[…]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato in data 27/10/81 il sig. […] conveniva la società […] s.r.l. avanti al Tribunale di Cagliari per ivi sentir accertare e dichiarare “il grave inadempimento della convenuta” e la legittimità del proprio recesso dal contratto con la medesima stipulato in data 25 novembre 1980 di locazione di un seminterrato sito in Quartu S. Elena “da adibire a deposito merci”.
Esponeva al riguardo che, seppure fissata la decorrenza della locazione per la data del 25 novembre 1980, l’inizio del pagamento dei canoni era stato stabilito per il 1 gennaio 1981, essendo ancora in corso lavori di ultimazione, e di aver conseguito la effettiva disponibiltà dei locali soltanto nell’ultima decade di gennaio del 1981, senza che gli venissero peraltro consegnati i certificati di abitabilità e di uso commerciale, indispensabili per poter utilizzare i locali per depositarvi le merci.
Aveva successivamente appreso del mancato rilascio dei suindicati certificati da parte delle competenti autorità amministrative nonché, conseguentemente, dell’autorizzazione sanitaria all’uopo necessaria, e non avendo potuto utilizzare quale deposito commerciale il magazzino locato era stato costretto ad interrompere alcuni rapporti di fornitura di generi di erboristeria, dietetica e macrobiotica che l’avevano condotto a porre fine all’attività cui il locale era destinato, sicché si era finalmente indotto a recedere dal contratto di locazione in questione.
Nella resistenza della società convenuta, con sentenza parziale dell’8/2/90 l’adito giudice dichiarava risolto il contratto per inadempimento della locatrice, che condannava altresì al pagamento delle spese di lite.
Interposto gravame dalla società […] s.r.l., cui resisteva il […], con sentenza del 15/4/2002 la Corte d’Appello di Cagliari, in accoglimento dell’impugnazione ed in riforma dell’impugnata decisione di primo grado, nel disattendere l’istanza istruttoria di deferimento del giuramento suppletorio proposta in via subordinata rigettava tutte le domande originariamente formulate dal […], con conseguente condanna del medesimo alla rifusione delle spese del doppio grado di giudizio.
Esponeva al riguardo che ai sensi del R.D. n. 1265 del 1934, art. 221 (T.U. delle Leggi Sanitarie) il certificato di abitabilità è irrilevante con riferimento a locali destinati – come nel caso in esame – ad uso diverso da abitazione; che vi era stata da parte del conduttore appellato una utilizzazione in concreto dell’immobile locato con (quantomeno un “tentativo” di) modificazione della destinazione d’uso dell’immobile contrattualmente pattuita quale “deposito merci” in quella di “deposito commerciale”, confermata anche dalla assunta prova testimoniale; che “la riflessione sulla notevole differenza concettuale determina una ipotesi di palese inadempimento negoziale da parte del conduttore”; che in base ad “orientamento giurisprudenziale sul punto, ormai consolidato in sede di legittimità”, non è “onere del locatore ottenere le eventuali autorizzazioni amministrative necessarie per l’uso del bene locato”, salvo patto contrario nel caso invero non emergente dallo stipulato contratto.
Avverso la suindicata sentenza della corte di merito ricorre ora per Cassazione il […], sulla base di 4 motivi.
Resiste la società società […] s.r.l., con controricorso illustrato da memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il 1 motivo il ricorrente denunzia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, concernente la destinazione del locale.
Si duole in particolare che la corte di merito abbia immotivatamente ravvisato la sussistenza della sua “intenzione” di ottenere il mutamento della destinazione d’uso contrattualmente pattuita dell’immobile allo scopo di “aprire un esercizio commerciale destinato alla vendita al pubblico”, per poter a fine rapporto locatizio così conseguire quell’indennità di avviamento che in sede di negoziazione era rimasta viceversa esclusa.
