Corte di Cassazione, Sez. 4, Sentenza n. 49743 del 2013, dep. il 10/12/2013

[…]

RITENUTO IN FATTO
1. […] e […] venivano condannati dal Tribunale di Alba, alle rispettive pene ritenute di giustizia, per il reato agli stessi così contestato: reato di cui all’art. 113 c.p., art. 589 c.p. commi 1 e 2, perché, in cooperazione tra loro, […] quale legale rappresentante della […] S.a.s.; […] (socio accomandante della […]) quale Coordinatore della sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione dell’opera in relazione ad un cantiere edile, per colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia, nonché nella violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, con particolare riferimento al D.P.R. n. 164 del 1956, artt. 20, 23, 24 e 68, ed D.M. 2 settembre 1968, art. 4, – […], al fine di seguire i lavori di ricostruzione, realizzando un ponteggio inidoneo sotto il profilo della sicurezza, e […]Giampiero omettendo di verificare la corretta applicazione delle misure di sicurezza, in particolare in relazione al predetto ponteggio (nonostante avesse eseguito numerosi sopralluoghi sul cantiere, da ultimo in data 30/05/2005), realizzato con parapetti di protezione degli impalcati in diversi tratti incompleti in quanto privi di tavola fermapiede e di corrente intermedio, con ponteggi montati sulle facciate dell’edificio non adeguatamente ancorati, con aperture nelle solette non protette, oppure coperte con tavolati non fissati – avevano consentito e fatto sì che […] (dipendente “in nero” della […]), allorché era intento a lavorare sul ponteggio posto sulla facciata esterna del fabbricato oggetto dei lavori di ristrutturazione in corrispondenza dell’ultimo piano fuori terra dell’edificio (all’altezza di circa otto metri da terra), presumibilmente occupato a realizzare l’impalcatura di un cornicione e la sua parte sottostante, proprio a causa del fatto che l’ultimo piano utile del ponteggio era sprovvisto di tavola fermapiede fino alla quinta stilata da destra ed era altresì privo, in parte, di corrente intermedio, cadesse nel vuoto, così procurandosi lesioni gravissime (grave trauma cranio-encefalico polifratturativo) che ne avevano cagionato l’immediato decesso ([…]) (capo A). […] veniva anche condannato per il delitto di cui all’art. 483 c.p. (capo C) mentre veniva dichiarato estinto per prescrizione il reato a lui ascritto di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 22, comma 12, (capo B).
2. A seguito di gravame ritualmente proposto dagli imputati, la Corte d’Appello di Torino confermava l’impugnata decisione disattendendo tutte le argomentazioni difensive prospettate dagli appellanti finalizzate, per un verso, a sostenere la tesi della occasionalità della presenza del […] nel cantiere – affermando che costui si sarebbe ivi recato per salutare alcuni lavoratori suoi amici e sarebbe poi salito di sua iniziativa sul ponteggio – e, per altro verso, a contestare le violazioni di legge loro addebitate con l’imputazione. La Corte territoriale, nell’esaminare le doglianze degli appellanti, richiamava anche la sentenza di primo grado – sottolineandone la completezza e puntualità nella disamina degli elementi fattuali e della normativa di riferimento – ed evidenziava che gli appellanti avevano sostanzialmente riproposto le tesi difensive già illustrate in primo grado, “tutte prese in considerazione dal Primo Giudice nella puntuale ed accurata ricostruzione del fatto, derivante da una scrupolosa e fedele lettura degli esiti dell’approfondita istruttoria dibattimentale, sviluppatasi nel corso di svariate udienze” (pag. 6 della sentenza d’appello).
