione; ne’ tanto meno questa nella sua assolutezza giova alla tesi della ricorrente, visto che i limiti della scienza grafologica non dimostrano la necessità di accertamenti ulteriori rispetto a quelli già svolti, quelli come questi essendo soggetti ai medesimi margini di astratta opinabilità.
Le censure sub (2) e (3) sono del tutto generiche. La scelta del metodo d’indagine operata dal c.t.u. nello svolgimento dell’incarico può essere più o meno sindacabile, al pari di ogni singolo passaggio logico e tecnico, a patto che si dia contezza in termini specifici sia della critica mossa a livello scientifico, sia della rilevanza di una diversa metodica nel caso concreto, giacché anche una tecnica più risalente può condurre a risultati soddisfacenti in relazione all’oggetto indagato o al grado di certezza comunque raggiunto. L’esistenza di un metodo scientifico che nella letteratura di settore sia ritenuto più attendibile ed avanzato di un altro non basta, pertanto, a imporre al giudice di rinnovare le indagini tecniche svolte, ovvero di dissentire dalle conclusioni cui il c.t.u. sia pervenuto con l’impiego di una metodica meno aggiornata, l’uno e l’altro esito richiedendo la dimostrazione dell’inefficienza in concreto del criterio meno accreditato in astratto. Nel caso in esame, ne’ l’uno, ne’ l’altro aspetto sono stati sufficientemente illustrati dalla parte odierna ricorrente nei motivi d’appello, quali si desumono da quanto riportato a pag. 9 del ricorso, che si limitano a dedurre la generale prevalenza del metodo grafonomico e grafologico, rispetto a quello morfologico e calligrafico.
8. – Il secondo e il quinto motivo, da esaminare congiuntamente per la loro complementarietà, sono infondati.
8.1. – Petitio hereditatis ed accertamento della qualità di erede sono azioni che, pur condividendo il medesimo accertamento della qualità di erede, differiscono fra loro per tipologia e finalità giuridica. L’azione di petizione ereditaria è un’azione di condanna avente un contenuto necessariamente recuperatorio, in quanto volta ad ottenere, previo accertamento della qualità di erede, la restituzione in tutto o in parte dei beni ereditali in confronto di chiunque li possegga senza titolo o a titolo di erede (art. 533 c.c., comma 1); l’azione di accertamento della qualità di erede, invece,
è essenzialmente dichiarativa, e come tale può essere corredata o non da una domanda accessoria di condanna avente un contenuto diverso dalla restituzione di beni compresi nell’asse ereditario. Pertanto, colui che agisce per l’accertamento della propria qualità di coerede nei confronti di chi possegga i beni ereditati a titolo di erede, chiedendo nel contempo che questi renda il conto della gestione e corrisponda i relativi frutti, non esercita un petitio hereditatis ma un’azione di accertamento con domanda accessoria di condanna. A sua volta l’azione di rendiconto è autonoma rispetto a quella di divisione relativamente alla quale pure è prevista dall’art. 723 c.c. (cfr. Cass. n. 30552/11). Infatti, la giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che la ratio dell’obbligo del rendiconto va individuata in ciò che, chiunque svolga attività nell’interesse di altri, deve portare a conoscenza di questi, secondo il principio della buona fede gli atti posti in essere ed in particolare, quegli atti e fatti da cui scaturiscono partite di dare e avere. Pertanto, tra coeredi, la resa dei conti, di cui all’art. 723 c.c., oltre che operazione inserita nel procedimento divisorio e quindi strumentalizzata al fine di calcolare nella ripartizione dei frutti le eventuali eccedenze attive o passive della gestione e di definire conseguentemente tutti i rapporti inerenti alla comunione, può anche costituire obbligo a sè stante, fondato, a pari di quanto può avvenire in qualsiasi stato di comunione, sul presupposto della gestione di affari altrui condotta da alcuno dei partecipanti, in base ad assunzione volontaria o a mandato ad amministrare (Cass. nn. 6358/93 e 5720/84). Il duplice corollario di quest’ultimo principio è che il coerede che abbia goduto in via esclusiva di beni ereditali è obbligato sia al rendiconto sia a corrispondere i frutti agli altri eredi, a decorrere dalla data di apertura della successione (o da quella posteriore e diversa in cui abbia acquisito il possesso dei beni) e indipendentemente dalla sua buona o mala fede, non trovando applicazione in tal caso gli artt. 535 e 1150 c.c..
8.1.1. – Nella specie la Corte di merito si è attenuta a tali principi lì dove ha giustamente affermato l’applicazione dell’art.723 c.c., per il fatto oggettivo della gestione di beni ereditali, indipendentemente della conoscenza della falsità del testamento, che l’obbligo di rendiconto non sanziona una condotta dolosa, ma regola (anche: n.d.r.) una situazione di fatto priva di supporto giuridico.
9. – Il terzo e il quarto motivo, pure da esaminare insieme per la loro reciproca dipendenza logico-giuridica, sono infondati. Il rendiconto consiste nella formazione di uno stato attivo e passivo dell’eredità (art. 723 c.c.) munito dei documenti giustificativi (art. 263 c.p.c., comma 1); la relativa domanda comporta, a livello processuale, che se il conto è approvato il giudice emette un’ordinanza di pagamento delle somme che costituisce titolo esecutivo (art. 263 cpv. c.c.), e che in ogni caso il giudice può disporre, con ordinanza non impugnabile, il pagamento del sopravanzo che risulta dal conto o dalla discussione dello stesso (art. 264 c.p.c., comma 3). Dall’insieme di tali disposizioni risulta di tutta evidenza che la domanda di rendiconto reca ineludibilmente in sè anche quella di condanna al pagamento delle somme che risulteranno dovute, essendo il rendiconto finalizzato proprio all’emissione di titoli di pagamento. Pertanto, non viola l’art. 112 c.p.c., il giudice che condanni il soggetto oblato alla corresponsione di tali somme anche senza un’espressa domanda al riguardo.
10. – Il sesto motivo è inammissibile.
L’appellante, diversamente dall’appellato che sia anche appellante incidentale, è tenuto a prospettare tutte le censure, anche quelle che attengono ad eccezioni, con l’atto di appello, e nulla può aggiungere in prosieguo, in quanto il diritto di impugnazione si consuma con il detto atto, che in conseguenza della regola della specificità dei motivi di appello fissa i limiti della devoluzione della controversia in sede di gravame (cfr. per tutte Cass. n. 12976/02 e la costante giurisprudenza ivi richiamata). Nella specie, parte ricorrente menziona censure sì specifiche, ma contenute non nell’atto di citazione in appello bensì in altri scritti difensivi (comparsa conclusionale e nuova comparsa di costituzione dell’appellante), come tali insuscettibili di ampliare il thema decidendum del giudizio d’appello, irretrattabilmente fissato dal solo atto introduttivo di cui all’art. 342 c.p.c.. Nel quale, come si desume dalle pagg. 17-19 del ricorso, i motivi d’appello non appaiono di contenuto maggiore o di grado più specifico rispetto a quanto esaminato e motivato dalla Corte territoriale con la sentenza impugnata, che non merita, pertanto, alcuna censura.
[…]