Deduce che la Corte d’Appello di Cagliari ha valorizzato la deposizione testimoniale di un funzionario comunale al riguardo invero inidonea; che non vengono nel caso in rilievo i contatti con il pubblico; che non sono stati considerati i contratti, prodotti in atti, da lui stipulati con imprese quali la […], […] ed […], delle quali era divenuto concessionario, svolgendo pertanto un’attività che “contrasta” con la vendita al pubblico. Sostiene che tale giudice avrebbe dovuto considerare che (anche) per utilizzare il locale ad uso deposito di merci è invero necessaria la certificazione da parte dell’Ufficiale sanitario del Comune, oltre al fatto che la stessa società locatrice aveva costruito su sua richiesta bagno e antibagno, nonché apposto delle zanzariere, stante la necessità di assicurare la necessaria protezione e la salubrità dell’immobile locato.
Con il 2 motivo, denunziando violazione e falsa applicazione di norme di diritto nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in relazione all’art. 221 del citato (T.U. delle Leggi Sanitarie), il ricorrente invoca l’autorità della pronunzia Cass., Sez. Un. Pen., 6/7/1996, n. 6818 (Timpani), ove si è affermato essere la licenza di abitabilità necessaria anche nel caso in cui un edificio venga destinato ad usi diversi da quello abitativo, non essendo il D.L. 5 ottobre 1993, n. 398, art. 4 (unica fonte normativa che distingueva tra “certificato di abitabilità” e “certificato di agibilità”, riservando il primo agli immobili destinati ad uso abitativo ed il secondo a quelli utilizzati in modo diverso), più in vigore sin dal 28 luglio 1994, dal tempo cioè di efficacia del D.P.R. n. 425 del 1994, il quale tale distinzione ha soppresso prescrivendo che ai fini dell’utilizzabilità – in tutto o in parte – degli edifici il proprietario è tenuto a richiedere il certificato di abitabilità.
Con il 3 motivo, denunziando violazione e falsa applicazione di norme di diritto nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, con riferimento agli artt. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in relazione alla clausola contrattuale riguardante la destinazione dell’immobile locato ad uso “deposito merci”, il ricorrente lamenta in particolare l’apoditticità e l’infondatezza della distinzione dalla Corte d’Appello operata tra “deposito merci” e “deposito commerciale”, ribadendo il proprio diritto ad ottenere in ogni caso un locale a norma di legge ed oggettivamente idoneo alla sua naturale utilizzazione.
I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto logicamente connessi, sono fondati e vanno accolti nei termini di seguito indicati.
Nell’impugnata sentenza la corte di merito afferma essere la licenza di abitabilità nel caso che ne occupa del tutto irrilevante, avendo il contratto di locazione ad oggetto un immobile destinato ad uso diverso da abitazione.
Come già posto in rilievo da Cass. Sez. Un. Pen., 19/6/1996, n. 6816, P.M. in proc. Timpani (richiamata anche dal ricorrente), è invero ormai superato il risalente orientamento (per il quale v. Cass. pen., sez. 3^, 20/1/1981, n. 3887, Canali) secondo cui l’obbligo di munirsi dell’autorizzazione all’abitabilità era prescritta soltanto per gli immobili adibiti ad uso abitativo, per quelli aventi diversa destinazione viceversa esistendo adempimenti sostitutivi ugualmente idonei alla salvaguardia delle esigenze igienico-sanitarie tutelate dal R.D. 27 luglio 1934 n. 1265, art. 221. Orientamento interpretativo che era rimasto disatteso, in accordo con la migliore dottrina, già dalla successive pronunzie di questa Corte (v. Cass. Pen., sez. 3^, 23/1/1985, Spanò; Cass. Pen., sez. 4^, 11/1/1983, Paglianti; Cass. Pen., sez. 3^, 22/4/1985, Barberis; Cass. pen., sez., Sez. 3^, 21/8/1986, Pitella; Cass. Pen., sez. 4^, 28/6/1989, Nobile; Cass. Pen., sez. 1^, 29/3/1989, Montecucco; Cass. Pen., sez. 3^, 13/7/1992, Santulli; Cass. Pen., sez. 4^, 7/2/1994, Ferrante; Cass. pen., sez. 3^, 30/6/1995, n. 1758, Menaldo; Cass. pen., sez. 3^, 16/1/1996, n. 120, P.G. in proc. Boldrini; Cass. pen., sez. 3^, 3/11/1995, n. 3704, P.M. in proc. Cialdi ed altri; Cass. pen., sez. 3^, 19/9/1997, n. 923, P.M. in proc. Riccardi; Cass. pen., sez. 3^, 5/2/1998, n. 503, P.M. in proc. Petrucci ed altro. Contra, nel senso che la mancanza del certificato di abitabilità non integra più il reato di cui al citato art. 221 per intervenuta abrogazione da parte del D.P.R. n. 425 del 1995, art. 5 v. Cass. pen., sez. 3^, 27/1/1996, n. 812, Caltabiano), prima dell’emanazione del D.P.R. 22 aprile 1994, n. 425, che ha soppresso la distinzione tra il certificato di “abitabilità”, riservato agli immobili destinati ad uso abitativo, e quello di “agibilità”, relativo agli immobili utilizzati ad uso diverso da abitazione, posta dal D.L. 5 ottobre 1993, n. 398, art. 4, non più in vigore sin dal 28 luglio 1994.