3. Ricorrono per cassazione gli imputati deducendo violazione di legge e vizio motivazionale, con censure che possono così sintetizzarsi. […]: non sarebbe stata raggiunta la prova a sostegno della tesi accusatoria secondo cui il […], al momento dell’infortunio, lavorava “in nero” alle dipendenze della ditta del […]; le dichiarazioni rese al riguardo dalla moglie della vittima sarebbero state caratterizzate da contraddizioni tali da minarne l’attendibilità e non sarebbe stata adeguatamente valutata e considerata la deposizione del consulente del P.M. il quale aveva riferito che non era stato possibile chiarire cosa stesse facendo l’infortunato al momento dell’incidente; non sarebbero state considerate le minacce di cui sarebbe stato vittima l’imputato ad opera dei congiunti della vittima per indurlo al risarcimento a prescindere da statuizioni giudiziarie, e ciò nemmeno ai fini del riconoscimento delle attenuanti generiche; la Corte distrettuale avrebbe omesso qualsiasi motivazione in ordine alle doglianze dedotte con l’appello relativamente al reato sub c); la Corte sarebbe ancora incorsa in palese vizio di motivazione avendo richiamato “per relationem” la sentenza di primo grado con formulazioni apodittiche senza dar conto di specifici motivi di impugnazione; prescrizione dei reati alla data del 1 dicembre 2012 essendo decorso il termine massimo di sette anni e mezzo di cui all’art. 157 c.p., come modificato con la L. n. 251 del 2005. […]: vizio motivazionale in ordine alla ritenuta inefficienza ed inidoneità del ponteggio, non potendo in alcun modo presumersi che un ponteggio eretto per un fabbricato di tre piani fuori terra potesse presentare così vistose carenze strutturali sul piano quantitativo e qualitativo; dunque, come sostenuto dalla difesa, il ponteggio “de quo” non era più utilizzato a partire dal febbraio 2005 avendo l’impresario comunicato di dover proseguire solo con lavorazioni interne; vi sarebbe stato travisamento della prova quanto alla valutazione delle dichiarazioni rese da […] il quale aveva detto che per quanto riguarda le lavorazioni sul cantiere, sinceramente presumo che sia andata come ha detto mio fratello; con tale frase, secondo il ricorrente, […] aveva inteso confermare che […] non era stato informato che bisognava operare ancora sul ponteggio per lavori al cornicione, tant’è che era stata rilasciata dal coordinatore della sicurezza autorizzazione allo smantellamento del ponteggio sin dal febbraio 2005; quanto alla presenza di intonaco fresco al cornicione del fabbricato, di cui avevano parlato gli ispettori […], […] sapeva che tutti gli operai “in regola” di cui egli era a conoscenza erano impegnati in lavori interni al piano terra ed al primo piano, ed ignorava quindi che il […], lavoratore “a nero”, stesse svolgendo attività lavorativa al cornicione utilizzando il ponteggio: […], nella veste di coordinatore alla sicurezza poteva rispondere solo dei lavori in atto quali comunicati dal datore di lavoro, vale a dire i lavori interni al piano terra ed al primo piano, e non era stato portato a conoscenza del cambiamento improvviso del programma lavorativo che comportava l’utilizzo del ponteggio il cui smantellamento era stato già autorizzato dal […] sin dal febbraio 2005.
CONSIDERATO IN DIRITTO
4. I ricorsi devono essere dichiarati inammissibili per le ragioni di seguito indicate.
Avuto riguardo alla reiterazione delle prospettazioni difensive, già sottoposte al vaglio del giudice di appello, va innanzi tutto posta in rilievo la genericità dei due atti di impugnazione (pur articolati con diffuse argomentazioni), alla luce del condivisibile principio di diritto, enunciato, e più volte ribadito nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui “è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, invero, dev’essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell’art. 591, comma 1, lett. c), all’inammissibilità” (in termini, Sez. 4, n. 5191 del 29/03/2000 Ud. – dep. 03/05/2000 – Rv. 216473; conf: Sez. 5, n. 11933 del 27/01/2005, dep. 25/03/2005, Rv. 231708). Ulteriore profilo di inammissibilità è ravvisabile poi nella manifesta infondatezza delle censure dedotte che concernono apprezzamenti di merito e valutazioni probatorie che non possono formare oggetto del sindacato in questa sede: la Corte d’Appello ha reso adeguata e logica motivazione, analizzando tutti gli aspetti della vicenda (dinamica dell’infortunio, condotta del lavoratore, nesso causale) e spiegando le ragioni per le quali ha ritenuto sussistente la penale responsabilità di entrambi gli imputati. Giova sottolineare che, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, il vizio di motivazione deducibile in sede di legittimità deve, per espressa previsione normativa, risultare dal testo del provvedimento impugnato, o – a seguito della modifica apportata all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), dall’art. 8 della L. 20 febbraio 2006, n. 46 – da “altri atti del procedimento specificamente indicati nei motivi di gravame”; il che vuoi dire – quanto al vizio di manifesta illogicità – per un verso, che il ricorrente deve dimostrare in tale sede che l’iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico, e, per altro verso, che questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un’altra interpretazione o di un altro iter, quand’anche in tesi egualmente corretti sul piano logico: ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si prestavano ad una diversa lettura o interpretazione, ancorché munite di eguale crisma di logicità (cfr. Cass., Sez. Un., 27.9.1995, n. 30). Tale principio, più volte ribadito dalle varie sezioni di questa Corte, è stato poi confermato ancora dalle stesse Sezioni Unite le quali hanno precisato che: “esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una rilettura degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali” (N. 6402/97, imp. Dessimone ed altri, RV. 207944); “l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento” (Sez. Un., ric. Spina, 24/11/1999, RV. 214793).
