[…]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Nell’impugnata sentenza lo svolgimento del processo è esposto come segue.
“Con sentenza a 2621 del 14/12/1995, notificata il 22/4/1996, il tribunale di Padova dichiarava risolto per colpa di […] il contratto di mantenimento vitalizio mediante alienazione di immobili concluso il 30/1/1981 […] tra […] ed il padre […], condannava il convenuto […] al risarcimento dei danni subiti da […], da liquidarsi in separato giudizio, condannava il convenuto a corrispondere a […] l’importo mensile di lire 500.000 a titolo di indennità per il godimento dell’immobile oggetto del contratto di cui sopra del quale […] aveva conservato l’usufrutto. Con atto di citazione notificato il 21/5/1996 […] proponeva appello avverso detta sentenza ed a tale scopo conveniva avanti l’intestata Corte […], peraltro precisando che il padre era deceduto il 30/4/1994 che il decesso non era stato dichiarato dal relativo procuratore, per cui l’appellante effettuava la notifica anche agli eredi dello stesso. (…omissis…)
[…] si costituiva a mezzo del procuratore con il quale era già costituito in primo grado e sulla base del mandato in tal sede conferito e, oltre a chiedere esplicitamente, ma in via subordinata, la conferma della sentenza di primo grado, chiedeva l’accoglimento di tutte le domande da esso formulate in primo grado, quelle di cui ai capi 1, 2, 3, 4 delle conclusioni, già accolte dal tribunale, quelle di cui ai capi 5 e 6 delle conclusioni, rigettate (implicitamente ed incidentalmente impugnando su detti punti la sentenza). Disposta la sospensione della provvisoria esecutorietà della sentenza appellata, la causa veniva rimessa al collegio per la decisione sulle conclusioni precisate dai procuratori delle parti nel senso riportato rispettivamente in epigrafe.
All’udienza collegiale dell’8/3/1999 il procuratore di […] dichiarava l’intervenuto decesso di questi e la Corte dichiarava interrotto il giudizio che veniva poi riassunto a cura di […], con ricorso e pedissequo decreto notificati ad […], […] e […].
Con comparsa di costituzione e conclusionale depositata il 23/2/2000 si costituivano […], […] e […], quali eredi di […], le quali si riportavano a tutte le istanze e difese svolte a nome del loro dante causa.
Con sentenza 6-21.3.00 la Corte d’Appello provvedeva come segue:
“… definitivamente pronunciando, RIGETTA:
l’appello proposto da […] avverso la sentenza del tribunale di Padova n. 2621 del 14/ 12/1995;
DICHIARA l’incompetenza per materia del tribunale adito in ordine alle domande di […] riproposte con appello incidentale ai capi 5 e 6 delle relative conclusioni;
CONFERMA nel resto la sentenza appellata;
CONDANNA […] al pagamento in favore di patte appellata della metà delle spese del presente grado, liquidate, per l’intero, in complessive lire 9.796.000, di cui lire 422.000 per spese, lire 2.374.000 per diritti e lire 7.000.000 per onorari, oltre accessori di legge, compensata la residua metà”.
Contro questa decisione ha proposto ricorso per Cassazione […].
Hanno resistito con controricorso […], […] e […]. La difesa delle controricorrenti ha partecipato alla discussione. La difesa della parte ricorrente non ha invece partecipato (ritiene il collegio che la comunicazione dell’udienza a detta parte ex art. 377, secondo comma, c.p.c. debba ritenersi avvenuta in modo rituale, come
si evince dal contenuto della sia pur sintetica relata di notifica, considerato anche in relazione al contenuto della comunicazione in cui si legge “…Agli Avvocati […], […], […] c/o […]; ed in relazione al fatto che l’avv. […], citata nella relata, è uno dei tre avvocati ai quali è stata conferita la procura con firma aut. 2.11.2000, anche se non è citata nell’intestazione del ricorso; e che in detta relata dopo la parola “[…]” si legge: “+ altri” con evidente riferimento non solo al difensore avv. […], ma anche all’ulteriore difensore e domiciliatario avv. […]).