Con la conseguenza che la disciplina normativa unitaria del procedimento autorizzativo, correlata alla ineludibile ed insostituibile necessità di tutelare le condizioni igienico- sanitarie degli edifici a qualsiasi titolo frequentati dalle persone fisiche, non può essere in alcun modo rimessa in discussione (v. la citata Cass. Sez. Un. Pen., 19/6/1996, n. 6816, P.M. in proc. Timpani).
Il D.P.R. 22 aprile 1994, n. 425, art. 4 (emanato in attuazione della delega di cui alla L. n. 537 del 1992, art. 2, comma 7) prevede che “1. Affinché gli edifici, o parti di essi, indicati nel R.D. 27 luglio 1934, n. 1265, art. 220, possano essere utilizzati, è
necessario che il proprietario richieda il certificato di abitabilità al sindaco, allegando alla richiesta il certificato di collaudo, la dichiarazione presentata per l’iscrizione al catasto dell’immobile, restituita dagli uffici catastali con l’attestazione dell’avvenuta presentazione, e una dichiarazione del direttore dei lavori che deve certificare, sotto la propria responsabilità, la conformità rispetto al progetto approvato, l’avvenuta prosciugatura dei muri e la salubrità degli ambienti. 2. Entro trenta,giorni dalla data di presentazione della domanda, il sindaco rilascia il certificato di abitabilità; entro questo termine, può disporre una ispezione da parte degli uffici comunali, che verifichi l’esistenza dei requisiti richiesti alla costruzione per essere dichiarata abitabile. 3. In caso di silenzio dell’amministrazione comunale, trascorsi quarantacinque giorni dalla data di presentazione della domanda, l’abitabilità si intende attestata. In tal caso, l’autorità competente, nei successivi centottanta giorni, può disporre l’ispezione di cui al comma 2 del presente articolo, e, eventualmente, dichiarare la non abitabilità, nel caso in cui verifichi l’assenza dei requisiti richiesti alla costruzione per essere dichiarata abitabile. 4. Il termine fissato al comma 2 del presente articolo, può essere interrotto una sola volta dall’amministrazione comunale esclusivamente per la tempestiva richiesta all’interessato di documenti che integrino o completino la documentazione presentata, che non siano già nella disponibilità dell’amministrazione, e che essa non possa acquisire autonomamente. 5. Il termine di trenta giorni, interrotto dalla richiesta di documenti integrativi, inizia a decorrere nuovamente dalla data di presentazione degli stessi”.
In giurisprudenza di legittimità si è già affermato che, atteso il tenore della sopra trascritta norma ed in assenza di patto contrario, incombe all’alienante o disponente (con riferimento al venditore v. Cass., 4/11/1995, n. 11521; Cass., 26/1/1995, n. 953; Cass., 17/12/1993, n. 12507) l’obbligo di curare l’ottenimento del certificato di abitabilità, posto a tutela delle esigenze igieniche e sanitarie nonché degli interessi urbanistici, richiedenti l’accertamento pubblico della sussistenza delle condizioni di salubrità, stabilità e sicurezza dell’edificio (v. Cass. pen., 7/2/1997, n. 4311), attestante l’idoneità dell’immobile ad essere “abitato” e più generalmente ad essere frequentato dalle persone fisiche.