5. Nella concreta fattispecie la decisione impugnata si presenta formalmente e sostanzialmente legittima ed i suoi contenuti motivazionali forniscono, con argomentazioni basate su una corretta utilizzazione e valutazione delle risultanze probatorie, esauriente e persuasiva risposta ai quesiti posti dalla difesa degli imputati. La Corte territoriale, confermando quanto già argomentato dal primo giudice, ha infatti ancorato il proprio convincimento a circostanze fattuali ritenute pacificamente acclarate anche sulla base di specifiche acquisizioni processuali quali documentazioni fotografiche, dichiarazioni testimoniali, conclusioni del consulente del P.M., sottolineando quanto segue: 1) la causa della morte era compatibile con la caduta dal ponteggio sul cui impalcato la vittima era scivolata; 2) convergenti elementi deponevano inequivocabilmente per la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare, in virtù del quale la persona offesa si trovava sul ponteggio negli istanti immediatamente precedenti alla caduta: di tal che, correttamente il primo giudice aveva ritenuto sussistente anche il reato sub C) del capo di imputazione, dallo stesso Tribunale ritenuto funzionalmente collegato al capo A); 3) non sussistevano dubbi sulla titolarità di entrambi gli imputati della posizione di garanzia: […] quale datore di lavoro, […] quale coordinatore della sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione dei lavori; 4) l’irregolarità del ponteggio era di tipo strutturale, per l’inadeguatezza delle basi di appoggio, inadeguatezza dei punti di ancoraggio, inadeguatezza dei sottoposti, inadeguatezza dei parapetti e delle tavole fermapiede: donde la penale responsabilità di entrambi gli imputati – in relazione alle rispettive posizioni di garanzia – non potendo gli stessi ignorare siffatta irregolarità; 5) la deformazione del corrente superiore, situato in corrispondenza della terza campata al piano sottostante rispetto a quello da cui era avvenuta la caduta, appariva conciliabile con la possibilità che il corpo della vittima, precipitando, avesse battuto in quel punto, così come ipotizzato dal medico legale; 6) il punto di caduta era stato individuato con precisione all’altezza della terza campata del ponteggio all’ultimo piano, dove era stata rilevata una traccia di scivolamento sull’asse di legno che costituiva l’impalcato e dove il graticcio di protezione presentava evidenti segni di strappo verosimilmente causati dal corpo della persona offesa e in corrispondenza della quale era stato rinvenuto, riverso sulla strada in posizione di quiete, il cadavere del […]; 7) la sussistenza delle specifiche violazioni della normativa antinfortunistica di cui in imputazione correlata all’infortunio, evidenziate dagli ispettori del lavoro intervenuti nell’immediatezza del fatto, i quali avevano riscontrato che, in quel preciso punto, mancava il cosiddetto corrente intermedio e la tavola fermapiede: sicché il lavoratore, dopo essere scivolato, era passato attraverso il varco nel parapetto, che non era stato costruito a regola d’arte e che, pertanto, non era idoneo ad impedire il rischio di precipitazione dall’alto; 8) la inverosimiglianza della prospettazione difensiva secondo cui il ponteggio era in fase di smantellamento, deponendo in senso contrario a tale allegazione, considerazioni logiche nonché circostanze oggettive come, ad esempio, il rilevamento, il giorno del fatto, di tracce di intonaco fresco in corrispondenza del cornicione posto in prossimità dell’ultimo piano dell’edificio, ove la persona offesa stava lavorando al momento dell’infortunio. Con le dedotte doglianze i ricorrenti, per contrastare la solidità delle conclusioni cui è pervenuto il giudice del merito, non hanno fatto altro che riproporre in questa sede – attraverso considerazioni e deduzioni svolte prevalentemente in chiave di puro merito – tutta la materia del giudizio, adeguatamente trattata, in relazione ad ogni singola tematica, dal Tribunale prima e dalla Corte d’Appello poi la quale, pur richiamando l’apparato motivazionale posto a base della sentenza di primo grado, non ha mancato di esaminare le singole deduzioni difensive, confutandole specificamente anche per quel che riguarda il tenore delle dichiarazioni rese dai soggetti coinvolti a vario titolo nella vicenda in oggetto (imputati, testimoni).