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso […. denuncia “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 298, 300 e 304 c.p.c.” esponendo le seguenti doglianze. Nella fattispecie, il procuratore dell’appellato aveva dichiarato il decesso dei proprio assistito nel corso dell’udienza collegiale, quando ormai erano spirati i termini per il deposito delle comparse conclusionali. In tale sede, l’appellante si opponeva alla dichiarazione di interruzione rilevando come egli stesso fosse erede del defunto e come l’atto di impugnazione fosse stato a suo tempo notificato personalmente anche agli eredi […] nel suo ultimo domicilio, con ciò sostenendo che tali circostanze esplicavano comunque efficacia preclusiva dell’interruzione. Ciò nondimeno, la Corte d’Appello dichiarava l’interruzione del giudizio e, conseguentemente, l’appellante provvedeva alla riassunzione nei confronti degli altri eredi, le sorelle […], […] e […]. A seguito della comparsa di riassunzione, veniva fissata udienza Collegiale del 06.03.2000 al solo fine di “assegnare la causa a sentenza”. Gli altri eredi, tuttavia, si costituivano depositando in data 23.02.2000 una “comparsa conclusionale”, della quale l’appellante sosteneva la tardività ed inammissibilità. Infatti, la dichiarazione della morte della parte e la conseguente interruzione del processo era intervenuta dopo la scadenza del termine per il deposito delle comparse conclusionali e delle repliche (ed, evidentemente, al solo fine di rimediare al mancato deposito delle conclusionali stesse nei termini), pertanto doveva ritenersi preclusa la possibilità del deposito di comparsa conclusionale anche agli altri eredi subentrati nella situazione processuale di […], tanto più che gli stessi non hanno neppure richiesto una eventuale rimessione nei termini. La Corte d’Appello, tuttavia, respingeva l’eccezione rilevando che la comparsa era stata depositata nel rispetto dei termini di cui all’art. 190 c.p.c. Sul punto l’eccezione dell’appellante appare invece fondata e, conseguentemente, erronea la sentenza impugnata. Deve ritenersi, infatti, che il deposito di comparsa conclusionale restava precluso agli altri eredi appellati, i quali avrebbero semmai potuto soltanto giovarsi della discussione orale della causa ex art. 275 c.p.c.. Il motivo deve ritenersi (prima ancora che privo di pregio apparendo la decisione immune dai vizi denunciati comunque interpretati) inammissibile per le seguenti ragioni (ciascuna delle quali decisiva già da sola): -A) premesso che la parte ricorrente (innanzi a questa Corte suprema) non sembra contestare (o comunque non contesta in modo ammissibile e cioè con sufficiente chiarezza e compiutezza) la validità della costituzione delle attuali controricorrenti (egli infatti appare ammettere che queste avrebbero potuto partecipare alla discussione orale), e in particolare la possibilità per le stesse di continuare la causa iniziata dal padre quali sue eredi (se la sua tesi contenesse tale contestazione, questa sarebbe certamente inammissibile in quanto non chiara e compiuta), si osserva che le sue doglianze sembrano avere per oggetto solo la “comparsa conclusionale” in quanto tale, e che non denuncia (ritualmente) un mutamento (rispetto al defunto padre) di linea difensiva (ad es nuovo petitum e/o nuova causa pretendi) da parte di dette eredi […], […] e […] (o comunque una qualsivoglia concreta lesione di un suo diritto difensivo); deve concludersi quindi che non può ritenersi (ritualmente e compiutamente) spiegato quale sia la conclusione in diritto della sua tesi, e quale sia il suo concreto interesse processuale che intende tutelare; -B) in ordine a detta “conclusionale” la Corte di merito aveva esposto una sua (sufficiente ed immune da vizi) ratto deciderteli, rilevando che “il ricorso per riassunzione proposto da […] era diretto alla prosecuzione del giudizio nei confronti degli eredi di […]; è stata fissata l’udienza del 6/3/2000 per la prosecuzione del giudizio; la comparsa di costituzione e conclusionale depositata dalle eredi di […] il 23/2/2000 è del tutto consequenziale alla riassunzione voluta da […], non poteva avvenire prima della riassunzione, è stata depositata nel rispetto del termine di cui all’art. 190 c.p.c. (considerato tra i dieci giorni liberi anche il 29 febbraio 2000)”; in altri termini detta Corte aveva osservato (facendo evidentemente riferimento alla normativa in questione non novellata, ritenuta applicabile nella fattispecie; cfr. Cass 0 3813 del 02/05/1997; su ciò non vi è rituale motivo di ricorso) che la tempestività del deposito in questione andava valutata in relazione all’udienza collegiale del 6.3.00 Tale punto non è stato oggetto di rituali doglianze, in quanto il ricorrente si è limitato ad esporre una sua tesi diversa in modo sostanzialmente apodittico (anche l’assunto che detta udienza era stata fissata al solo fine di “assegnare la causa a sentenza” non configura una rituale argomentazione) e quindi inammissibile (anche in tema di asseriti errores in procedendo, per l’ammissibilità del motivo, è necessario che la tesi in diritto sia esposta con chiarezza e compiutezza sufficienti).