In presenza, come nel caso, di contratto di locazione, pertanto, tale obbligo deve ritenersi incombere (diversamente invero che per le ipotesi di autorizzazioni amministrative – come ad es. l’iscrizione alla Camera di commercio ovvero di quelle di pubblica sicurezza necessarie all’esercizio di specifiche attività o per poter adibire l’immobile a pubblici spettacoli, (peraltro di mero rilievo pubblicistico ed inidonee ad incidere sul rapporto privatistico: cfr. Cass., 19/1/1999, n. 463) – al locatore, quale proprietario o comunque titolare del potere di disposizione sulla cosa. La mancanza del certificato di abitabilità si è ritenuta determinare, sul piano civilistico, la nullità del contratto per illiceità dell’oggetto (v. Cass., 29/3/1995, n. 3687; Cass., 11/8/1990, n. 8199) ovvero quale ipotesi di aliud pro alio (v. Cass., 11/2/1998, n. 1381; Cass., 20/1/1996, n. 442; Cass., 10/6/1991, n. 6576; Cass., 5/11/1990, n. 10616; Cass., 11/8/1990, n. 8199; Cass., 20/12/1985, n. 6542; Cass., 20/1/1983, n. 2398). Come osservato anche in dottrina, l’obbligo del preventivo rilascio del certificato di abitabilità non trova peraltro fondamento normativo, atteso che l’utilizzazione dell’immobile privo del certificato di abitabilità è altro rispetto alla relativa negoziazione, che non è necessariamente preclusa dalla (temporanea) mancanza di tale atto amministrativo (cfr. Cass., 11/8/1990, n. 8199. V. anche Cass., 5/10/2000, n. 13270). Anche la tesi dell’aliud pro alio non appare del tutto convincente, in quanto nel caso ricorre un’ipotesi di inesattezza giuridica della prestazione ridondante in termini di inadempimento, piuttosto che sul piano della invalidità, del contratto, legittimante il ricorso ai generali rimedi in proposito previsti.
Va al riguardo osservato che se in termini generali la mancanza del certificato di abitabilità – per non essere stato il provvedimento ancora richiesto o rilasciato – viene a configurare una situazione d’inadempimento in ragione dell’iniziale inettitudine della cosa a soddisfare l’interesse dell’acquirente del diritto reale o di credito sulla cosa, laddove essa risulti – come nel caso in esame – nota alle parti può invero non precludere la negoziazione dell’immobile, l’inadempimento divenendo definitivo solamente allorquando il relativo rilascio risulti definitivamente negato. A tale stregua, se non può escludersi che l’immobile privo di licenza di abitabilità possa essere oggetto di una valida costituzione di rapporto locatizio, il definitivo diniego del rilascio del certificato di abitabilità legittima il ricorso ai rimedi della risoluzione del contratto e del risarcimento del danno (cfr. Cass., 21/12/2004, n. 23695; Cass., 5/11/2002, n. 15489; Cass., 10/8/2001, n. 11055; Cass., 12/9/2000, n. 12030; Cass., 16/9/1996, n. 8285). Nell’impugnata sentenza la Corte d’Appello di Cagliari non si è invero attenuta ai suesposti principi, in particolare laddove, senza dare atto della sussistenza nella specie di uno specifico patto contrario intervenuto tra le parti, ed invocando un “orientamento giurisprudenziale” al riguardo “ormai consolidato in sede di legittimità”, afferma per converso che “salvo patto contrario” non è “onere del locatore ottenere le eventuali autorizzazioni amministrative necessarie per l’uso del bene locato”, aggiungendo non risultare nel caso invero “previsto dal contratto che tali autorizzazioni dovessero essere richieste dalla locatrice”. Atteso quanto sopra rilevato ed esposto in ordine alla ineludibile necessità di tutela delle condizioni igieniche sanitarie degli edifici frequentati da persone a qualsivoglia uso destinati, risulta invece superflua ogni distinzione tra uso a fini di “deposito merci” ed uso con finalità di “deposito commerciale”, tra i quali la corte di merito ha ravvisato “una sensibile differenza”, una “notevole differenza concettuale”, invero immotivata e, diversamente da quanto da tale giudice affermato, in ogni caso irrilevante “ai fini della decisione”.
