[…]
RITENUTO IN FATTO
[…] ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe che, confermando quella di primo grado, lo ha riconosciuto colpevole del reato di cui all’art. 589 c.p., commesso in violazione della normativa antinfortunistica (in danno del lavoratore […]); fatto per il quale già in primo grado erano state concesse le attenuanti generiche e quella di cui all’art. 62 c.p., n. 6, con giudizio di equivalenza.
La Corte di merito, ripercorrendo gli argomenti già sviluppati in primo grado, individuava i profili di colpa del […], nella qualità amministratore e legale rappresentante della […] (datrice di lavoro dell’operaio deceduto), per avere questi consentito, nell’ambito di un rapporto di appalto intercorrente tra la […] e la società […] (amministrata da […], coimputato, giudicato e riconosciuto colpevole; ma non ricorrente), al proprio dipendente […], di svolgere la propria attività presso la […], ma senza avere proceduto ad una previa, adeguata valutazione dei rischi connessi a tale attività. Anzi, era risultato che questi neppure si curava di conoscere in anticipo le mansioni che i propri dipendenti era chiamati a svolgere presso la sede dell’altra società. Per l’effetto, era risultato che l’operaio infortunatosi era stato chiamato a svolgere un’operazione di “rabbocco” di olio in condizioni di precario equilibrio e senza il dovuto strumentario di sicurezza per evitare la caduta dall’alto, onde, nel corso dell’operazione, aveva perso l’equilibrio ed era caduto a terra, riportando le lesioni che lo avevano condotto alla morte.
Tale situazione, vuoi sotto il profilo della ricostruzione dell’incidente, vuoi con riferimento all’addebito di colpa, era stata ricostruita valorizzando, tra l’altro, la deposizione di un lavoratore della società committente, che spesso svolgeva personalmente l’incombente, ma anche gli esiti degli accertamenti svolti dal servizio ispettorato, di rilievo proprio per la dinamica dell’incidente.
Nessun apporto decisivo veniva attribuito alle dichiarazioni di altro testimone, collega di lavoro dell’infortunato, che si era limitato a rappresentare di una diversa, possibile modalità di effettuazione dell’operazione: ciò che anzi, per il giudice, confortava della carenza di una preventiva attività prevenzionale, formativa e informativa, perché tale diversa modalità, quand’anche in ipotesi più sicura, era rimessa all’iniziativa del singolo. Secondo il giudicante di secondo grado la pena era ritenuta adeguata, non risultando motivata la richiesta di un giudizio di prevalenza delle attenuanti. Con il ricorso si censura il giudizio di responsabilità sottoponendo a critica le considerazioni sviluppate nella decisione di condanna e evocandosi, a supporto della pretesa esenzione da responsabilità la valorizzazione della testimonianza del collega di lavoro dell’infortunato, come sopra disattesa dalla Corte territoriale. Si contesta il trattamento sanzionatorio, sostenendosi che “sussistevano tutti gli elementi” perché il giudice di appello dovesse concedere le attenuanti con giudizio di prevalenza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è manifestamente infondato.
La censura sulla responsabilità è tipicamente di merito a fronte di una duplice conforme statuizione di responsabilità, laddove risultano adeguatamente ricostruiti il fatto, gli addebiti di colpa, il nesso causale, in termini qui non rinnovabili.
Il ricorrente propone una ricostruzione del fatto non risultante dal testo della sentenza e come tale preclusa alla cognizione del giudice di legittimità, risolvendosi in una censura sulla valutazione delle emergenze fattuali della vicenda come ricostruite dal giudice di merito, pur in presenza di una motivazione logicamente argomentata. La censura si limita a richiamare – senza neppure soffermarsi sulla relativa decisività – il contenuto di una deposizione testimoniale, su cui i giudici si sono ampiamente soffermati, sottolineando che, se anche l’operazione si fosse potuta compiere in modo diverso, l’individuazione d’una modalità alternativa era rimessa, di fatto, alla fantasia ed all’iniziativa della persona chiamata ad eseguire l’operazione di rabbocco.
È doglianza senz’altro generica, ma comunque inammissibile perché mira a proporre una rinnovazione dell’apprezzamento del compendio probatorio concordemente sviluppato nei due gradi di giudizio. Tra l’altro, senza rappresentare di circostanze non valutate e considerate in quella sede.