Gli ulteriori due motivi vanno esaminati insieme in quanto connessi. Con il secondo motivo […] denuncia “Violazione dell’art. 102 c.p.c.” esponendo le seguenti doglianze. La qualità di erede del Sig. […] non risulta essere mai stata contestata in capo all’appellante […]. Secondo il consolidato orientamento di questa stessa Corte, la morte di una delle parti nel corso del giudizio comporta la trasmissione della legittimazione attiva e/o passiva agli eredi, i quali vengono a trovarsi in una situazione di litisconsorzio necessario. Del pari, e fermo quanto sopra eccepito, la presenza e la costituzione in giudizio di taluno degli eredi è senz’altro preclusiva dell’effetto interruttivo, con conseguente necessità che il contraddittorio venga integrato nei confronti degli eredi non costituitisi. L’appellante, nella fattispecie, oltre a dare atto della propria qualità di erede del […], aveva già provveduto a notificare l’atto di appello anche agli “Eredi […]”. In considerazione di ciò la Corte, all’atto della formale dichiarazione del decesso di […] effettuata dal procuratore, avrebbe comunque dovuto – se del caso – ordinare l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri eredi ai sensi dell’art. 102 c.p.c. e non già dichiarare l’interruzione del processo, cosa che non è avvenuta.
Con il terzo motivo […] denuncia “Violazione dell’art. 100 c.p.c.” esponendo le seguenti doglianze. Nel corso del giudizio, l’appellante aveva fornito prova (dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà e certificato di morte di […]) della propria qualità di erede universale di […], assumendo altresì – e tra le altre cose – il venir meno delle condizioni dell’azione per l’avvenuta confusione soggettiva tra attore e convenuto. L’appellante forniva altresì la prova documentale dell’avvenuta pacificazione col padre (vedasi atto notaio […] del 01.03.94) al punto da venir rimossa qualsiasi ragione di contrasto: infatti le parti si erano recate entrambe davanti al notaio per compiere un atto di identificazione catastale relativo agli immobili ceduti col contratto di vitalizio ed, anzi, lo stesso […] autorizzava le volture catastali dei predetti beni. In considerazione di quanto sopra, nonché della circostanza ulteriore dell’avvenuto decesso del Sig. […] e subentro “in universum ius” del figlio […] (come chiaramente esposto anche negli atti del giudizio d’appello) doveva quantomeno dichiararsi, anche d’ufficio, la cessazione della materia del contendere, dato il venir meno della necessità di una pronuncia sull’oggetto dell’originaria controversia, ormai superata dalla comune volontà e dalla condotta extraprocessuale delle parti. A tutto concedere – e nonostante quanto sopra rilevato – la pronuncia di cessazione della materia del contendere avrebbe dovuto essere adottata quantomeno relativamente alla quota del bene di spettanza dell’erede […], essendo evidente che nelle more del giudizio questi era comunque succeduto al padre […].
Il secondo ed il terzo motivo non possono essere accolti in quanto privi di pregio (dovendo ritenersi immune dai vizi denunciati l’impugnata decisione).
