[…]
La Corte:
OSSERVA
1) […] ha proposto ricorso avverso la sentenza 3 luglio 2006 della Corte d’Appello di Bologna che ha confermato la sentenza 22 dicembre 2004 del Tribunale di Ravenna che l’aveva condannato alla pena ritenuta di giustizia per il reato di lesioni colpose in danno di […] commesso in Alfonsine il 30 luglio 1999. I giudici di merito hanno accertato che la persona offesa aveva subito lesioni gravi a seguito di un infortunio sul lavoro verificatosi mentre era addetta, all’interno dello stabilimento della s.r.l. […], alle operazioni compiute con una macchina denominata “cluster baulettatrice”; la lavoratrice aveva cercato di intervenire nella parte inferiore della macchina per eliminare l’inceppamento che si era verificato ma il meccanismo si era rimesso improvvisamente in moto provocando lesioni all’avambraccio destro. In particolare la Corte di merito, ricostruendo i fatti in modo parzialmente diverso rispetto a quanto compiuto dal Tribunale che aveva ritenuto che la lavoratrice avesse aperto gli sportelli superiori ma non avesse pigiato il pulsante rosso di emergenza perché non sufficientemente istruita sulla necessità, in caso di inceppamento della macchina, di attivare entrambi i sistemi di sicurezza (apertura sportelli superiori della macchina e attivazione pulsante rosso) ed inoltre era intervenuta nella parte inferiore della macchina, intervento riservato a personale specializzato – ha ritenuto che non fosse stato accertato che gli sportelli superiori erano stati aperti e che l’infortunio si fosse verificato sia per la mancata attivazione del pulsante rosso sia per l’acquisita abitudine di operare anche nella parte inferiore della macchina riservata ai tecnici.
In ogni caso ha ritenuto che la colpa dell’imputato – responsabile del servizio di prevenzione protezione all’interno dello stabilimento – fosse consistito nell’aver consentito che le lavoratrici compissero, al fine di velocizzare le operazioni, interventi non di loro competenza per evitare i tempi di attesa del tecnico.
2) Contro questa sentenza ha proposto ricorso […] il quale ha dedotto i seguenti motivi di censura:
– mancanza e manifesta illogicità della motivazione nonché “omessa valutazione e travisamento delle risultanze processuali”. In difformità rispetto alla ricostruzione compiuta dal primo giudice la Corte bolognese ha ritenuto operanti i dispositivi di sicurezza adottate; l’avvenuta preventiva istruzione della lavoratrice; l’uso di cartelli per segnalare eventuali anomalie di funzionamento. Illogica sarebbe dunque l’affermazione che la persona offesa – che, secondo l’accertamento dei giudici di merito, non avrebbe aperto gli sportelli superiori – non sarebbe stata istruita sull’uso del pulsante rosso in contrasto con quanto affermato dai testimoni;
– l’erronea applicazione di norme giuridiche perché i giudici di merito non avrebbero considerato che la condotta della persona offesa presentava “i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità e dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle precise direttive ricevute”. La corretta procedura di utilizzazione della macchina era prevista nel documento di valutazione dei rischi e ogni anno venivano effettuati corsi per insegnare le corrette procedure di uso. L’uso scorretto da parte della persona offesa costituiva dunque violazione di un espresso divieto.
3) Il ricorso è infondato e deve conseguentemente essere rigettato. Non esiste infatti la lamentata manifesta illogicità della sentenza impugnata per avere, da un lato, affermato che non esiste la prova che i sistemi di protezione non fossero funzionanti e l’affermata responsabilità dell’imputato.
I giudici di merito hanno accertato che la lavoratrice aveva omesso di azionare il pulsante rosso mentre i giudici di appello non hanno ritenuto provato che fossero stati aperti gli sportelli superiori. Ma hanno ritenuto – come anche il giudice di primo grado – di escludere che la lavoratrice fosse stata adeguatamente istruita sulle modalità per mettere in sicurezza la macchina ed evitare che si riavviasse improvvisamente durante le operazioni dirette ad eliminare i frequenti blocchi che si verificavano.
Le censure su questo punto, contenute nei motivi di ricorso, propongono al giudice di legittimità una diversa ricostruzione dei fatti e sono dunque inammissibili non potendo questa Corte rivalutare il compendio probatorio preso in considerazione dai giudici di merito.
Ma deve comunque rilevarsi che se anche fosse da ritenere provato che lavoratrice aveva avuto la richiesta informazione sulla attivazione dei sistemi di sicurezza non per questo potrebbe essere esclusa la responsabilità dell’imputato. I giudici di merito non hanno infatti fondato le loro conclusioni soltanto sulla mancanza o insufficienza delle informazioni fornite ai lavoratori ma altresì sulla circostanza che la lavoratrice avesse potuto accedere ai macchinari protetti dagli sportelli siti nella parte inferiore della macchina, dove peraltro si è verificato l’infortunio di cui trattasi. L’accesso a questi sportelli era infatti normalmente precluso al personale addetto alle macchine baulettatrici e gli interventi che si rendevano necessari dovevano essere effettuati esclusivamente da un tecnico specializzato. Secondo l’accertamento incensurabile della Corte di merito l’infortunata è invece intervenuta “in base ad una costante prassi” sulle parti inferiori della macchina avendo accesso alle chiavi per aprire gli sportelli (anzi, secondo la sua tesi, gli sportelli erano stati lasciati volutamente aperti per consentire un più rapido riavviamento degli impianti in caso di inceppamento). Questo elemento di colpa è da solo sufficiente a fondare l’affermazione di responsabilità e su di esso non si rinvengono specifiche censure nei motivi di ricorso.
