[…]
Svolgimento del processo
[…] propose ricorso – evocando in giudizio sia […] (Concessionario per la riscossione […]) sia l’Ufficio […] – avverso l’avviso di mora (per la somma complessiva di L. 505.785.153, di cui L. 393.927.000 per Iva e l’ulteriore somma per accessori), notificatole in relazione all’Iva dichiarata per l’anno di imposta 1992, ma non versata al 31 marzo 1993, dalla s.n.c. […], della quale, sino all’anno d’imposta in contestazione, era stata socia al 70%.
A fondamento del ricorso, la contribuente esponeva che, in data […], aveva ceduto a […] l’intera sua quota di partecipazione al capitale della società, che, contestualmente, era stata trasformata nella “[…] s.a.s.”. Puntualizzato che, a quella data, non vi era alcun debito Iva in favore dell’Erario, la contribuente sosteneva, quindi, di non poter essere ritenuta responsabile per il mancato versamento di imposta relativa ad obbligazione fiscale sorta successivamente alla propria uscita dalla società e contestava peraltro, seppur in minima parte, l’entità della somma ingiunta. Corretto marginalmente in diminuzione l’importo dovuto per Iva, il primo Giudice respinse la pretesa principale della contribuente, in base al rilievo che la stessa non aveva provato che le operazioni imponibili da cui scaturiva l’obbligazione tributaria contestata erano state effettuate successivamente alla sua uscita dalla compagine sociale.
Avverso la sentenza di primo grado, […], propose tempestivo appello, deducendo che era stato sovvertito l’ordinario criterio di distribuzione dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., poiché, a suo dire, era l’Amministrazione a dover provare che le operazioni imponibili da cui scaturiva l’obbligazione tributaria contestata erano state effettuate prima della sua uscita dalla società.
L’impugnazione fu respinta dalla commissione regionale, in base al rilievo che l’appellante non aveva fornito prova di aver, a suo tempo, idoneamente pubblicizzato il proprio recesso dalla società (mediante l’iscrizione dell’atto di cessione e di conseguente modifica dell’atto costitutivo nell’apposito registro ovvero attraverso le altre previste modalità), sicché, ai sensi dell’art. 2290 c.c. in relazione all’art. 2300 c.c., il parziale scioglimento del vincolo sociale non poteva essere validamente opposto ai terzi a fini liberatori.
Avverso tale sentenza, […] ha proposto ricorso per Cassazione, articolato in cinque motivi.
L’Amministrazione finanziaria ha resistito con controricorso, mentre il Concessionario della riscossione, ancorché intimato, non si è costituito.
Motivi della decisione
A fondamento del ricorso […] deduce:
a) violazione e falsa applicazione delle norme di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56, e art. 112 c.p.c., sul presupposto che si debba ravvisare il vizio di ultrapetizione nel fatto che il Giudice di appello ha rilevato di sua iniziativa l’inopponibilità ai terzi, ex artt. 2290 e 2300 c.c., del proprio recesso dalla società;
b) violazione e falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 2290 e 2300 c.c. nonché insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione alla parte della decisione impugnata che ha evidenziato una carenza di informazione ai terzi del proprio recesso, ancorché l’atto di cessione della propria quota sociale e la connessa modificazione dell’atto costitutivo della società risultassero oggetto di un regime di pubblicità legale, in quanto iscritti nel registro delle imprese;
c) violazione e falsa applicazione della norma di cui all’art. 2290 c.c. e insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, sotto il profilo che, nella prospettiva di cui alla menzionata disposizione, l’Amministrazione finanziaria non potrebbe considerasi soggetto terzo, giacché la norma avrebbe rilievo solo per le obbligazioni per cui si pone un problema di affidamento del creditore e tali non potrebbero considerarsi le obbligazioni verso l’Erario, che trovano nella legge il loro fondamento, nonché insufficiente e contraddittoria motivazione riguardo all’asserita negazione di mezzi di pubblicizzazione del recesso diversi dall’iscrizione nel registro delle imprese;
d) insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia nella parte in cui la sentenza impugnata rileva, in via di illazione, che, sulla base degli elementi acquisiti, la pubblicizzazione del recesso non potrebbe collocarsi che in epoca successiva allo spirare del periodo d’imposta considerato;
e) insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia nella parte in cui non viene fornita motivazione in ordine all’assunto secondo cui l’insorgenza dell’obbligazione Iva oggetto del procedimento si ricollegherebbe alla data del compimento delle operazioni che danno luogo all’imposizione e non a quella di liquidazione dell’imposta.