In particolare va rilevato quanto segue: -A) premesso che sia […] che […], […] e […] hanno assunto (dal punto di vista processuale; essendo irrilevante nella specie il profilo di diritto sostanziale ai fini della decisione del punto in questione) la veste di successori solo dopo la dichiarazione della morte di […] da parte del suo procuratore, si osserva l’art. 300 c.p.c. è chiaro e tassativo nel prevedere l’interruzione, nell’ipotesi di cui al secondo comma (in presenza dei presupposti ivi previsti), senza che possa assumere rilevanza (e costituire quindi eccezione alla norma predetta; essendo di conseguenza “…preclusiva dell’effetto interruttivo”) il tipo di situazione prospettato dalla parte ricorrente; -B) quanto all’asserita cessazione della materia del contendere va rilevato che la Corte ha correttamente applicato nella fattispecie il principio più volte affermato dal questa Corte Suprema secondo cui “La cessazione della materia del contendere, che costituisce il riflesso processuale del venir meno della ragion d’essere sostanziale della lite, per la sopravvenienza di un fatto suscettibile di privare le parti di ogni interesse a proseguire il giudizio, in tanto può’ essere dichiarata, in quanto i contendenti si diano reciprocamente atto dell’intervenuto mutamento della situazione evocata in controversia e sottopongano al giudice conclusioni conformi, intese a sollecitare l’adozione di una declaratoria della cessazione cennata, dovendosi escludere, quindi, che il giudice, senza far luogo a pronuncia ‘extra petita’, possa dichiarare cessata la materia del contendere per avere una delle parti allegato, ed eventualmente provato, l’insorgenza di fatti astrattamente idonei a privare essa e/o il contraddittore di interesse e titolo all’esperimento della coltivata pretesa, quando, nelle rispettive conclusioni, ciascuno abbia insistito sulle domande originarie, così manifestando la determinazione di ottenere una la decisione sul merito della vertenza”, (v. tra le altre Cass. n. 0 8607 del 24/06/2000); -C) ne’ (anche a prescindere da quanto ora esposto) potrebbe comunque sostenersi l’ipotizzabilità di una cessazione “parziale” della materia del contendere dato che questa contrasterebbe con la natura dell’istituto giuridico de quo, infatti detta cessazione può essere solo totale (cfr. tra le altre Cass. n. 12844 del 03/09/2003: “La cessazione della materia del contendere, quale evento preclusivo della pronunzia giudiziale, può configurarsi solo quando, nel corso del processo, sopravvenga una situazione che elimini completamente ed in tutti i suoi aspetti la posizione di contrasto tra le parti, facendo in tal modo venir meno del tutto la necessità di una decisione sulla domanda quale originariamente proposta in giudizio ed escludendo così sotto ogni profilo l’interesse delle parti ad ottenere l’accertamento, positivo o negativo, del diritto, o di alcuno dei diritti inizialmente dedotti in causa).
Per ciò che concerne l’asserita “pacificazione” si rinvia anche a quanto sarà esposto in seguito.
Il quarto, quinto e sesto motivo vanno esaminati insieme in quanto connessi.
Con il quarto motivo […] denuncia “Erronea e falsa applicazione dell’art. 1453 c.c. Mancata applicazione dell’art. 1878 c.c.” esponendo le seguenti doglianze. L’odierno ricorrente aveva già lamentato, in sede di appello, l’erronea applicazione dell’art. 1453 c.c. effettuata dal Tribunale di Padova. Tale rilievo era stato fondato sul fatto che l’art. 1878 c.c. preclude la risoluzione per inadempimento del contratto di rendita vitalizia. Nella fattispecie, quello sottoscritto tra le parti era un contratto “di mantenimento vitalizio” che, secondo anche copiosa giurisprudenza della Corte di Cassazione, era da ritenere una sottospecie del contratto di rendita vitalizia. Nello stesso senso anche autorevole dottrina. Ad ulteriore sostegno veniva altresì rilevato come, nel caso di un eventuale inadempimento, il creditore (salvo il rimedio dell’art. 1878 c.c.) aveva comunque la possibilità di chiedere l’applicazione dell’art. 433 c. 2 c.c. che, in tema di alimenti, prevede la determinazione da parte del giudice del modo di somministrazione della prestazione dell’obbligato. Ne derivava che stante l’identità e/o comunque la assoluta somiglianza ed analogia della causa e dello scopo al beneficiario del contratto di mantenimento viene garantita una tutela comunque adeguata, senza necessità di ricorrere al rimedio generale della risoluzione per inadempimento, in contrasto con l’art. 1878 c.c. Tuttavia, una ulteriore serie di argomentazioni portavano ad escludere comunque l’applicabilità della risoluzione per inadempimento alla fattispecie. Infatti era emerso che, in corso di causa (07.02.1989) e nell’arco di altro procedimento, il […] si era impegnato a corrispondere per il mantenimento del padre la somma mensile di L. 300.000 pro bono pacis e tuttavia mantenendo ogni contestazione sullo stato di bisogno dello stesso. Tale somma veniva versata dal […] e accettata dal […] a titolo di mantenimento. Infine, sempre in tale, ottica, si osservi come la risoluzione del contratto per inadempimento doveva comunque intendersi come esclusa dalle parti stesse per il fatto che, nell’atto medesimo, veniva dato atto che il ricorrente aveva mantenuto ed assistito il padre (e la madre) fin dal 1974 pur senza esservi contrattualmente obbligato. La – comunque – intervenuta trasformazione del contratto di mantenimento in un contratto di rendita era senz’altro sufficiente ad escludere l’applicazione dell’art. 1453 c.c. Sul punto anche la sentenza della Corte d’Appello appare del tutto erronea. Si legge, infatti, che “un contratto