La censura non tiene conto che la responsabilità del committente, in ossequio alla disciplina di settore – (prima, il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7; ora, trasfuso sostanzialmente nel D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 26) – non esclude quella del datore di lavoro in caso di infortunio.
Nella stessa prospettiva è stato altresì ritenuto che in caso di distacco di un lavoratore da un’impresa ad un’altra, per effetto della modifica normativa introdotta dal D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 3, comma 6, sono a carico del distaccatario tutti gli obblighi
di prevenzione e protezione, fatta eccezione per l’obbligo di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali questo viene distaccato, che restano a carico del datore di lavoro distaccante. (v. da ultimo, Sezione 4, 19 aprile 2013, […] ed altro, rv. 256397).
Il datore di lavoro, infatti, in termini generali, è corresponsabile qualora l’evento si colleghi casualmente anche alla sua colposa omissione e ciò avviene, ad esempio, quando abbia consentito l’inizio dei lavori in presenza di situazioni di fatto pericolose, come nel caso in esame, in cui non erano presenti nel luogo di lavoro attrezzature idonee per l’esecuzione dei lavori l’omessa adozione delle misure di prevenzione prescritte sia immediatamente percepibile.
In tal senso, i giudici di merito hanno evidenziato che l’imputato era venuto meno all’obbligo di valutazione del rischio specifico connesso all’opera di manutenzione ordinaria da eseguirsi presso la ditta […], aggiuntiva rispetto ad altri lavori che erano stati oggetto di uno specifico contratto di appalto ed erano già stati conclusi, consistente nel rabbocco dell’olio di un motoriduttore presso la citata ditta. Il […] aveva violato i propri doveri di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, inviando gli operai presso la […], senza fornire loro dettagliate informazioni sui rischi specifici e senza collaborare nell’attuazione delle misure di prevenzione e protezione del lavoratore dal rischio di incidenti connessi alla esecuzione della nuova e diversa prestazione. Nè potrebbe valere nel caso concreto in esame il richiamo, al principio del c.d. “affidamento” in tema di infortuni sul lavoro, in virtù del quale ciascun consociato può confidare che ciascuno si comporti secondo le regole precauzionali normalmente riferibili al modello di agente proprio dell’attività che di volta in volta viene in questione – posto che, come più volte affermato.
Detto principio non opera allorché il mancato rispetto da parte di terzi delle norme precauzionali di prudenza abbia la sua prima causa nell’inosservanza di tali norme da parte di colui che invoca il suddetto principio, come nel caso in esame. Tale principio non potrebbe, infatti, essere utilmente richiamato dall’imputato ne’ con riferimento all’operato dei suoi dipendenti, da lui non istruiti sulle corrette modalità di esecuzione dell’operazione di manutenzione ordinaria, nel corso della quale si è verificato l’incidente, ne’ con riferimento alla condotta del coimputato […], legale rappresentante della […] (non ricorrente), attesa proprio la pregressa violazione rimproverata al […]. Incensurabile è anche il trattamento sanzionatolo, a fronte del resto di doglianza assertva e generica: anche in questa sede non sono spiegati i motivi per cui il giudice avrebbe dovuto mutare il giudizio di comparazione.
Va ricordato che il giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti (art. 69 c.p.) è rimesso al potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio deve essere certamente motivato, ma nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero del giudicante circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo. Ciò vale anche per il giudice di appello il quale – pur non dovendo trascurare le argomentazioni difensive dell’appellante – non è tenuto ad una analitica valutazione di tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti ma, in una visione globale di ogni particolarità del caso, è sufficiente che dia indicazione di quelli ritenuti rilevanti e di valore decisivo, rimanendo implicitamente disattesi e superati tutti gli altri, pur in carenza di stretta confutazione (Sezione 4, 27 giugno 2013, Elia). Qui, in vero assorbentemente, è mancata finanche in appello una adeguata rappresentazioni delle ragioni per cui doveva accedersi alla invocata determinazione favorevole e la decisione della corte sul punto è ineccepibile.
All’inammissibilità del ricorso, riconducibile a colpa del ricorrente, consegue la condanna del medesimo al pagamento delle spese processuali ed a quello della somma che congruamente si determina in Euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.
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