6. Con riferimento al tema difensivo riproposto da […] anche in questa sede è solo il caso di ricordare, “ad abundantiam”, il seguente principio condivisibilmente enunciato da questa Corte: “In tema di infortuni sul lavoro, il coordinatore per la progettazione, ai sensi del D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 4, ha essenzialmente il compito di redigere il piano di sicurezza e coordinamento (PSC), che contiene l’individuazione, l’analisi e la valutazione dei rischi, e le conseguenti procedure, apprestamenti ed attrezzature per tutta la durata dei lavori; diversamente, il coordinatore per l’esecuzione dei lavori, ai sensi dell’art. 5 stesso D.Lgs., ha i compiti: (a) di verificare, con opportune azioni di coordinamento e di controllo, l’applicazione delle disposizioni del piano di sicurezza; (b) di verificare l’idoneità del piano operativo di sicurezza (POS), piano complementare di dettaglio del PSC, che deve essere redatto da ciascuna impresa presente nel cantiere; (c) di adeguare il piano di sicurezza in relazione all’evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, di vigilare sul rispetto del piano stesso e sospendere, in caso di pericolo grave ed imminente, le singole lavorazioni. Trattasi di figure le cui posizioni di garanzia non si sovrappongono a quelle degli altri soggetti responsabili nel campo della sicurezza sul lavoro, ma ad esse si affiancano per realizzare, attraverso la valorizzazione di una figura unitaria con compiti di coordinamento e controllo, la massima garanzia dell’incolumità dei lavoratori. (In applicazione del principio, la S.C., in un caso nel quale l’imputato rivestiva entrambe le qualifiche, ha ritenuto che le giustificabili lacune del piano di sicurezza redatto in qualità di coordinatore per la progettazione avrebbero dovuto essere colmate attraverso una concreta e puntuale azione di controllo, che competeva allo stesso imputato in qualità di coordinatore per esecuzione, e la cui omissione comportava la sua responsabilità in ordine al sinistro verificatosi)” Sez. 4, n. 18472 del 04/03/2008 Ud. – dep. 08/05/2008 – Rv. 240393. 7. Manifestamente infondata e del tutto generica è la doglianza dedotta da […] circa il diniego delle attenuanti generiche, motivato adeguatamente dalla Corte territoriale con il riferimento alla gravità del fatto, avuto riguardo alla presenza di macroscopiche violazione della normativa antinfortunistica ed alla condizione della vittima, un giovane straniero “costretto a lavorare in nero in precarie condizioni di sicurezza per procurarsi i mezzi di sostentamento necessari per mantenere la sua famiglia” (così testualmente a pag. 11 della sentenza impugnata).
8. Parimenti priva di qualsiasi fondamento è la deduzione di prescrizione del reato di omicidio colposo per il decorso del termine di sette anni e mezzo.