I primi due motivi di ricorso ed il primo profilo del terzo sono infondati.
Quanto al primo motivo, deve, invero, osservarsi che, nel riscontrare la mancata pubblicizzazione del recesso della […] dalla s.n.c. […] e della correlativa modifica dell’atto costitutivo della società, il Giudice di appello non ha arbitrariamente rilevato d’ufficio una circostanza suscettibile di costituire eccezione dell’Amministrazione finanziaria, ma ha, bensì, constatato, nel legittimo esercizio dei suoi poteri decisori, che una circostanza di fatto configurante elemento costitutivo dell’eccezione (impeditiva) opposta dalla contribuente alla pretesa erariale, in quanto tale rientrante nell’ambito dell’onere della prova gravante sulla contribuente medesima, risultava priva di riscontro probatorio. In forza della previsione di cui agli artt. 2267, 2290, 2300 c.c., infatti, il socio di s.n.c. che ceda la sua quota risponde, nei confronti dei terzi, delle obbligazioni sociali sorte fino al momento in cui la cessione sia stata registrata o fino al momento (anteriore) in cui il terzo sia venuto a conoscenza della cessione (Cass. 11045/99). L’indicata pubblicità costituisce, dunque, fatto impeditivo di una responsabilità altrimenti normale, sicché essa deve essere allegata e provata (v., anche, la lettera dell’art. 2300 c.c., ultimo comma) dal socio che opponga la cessione al fine di escludere la propria responsabilità per le obbligazioni sociali, con la conseguenza che rientra nei poteri ufficiosi del Giudice valutare se siano state allegate e provate le condizioni di opponibilità ai terzi della cessione e, con esse, dell’irresponsabilità del socio.
Il secondo motivo di ricorso è infondato, in quanto presuppone provata una circostanza (l’avvenuta pubblicizzazione della cessione della quota societaria della […]) che non risulta tale e perché, in proposito, il ricorso si rivela carente già sul piano dell’autosufficienza non indicando ne’ dove ne’ come la pubblicità della cessione della quota sociale avrebbe avuto luogo.
Il primo profilo del terzo motivo di ricorso è infondato, posto che il regime di cui agli artt. 2290 e 2300 c.c. appare di generale applicazione e non è dato riscontrare (nè la contribuente indica) alcuna disposizione di legge che ne circoscriva la portata al campo delle obbligazioni di origine negoziale, con esclusione di quelle che trovano la loro fonte nella legge.
D’altro canto, che le richiamate disposizioni operino anche in relazione alle obbligazioni verso l’Erario risulta specificamente riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte, laddove ha affermato che, qualora l’amministratore di società in nome collettivo non provveda tempestivamente alla richiesta di iscrizione nel registro delle imprese della modificazione dell’atto costitutivo rappresentata dal recesso del socio dalla società, il socio non può opporre, ai fini dell’applicazione dell’Irpef sul suo reddito di partecipazione, il recesso non iscritto e non comunicato, poiché egli ha il potere di sostituirsi all’amministratore inerte e, in ogni caso, è gravato, medio tempore, dell’onere di comunicare all’amministrazione l’intervenuto recesso (v. Cass. 2812/02, 11569/2002).
Gli ulteriori motivi di ricorso restano assorbiti nell’infondatezza dei precedenti, atteso, in particolare, che, una volta ritenuta non provata l’avvenuta pubblicizzazione entro il periodo d’imposta dedotto in controversia (con iscrizione nell’apposito registro o altrimenti) del recesso della […], diventa assolutamente irrilevante, ai fini della decisione, valutare la fondatezza di congetture sviluppate nella sentenza sui tempi della pubblicità, individuare le modalità attraverso cui la stessa avrebbe potuto essere utilmente realizzata e stabilire se l’insorgenza dell’obbligazione Iva oggetto del procedimento si ricolleghi alla data del compimento delle operazioni che danno luogo all’imposizione ovvero a quella di liquidazione dell’imposta.
Alla stregua delle considerazioni che precedono, s’impone il rigetto del ricorso. […]