redatto nella forma di atto pubblico può essere risolto solo con la stessa forma” (p. 10) e, in sostanza, il fatto che […] avesse richiesto una somma a titolo di occupazione degli immobili non era sufficiente a sostenere che lo stesso avesse trasformato il contratto in un normale vitalizio: poco importa se, nella fattispecie, a sostegno della propria pretesa lo stesso avesse invocato un proprio presunto stato di bisogno, che il figlio avesse corrisposto le somme e le stesse fossero state accettate a titolo di mantenimento. Nella fattispecie, inoltre, le parti non avevano inteso risolvere un contratto stipulato con la forma di atto pubblico (come lascia intendere il testo della sentenza) bensì avevano semplicemente provveduto a sostituire una obbligazione con un’altra. Ciò nondimeno, non sfuggirà che l’unico requisito richiesto da dottrina e giurisprudenza per l’applicabilità al “vitalizio alimentare” della normativa in tema di rendita vitalizia, sia la forma scritta. Con il quinto motivo […] denuncia “Omessa ed insufficiente motivazione su alcuni punti decisivi della controversia prospettati dal ricorrente” esponendo le seguenti doglianze. Il ricorrente allegava al proprio atto di appello, copia dell’atto 01.03.94 rep. [..] Notaio […] di Padova, col quale le parti provvedevano all’identificazione catastale degli immobili di cui al contratto 30. 01.1981 notaio […], autorizzando contestualmente le volture. Ora, la Corte d’appello non ha dato alcun rilievo a tale documento, neppure come indice dell’asserita riappacificazione. In verità, l’assunto della Corte appare erroneo e contraddittorio, quantomeno in relazione alla motivazione adottata nei capi precedenti della sentenza, ove ha ravvisato elementi a sostegno della tesi circa l’abbandono da parte del […] delle domande di cui ai nn. 1, 2, 3, 4, 5 delle proprie conclusioni di riconvenzionale, dalla condotta processuale ed extra processuale di questi. Nella fattispecie, appariva evidente che l’atto di identificazione catastale, con contestuale autorizzazione all’effettuazione delle volture, era atto assolutamente ed innegabilmente in contrasto non solo con la pendenza e l’esistenza, tra le parti, della causa “de quo”, ma anche con la stessa tesi sostenuta dall’attore e con le domande proposte in giudizio. Del pari, la Corte liquida piuttosto semplicisticamente la questione sul motivo, invocato dal […], che non sarebbe comunque avvenuto l’inadempimento lamentato, giudicando al riguardo “non probanti” sia le prove documentali che le circostanze invocate dall’appellante. Infatti, premesso che – come espresso nel contratto impugnato – già a partire dal 1974 il Sig. […] aveva provveduto a mantenere ed assistere sia il […] che la madre, la Corte d’Appello non ha rilevato come, anche nel corso ed in pendenza della causa, il […] avesse continuato ad assistere tanto il padre che la madre, sostenendo perfino integralmente le spese funerarie alla morte degli stessi. La Corte ha ritenuto per contro provato l’inadempimento alle obbligazioni derivanti da un contratto di vitalizio, sulla base delle testimonianze – comunque inattendibili – delle sorelle che da decenni non vedevano ne’ frequentavano il padre. Ulteriormente insufficiente appare la motivazione adottata dalla Corte in relazione alla circostanza, documentalmente prodotta in corso di causa, che il […] (oltre alla pensione e ad avere pagate dal figlio tutte le utenze domestiche) aveva la libera disponibilità di un conto corrente bancario presso la Banca Popolare […] filiale di […], intestato anche al figlio […], e sul quale quest’ultimo effettuava rimesse periodiche. Sempre secondo la documentazione prodotta in appello (missive tra Avv. […] e Avv. […]), risulta che addirittura il […] avesse prestato una cospicua somma di denaro al genero Sig. […]. Con il sesto motivo […] denuncia “Violazione dell’art 246 c.p.c. Insufficiente ed erronea motivazione” esponendo le seguenti doglianze. Sia nel corso del giudizio di primo grado che in quello d’appello, il ricorrente eccepiva l’incapacità dei testi […], […], […] e dei rispettivi mariti e/o figli, in virtù dell’evidente interesse che gli stessi avevano all’esito del giudizio; dalle stesse espressioni utilizzate dall’attore […] (che sarebbe stato spogliato dei beni dal figlio […] a “scapito delle tre sorelle”) erano e sono tuttora intuitivamente e facilmente identificabili i veri e sostanziali “attori”. Già nel corso del giudizio di primo grado e prima della pronuncia stessa della sentenza, l’interesse che poteva apparire solo “non attuale” in capo ai predetti testi, era divenuto tangibile e concreto in conseguenza dell’avvenuta morte del padre ultraottantenne. In sostanza, le dichiarazioni testimoniali sono state quantomeno valutate dai giudici di merito in un momento in cui l’interesse dei testi era già divenuto concreto ed attuale e, per tale motivo, doveva comunque considerarsi ineluttabilmente “minata” la loro attendibilità, visto che gli stessi all’atto della deposizione testimoniale erano ben a conoscenza (oltre che dell’età estremamente avanzata) anche delle condizioni di salute del […], che prevedibilmente difficilmente avrebbe potuto assistere all’esito del giudizio. La Corte ritiene “non ipotizzatole ne’ verosimile” (pag. 12) che le figlie di […] si siano disinteressate dell’assistenza dei genitori perché l’obbligo giuridico era stato assunto dal fratello: ciò anche in aperto contrasto con la dichiarazione scritta rilasciata dalla stessa Sig.ra […] e che, sebbene scomoda e del tutto favorevole alla tesi del […], non è mai stata minimamente considerata, nemmeno al fine di valutare l’attendibilità dei testi.