Trattandosi di fatto commesso il 22 giugno 2005, nessun dubbio può sorgere sulla circostanza che si applichi il trattamento sanzionatorio di cui all’art. 589 c.p., comma 2, nella sua lettura previgente alla novella normativa di cui alla L. 21 febbraio 2006, n. 102, art. 2. Ciò posto, quanto al termine di prescrizione di cui all’art. 157 c.p., la sentenza di primo grado venne emessa il 30 maggio 2011, quindi dopo l’entrata in vigore della L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 6, pubblicata sulla G.U. del 7 dicembre 2005, n. 285, ed entrata in vigore il giorno successivo (art. 10, 1 comma), che ha innovato il precitato art. 157 c.p.. Ai sensi dello stesso art. 10, comma 2, “ferme restando le disposizioni dell’art. 2 c.p., quanto alle altre disposizioni della presente legge, le disposizioni dell’art. 6 non si applicano ai procedimenti ed ai processi in corso se i nuovi termini di prescrizione risultano più lunghi di quelli previgenti”. Il comma 3 della stessa norma recava che “se, per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, le stesse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché dei processi già pendenti in appello o avanti alla Corte di Cassazione…”. Tale disposto normativo è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza della Corte Costituzionale del 23 ottobre 2006, n. 393, limitatamente alle parole “dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché”. A seguito di tale pronuncia del Giudice delle leggi, la norma deve, quindi, leggersi: “ad esclusione dei processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di Cassazione”. Dunque, posto che il processo “de quo” non era ancora pendente in grado di appello al momento in cui entrarono in vigore le nuove disposizioni legislative, dovrebbero applicarsi tali nuove norme, se i termini di prescrizione risultassero più brevi. Così, tuttavia, non è. Difatti, ai sensi del previgente art. 157, comma 1, n. 3, il termine di prescrizione era di dieci anni, e, ai sensi dei commi 2 e 3, “per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo al massimo della pena stabilita dalla legge…” e “nel caso di concorso di circostanze aggravanti e di circostanze attenuanti si applicano anche a tale effetto le disposizioni dell’art. 69”. Ai sensi del novellato art. 157 c.p., ordinariamente “la prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto…”. Tale termine, tuttavia, è raddoppiato, ai sensi del comma 6, “per i reati di cui all’art. 449, e art. 589, commi 2, 3, e 4…” (la previsione del quarto comma è stata introdotta dalla L. 24 luglio 2008, n. 125, di conversione del D.L. 23 maggio 2008, n. 92, art. 1). Stabilisce, inoltre, la nuova norma (comma 2) che “per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per il reato…, senza tener conto della diminuzione per le circostanze attenuanti…” e che (comma 3) “non si applicano le disposizioni dell’art. 69, e il tempo necessario a prescrivere è determinato a norma del comma 2”. In conclusione: per il novellato art. 157 c.p., il termine di prescrizione ordinario, per il reato in questione, è di anni dodici (salvo eventuali sospensioni ed interruzioni, ai sensi degli artt. 159 e 160 c.p.); per il previgente art. 157, il termine ordinario di prescrizione, non essendo state concesse attenuanti, è di dieci anni. Ai sensi di tale ultima disposizione normativa, più favorevole con riferimento al termine base, tale termine non è ancora decorso; ne’, peraltro, come si è visto, esso sarebbe decorso anche ai sensi del nuovo disposto normativo. Uguale sarebbe poi, per il previgente e per il nuovo testo normativo, il termine massimo di prescrizione di quindici anni, in presenza di atti interruttivi (dieci anni più la metà, in base alla normativa previgente; dodici anni più un quarto, in base alla normativa attualmente in vigore in conseguenza della novella del 2005).
9. Un’ultima annotazione in ordine al reato sub C) con riferimento alla prescrizione, per completezza argomentativa. In relazione al “tempus commissi delicti”, 22 giugno 2005, il termine massimo di prescrizione per tale reato (sette anni e mezzo, per gli atti interruttivi) è maturato il 22 dicembre 2005, e quindi successivamente alla data della impugnata sentenza (1 ottobre 2005). Orbene, in presenza di gravame inammissibile per causa originaria di inammissibilità (trattandosi di doglianze assolutamente generiche e concernenti apprezzamenti di merito non deducibili in sede di legittimità e/o manifestamente infondate) non è consentito a questa Corte esaminare la questione concernente la prescrizione del reato, alla luce dei principi enunciati in materia dalle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. Sez. Un. 22/11/2000, De Luca, e 27/6/2001, Cavalera).
[…]