4) Le censure formulate riguardano invece l’eccezionalità e imprevedibilità della condotta della lavoratrice. Non si dice nel ricorso ma, verosimilmente, queste doglianze sono dirette ad affermare l’interruzione del rapporto di causalità tra la condotta colposa e l’evento essendosi, tra questi due elementi, inserito un fattore idoneo ad essere qualificato come causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento. Si pone dunque il problema dell’interpretazione dell’art. 41 c.p.p., comma 2 (“Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento”).
Sono noti i termini del pluridecennale dibattito svoltosi sull’interpretazione da dare a questa norma il cui scopo, secondo l’opinione maggiormente seguita, è quello di temperare il rigore derivante dalla meccanica applicazione del principio generale contenuto nell’art. 41 c.p.p., comma 1 in esame che si ritiene abbia accolto il principio condizionalistico o dell’equivalenza delle cause (“condicio sine qua non”): il nesso di condizionamento esiste, e la condotta può essere considerata causa di un evento, se non può essere mentalmente eliminata senza che l’evento venga meno. È stato affermato in dottrina che se il secondo comma in esame venisse interpretato nel senso che il rapporto di causalità dovesse ritenersi escluso solo nel caso di un processo causale del tutto autonomo verosimilmente si tratterebbe di una disposizione inutile perché, in questi casi, all’esclusione si perverrebbe anche con l’applicazione del principio condizionalistico.
Deve pertanto trattarsi, secondo questo orientamento, di un processo non completamente avulso dall’antecedente ma caratterizzato – a seconda delle varie teorie della causalità (che in realtà su questo tema non divergono significativamente; salvo forse la teoria della “causalità adeguata”) – da un percorso causale completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale; di un evento che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta.
È noto l’esempio riportato nella relazione ministeriale al codice penale: l’agente ha posto in essere un antecedente dell’evento (ha ferito la persona offesa) ma la morte è stata determinata dall’incendio dell’ospedale nel quale il ferito era stato ricoverato. Il che, appunto, non solo non costituisce il percorso causale tipico (come, per es., il decesso a seguito del ferimento) ma realizza una linea di sviluppo del tutto anomala della condotta, imprevedibile in astratto e imprevedibile per l’agente che non può anticipatamente rappresentarla come conseguente alla sua azione od omissione (quest’ultimo versante riguarda l’elemento soggettivo ma il problema, dal punto di vista dell’elemento oggettivo del reato, si pone in termini analoghi).
Questa elaborazione del concetto di causa sopravvenuta è stata, in più occasioni, ribadita anche dalla giurisprudenza di legittimità (cons., tra le numerose altre, Cass., sez. 1, 10 giugno 1998 n. 11024, Ceraudo; 12 novembre 1997 n. 11124, Insirello; sez. 4, 21 ottobre 1997 n. 10760, Lini; 19 dicembre 1996 n. 578, Fundarò; 6 dicembre 1990 n. 4793, Bonetti; 12 luglio 1990 n. 12048, Gotta). Nel campo della sicurezza del lavoro questi principi vengono applicati per escludere l’esistenza del rapporto di causalità nei casi in cui sia provata l’abnormità del comportamento del lavoratore infortunato e sia provato che proprio questa abnormità abbia dato causa all’evento; questa caratteristica della condotta del lavoratore infortunato è idonea ad interrompere il nesso di condizionamento tra la condotta e l’evento quale causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento in base al già ricordato art. 41 c.p., comma 2. Nella nostra materia deve dunque considerarsi abnorme il comportamento che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte all’applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro ed è stato più volte affermato, dalla giurisprudenza di questa medesima sezione, che l’eventuale colpa concorrente del lavoratore non può spiegare alcuna efficacia esimente per i soggetti aventi l’obbligo di sicurezza che si siano comunque resi responsabili della violazione di prescrizioni in materia antinfortunistica (cfr. Cass., sez. 4, 14 dicembre 1999 n. 3580, Bergamasco, rv. 215686; 3 giugno 1999 n. 12115, Grande, rv. 214999; 14 giugno 1996 n. 8676, Ieritano, rv. 206012). Ma come può affermarsi che abbia queste caratteristiche il comportamento del lavoratore che abbia compiuto un’operazione rientrante pienamente, oltre che nelle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro attribuitogli e sia effettuata con modalità improprie ma purtuttavia tollerate dai responsabili dell’azienda? E anche se il comportamento del lavoratore fosse da ritenere contrario – come verosimilmente è avvenuto nel caso in esame – ad una norma di prevenzione ciò non sarebbe sufficiente a ritenere la sua condotta connotata da abnormità essendo, l’osservanza delle misure di prevenzione, finalizzata anche a prevenire errori e violazioni da parte del lavoratore.
Deve quindi ritenersi corretto l’argomentare dei giudici di merito i quali, attenendosi ai principi ricordati, hanno escluso l’abnormità della condotta del lavoratore infortunato proprio perché la lavoratrice aveva agito in base ad una “prassi consolidata” e al fine di velocizzare procedure di lavorazione favorite dai responsabili aziendali.
5) Per le considerazioni svolte il ricorso deve essere rigettato. […]