Anche i motivi in esame non possono essere accolti (infatti deve ritenersi immune dai vizi denunciati l’impugnata decisione). La tesi in diritto che il contratto “di mantenimento vitalizio” è da “…ritenere una sottospecie del contratto di rendita vitalizia…” e che è quindi applicabile l’art. 1878 c.c. che preclude la risoluzione del contratto è errata.
Premesso che la Corte di mento ha usato l’espressione “mantenimento vitalizio” evidentemente in quanto corrispondente all'”… intestazione…” nella specie del negozio, ma ha individuato in esso il contratto generalmente individuato in giurisprudenza con l’espressione “vitalizio alimentare” (come si evince chiaramente dal contesto della motivazione ed in particolare dalla giurisprudenza citata), va confermata la validità dei principi di diritto esposti nell’impugnata sentenza ed in particolare nella seguente decisione di questa Corte suprema (citata dalla Corte d’Appello) e nelle successive conformi: “Il vitalizio alimentare, con il quale una parte si obbliga, in corrispettivo dell’alienazione di un immobile o della attribuzione di altri beni od utilità’, a fornire all’altra parte vitto, alloggio ed assistenza, per tutta la durata della vita ed in correlazione ai suoi bisogni, è soggetto al rimedio della risoluzione per il caso d’inadempimento, tenendo conto che si tratta di contratto atipico, non riconducibile, per peculiarità dell’alea, delle prestazioni del vitaliziante e della funzione perseguita, nell’ambito della rendita vitalizia, e, quindi, sottratto all’applicazione diretta dell’art. 1878 cod. civ., in tema di esclusione della risoluzione in ipotesi di mancato pagamento di rate di rendita scadute, e che, inoltre, tale norma, la quale trova giustificazione nella non gravità della turbativa dell’equilibrio negoziale in presenza di inadempienza nel pagamento di dette rate di rendita, oltre che nella possibilità di un soddisfacimento coattivo del creditore, non è suscettibile di applicazione analogica al vitalizio alimentare, caratterizzato da prestazioni indispensabili per la sopravvivenza del creditore, in parte non fungibili e basate sullo ‘intuitus personae'” (Cass. SEZ. U. n. 0 8432 del 18/08/1990; cfr. tra le più recenti Cass. n. 0 7033 del 29/05/2000: “È legittimamente configurabile, in base al principio dell’autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 cod. civ., un contratto atipico di cosiddetto “vitalizio alimentare”, autonomo e distinto da quello, nominato, di rendita vitalizia di cui all’art. 1872 stesso codice, sulla premessa che i due negozi, omogenei quanto al profilo della aleatorietà, si differenziano perché nella rendita alimentare, le obbligazioni dedotte nel rapporto hanno ad oggetto prestazioni assistenziali di dare prevalentemente fungibili (e quindi, assoggettabili, quanto alla relativa regolamentazione, alla disciplina degli obblighi alimentari dettata dall’art. 433 cod. civ.), mentre nel vitalizio alimentare le obbligazioni contrattuali
hanno come contenuto prestazioni (di fare e dare) di carattere accentuatamente spirituale e, in ragione di ciò’, eseguibili unicamente da un vitaliziante specificatamente individuato alla luce delle sue proprie qualità’ personali, con la conseguenza che a tale negozio atipico è senz’altro applicabile il rimedio della risoluzione per inadempimento di cui all’art. 1453 cod. civ., espressamente esclusa, per converso, con riferimento alla rendita vitalizia”).