Distinzione, va ulteriormente osservato, che il giudice dell’appello ha argomentato essenzialmente dall’assunta prova testimoniale, senza peraltro in proposito darne sufficiente e congrua motivazione, essendosi sul punto limitato ad affermare che “il funzionario dell’amministrazione comunale preposto al rilascio delle autorizzazioni ha affermato di ricordare vagamente che il rifiuto del provvedimento richiesto dal conduttore fosse dovuto a motivi di ordine tecnico”; e che “La prova tuttavia fornisce anche degli elementi contrari alla tesi dell’appellato, in quanto, in relazione al contenuto del provvedimento richiesto, il funzionario ha parlato genericamente di mutamento della destinazione d’uso…”. Pervenendo quindi alla conclusione che “ciò, anche alla luce della stessa prospettazione enunciata in citazione, consente comunque di ritenere che il conduttore abbia cercato di ottenere un mutamento di destinazione dell’immobile d’uso del locale, per adibirlo ad esercizio commerciale, in palese violazione della clausola contrattuale che ne prevede l’uso solo come deposito merci”. Conclusione invero apoditticamente formulata e non esaustivamente argomentata, non riuscendo ad evincersi nemmeno il nesso logico tra l’asserzione secondo cui il rilevato mutamento di destinazione risulterebbe confermata “dal contenuto di una precisazione richiesta al teste, rispondendo alla quale egli ha detto che per il mutamento di destinazione l’autorizzazione sanitaria era richiesta solamente per i locali destinati alla vendita di alimenti o bevande” e quanto il giudice del gravame di merito ne fa discendere in termini di idoneità ad “evidentemente” dimostrare che l’intenzione dell’appellato fosse quella di ottenere il mutamento di destinazione per aprire un esercizio commerciale destinato alla vendita al pubblico”.
Con il 4^ motivo il ricorrente denunzia vizi di motivazione in relazione al mancato accoglimento della richiesta, formulata in via subordinata istruttoria, di deferimento del giuramento suppletorio, lamentando che erroneamente la corte di merito non vi aveva dato corso pur in presenza dell’accoglimento della sua domanda in 1 grado, deponente per la sussistenza “quantomeno” della “prova semipiena”. Il motivo è infondato.
Come da questa Corte invero già affermato, il potere del giudice di merito di deferire il giuramento suppletorio ha natura eminentemente discrezionale, trattandosi di mezzo di prova eccezionalmente sottratto alla disponibilità delle parti ed ammissibile d’ufficio (v. Cass. n. 2659 del 2004; Cass. n. 101 del 2003). E la valutazione circa la sussistenza o meno dei presupposti per detto deferimento ex art. 2736 c.c., n. 2, che è costituito dall’esaurimento dei mezzi istruttori richiesti dalle parti senza che sia stata raggiunta la prova piena in favore di uno dei contendenti, nonché circa l’opportunità di avvalersi di tale mezzo e la scelta della parte che deve giurare, integra un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale è tenuto soltanto ad esporre le ragioni delle risoluzioni adottate (v. Cass. n. 173 del 1986), peraltro in termini congrui, nel qual caso rimane sottratto al controllo in sede di legittimità (v. Cass. n. 2659 del 2004; Cass. n. 101 del 2003). Orbene, nel fare esercizio dei propri poteri discrezionali in proposito, la Corte di merito ha invero congruamente esposto le ragioni che l’hanno indotta a rigettare la richiesta di deferimento del medesimo formulata in via subordinata istruttoria dall’odierno ricorrente, affermando difettarne nel caso i presupposti in ragione della ravvisata sussistenza di una prova piena, e non già semipiena/ in ordine ai fatti di causa. Al riguardo invero divisando in termini intrinsecamente coerenti con la decisone assunta nel definire l’impugnazione di merito avanti a sè proposta.
L’accoglimento dei primi tre motivi del ricorso comporta la cassazione in relazione dell’impugnata sentenza, con rinvio ad altra sezione della detta Corte d’Appello che procederà ad un nuovo esame della fattispecie e degli enunziati principi farà applicazione, provvedendo anche in ordine alle spese del giudizio di Cassazione. […]