Per la parte residua i motivi di ricorso in esame sono (prima ancora che privi di pregio, in quanto l’impugnata decisione è in ogni punto immune dai vizi denunciati) inammissibili per le seguenti ragioni (ciascuna delle quali decisiva): -A) le tesi che […] aveva accettato la somma mensile di L. 300.000 a titolo di mantenimento, che era avvenuta la suddetta pacificazione, che il contratto di mantenimento si era trasformato in contratto di rendita vitalizia e che l’inadempimento non era avvenuto (nonché le altre affermazioni in fatto esposte dal ricorrente) sono affermate talora addirittura in modo del tutto apodittico; ma comunque sempre senza riportare ritualmente il contenuto delle risultanze processuali sulle quali si basano (“Nel giudizio di legittimità, il ricorrente che deduce l’omessa o insufficiente motivazione della sentenza impugnata per mancata o erronea valutazione di alcune risultanze probatorie ha l’onere, in considerazione del principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, di specificare, trascrivendole integralmente, le prove non (o mal) valutate, nonché di indicare le ragioni del carattere decisivo delle stesse”; v. tra le altre Cass. n. 2838 del 25/03/1999 e Cass. n. 3284 del 05/03/2003; cfr. Cass. a SEZ. U n. 9561 del 16/06/2003); -B) anche laddove detto contenuto è riportato (sia pure in misura insufficiente e quindi in ogni caso inammissibile) ci si trova comunque di fronte a risultanze che debbono ritenersi (per quanto si può giudicare data detta misura insufficiente) prive del requisito della decisività; -C) la motivazione contenuta Dell’impugnata sentenza (sufficiente anche se talora parzialmente implicita su tutti i punti in esame) non viene specificamente e ritualmente presa in esame (ad es. a pag. 11 dell’impugnata sentenza la Corte afferma che la validità delle testimonianze delle sorelle dell’attuale ricorrente non è inficiata in quanto esse sono state “…rese quando le dichiaranti non erano e non potevano essere parti del giudizio…”; di fronte a tale precisa argomentazione (che comunque si sottrae al sindacato di legittimità in quanto immune da vizi denunciati) il ricorrente osserva anzitutto (v. sopra) che “…In sostanza, le dichiarazioni testimoniali sono state quantomeno valutate dai giudici di merito in un momento in cui l’interesse dei testi era già divenuto concreto ed attuale…” ma tale rilievo (oltre ad apparire di per sè privo di concreta rilevanza) non prende in rituale considerazione la specifica predetta ratto decidenti, concernente il momento in cui le deposizioni sono state rese e non il momento in cui sono state valutate dal Giudicante); -C) infine, quanto alla valutazone delle risultanze istruttorie, occorre rilevare che “il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ., sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito,
quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte perché la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico – formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutatone fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, all’uopo, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione” (Cass. S. U n. 05802 dell’11/06/1998); nella specie le doglianze, al di là della loro formale enunciazione, consistono in sostanza in una diversa valutazone in ordine alla scelta, all’interpretazione, all’attendibilità ed alla concludenza delle risultanze istruttorie idonee a chiarire i fatti in contestazione, e non costituiscono quindi rituali motivi di ricorso.
Con il settimo motivo […] denuncia “Violazione dell’art. 2697 cc.” esponendo le seguenti doglianze. Secondo la Corte d’Appello, le “incertezze e le carenze” probatorie evidenziate dall’appellante […] sono irrilevanti in quanto “nel caso di specie era il convenuto che doveva provare l’adempimento delle prestazione dovuta al padre in base al contratto 30.01.1981, sicché le parziali carenze ed incertezze probatorie si traducono quanto meno in mancata prova dell’adempimento”. L’assunto è palesemente in contrasto con il principio fondamentale stabilito dall’art. 2697 cc. in materia di onere della prova Qualora si chieda l’esecuzione del contratto e l’adempimento delle relative obbligazioni è sufficiente che l’attore provi il titolo che costituisce la fonte del diritto vantato e cioè l’esistenza del contratto e dell’obbligo che si assume inadempiuto; viceversa, se si domanda invece la risoluzione per inadempimento di un’obbligazione, l’attore è tenuto a provare anche il fatto che legittima la risoluzione, ossia l’inadempimento e le circostanze inerenti in funzione delle quali esso assume giuridica rilevanza (Cass. 17.08.1990 n. 8336). Al convenuto spetta eventualmente l’onere probatorio di “essere immune da colpa solo quando l’attore abbia provato il fatto costitutivo dell’inadempimento” (Cass. 29.01.1993 n. 1119), cosa che nella fattispecie non poteva dirsi avvenuta. Il motivo non può essere accolto. Infatti, secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte “In tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell’onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché’ il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l’altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà’ dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione). Anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità’ quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento” (Cass. SEZ. U n. 13S 33 del 30/10/2001; v. inoltre tra le ultime Cass. n. 0 5135 del 03/04/2003, conforme a detta sent. S.U. n. 15133/01; e Cass. n. 2647 del 21/02/2003 parimenti conforme). Con l’ottavo motivo […] denuncia “Omessa pronuncia sulla richiesta di giuramento decisorio deferito dal ricorrente, Violazione e falsa applicazione degli artt. 2737 c.c., 2739 c.c., 233 c.p.c., 237 c.p.c.” esponendo le seguenti doglianze. Il ricorrente, nel corso del giudizio d’Appello, provvedeva a deferire alla controparte giuramento decisorio su una serie di circostanze comuni ad entrambe le parti, e dalle quali intendeva far dipendere l’esito della causa. Al riguardo la controparte si limitava ad eccepire l’inammissibilità delle circostanze articolate. Sul punto, la Corte non ha adottato alcuna decisione limitandosi, solo in sentenza, ad assumere l’inammissibilità del giuramento decisorio deferito da […] al padre già deceduto. In verità, considerato che il …] era pacificamente parte del giudizio, non essendone stata dichiarato la morte dal rispettivo procuratore, ne deriva che il giudice dell’appello avrebbe dovuto comunque ammettere il giuramento; l’art. 2737 c.c. richiede la capacità della persona al limitato fine di “deferire o riferire il giuramento”. Nella fattispecie, la morte del […] rappresentava semmai una mera preclusione alla prestazione del giuramento e, comunque, un fatto processualmente irrilevante fino all’eventuale dichiarazione fattane dal difensore. Del pari, si ritiene che il giuramento decisorio articolato dal […] andava semmai ammesso e, all’esito dell’eventuale interruzione del giudizio e della eventuale costituzione degli altri eredi, il […] avrebbe dovuto e potuto valutare se deferire il giuramento agli eredi, con trasformazione della formula da “de ventate” in “de scientia”.
Il motivo è privo di pregio dato che anche sul punto in esame la decisione è immune dai vizi denunciati; ed in particolare in quanto la tesi essenziale esposta dal ricorrente è errata, dovendo invece essere affermato il seguente principio di diritto: in tema di giuramento decisorio, l’avvenuta morte del soggetto che lo dovrebbe prestare (qualora pacifica o comunque provata, anche se non dichiarata ex art. 300 c.p.c.) costituisce una valida ragione per non ammetterlo.
Con il nono motivo […] denuncia “Omessa ed erronea motivazione sull’istanza istruttoria di confronto fra i testi” esponendo le seguenti doglianze. La Corte d’Appello respingeva la richiesta di confronto dei testi avanzata da […], “non essendo neanche indicata la specifica circostanza di contrasto delle relative testimonianze”. In verità le circostanze erano state espressamente e specificamente indicate “per relationem” al solo fine di non appesantire ulteriormente gli atti del giudizio, riportandosi integralmente ad una istanza già proposta nel verbale d’udienza del 26.11.92. Tra le conclusioni del […] appare, infatti, chiaramente indicato che il confronto dei testi veniva richiesto in relazione ai capitoli sui quali erano stati sentiti “e sulle circostanze evidenziate sopra al n. 5 nonché come da verbale d’udienza del 26.11.92”.
Anche questo motivo non può essere accolto in quanto inammissibile (dato che in violazione del sopra citato principio di autosufficienza del ricorso “la specifica circostanza di contrasto delle relative testimonianze” continua a non essere ritualmente riportata anche nel presente giudizio di Cassazione) prima ancora che priva di pregio (in quanto anche sul punto de quo la decisione è immune da vizi; si consideri tra l’altro che persino secondo quanto emerge dal motivo, non si è di fronte a divergenze specifiche e ben identificate ma a divergenze indicate, pure innanzi al Giudice di merito, in termini inammissibilmente generici).
Sulla base di quanto sopra esposto il ricorso va respinto.
[…]