Corte di Cassazione, Sez. L, Sentenza n. 11491 del 2004, dep. il 21/06/2004

 
[…]
SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO
Con ricorso al Pretore di Rovigo […] e le altre attuali controricorrenti convennero in giudizio […], […] e […], esponendo di aver lavorato alle dipendenze di quest’ultima, quale titolare della omonima ditta di confezioni, subentrata nell’azienda di confezioni formalmente facente capo a due diversi titolari, nelle persone di […] e […], da considerarsi in realtà quale unica azienda facente capo a […], a sua moglie […], ed al figlio […].
Per quanto in particolare interessa in questa sede, le ricorrenti chiedevano che fosse accertata la sussistenza di una società di fatto tra […], […] e […] ovvero la contitolarità in capo gli stessi dei rapporti di lavoro intercorsi con le ricorrenti, con condanna dei convenuti al pagamento delle somme dovute ad esse dovute per titoli vari collegati al rapporto. Nella resistenza di […], il Pretore, accoglieva la domanda, e condannava, per ciò che interessa, […] in solido con […] e […] al pagamento dei debiti maturati sino alla data della cessione dell’azienda alla […], della quale affermava la responsabilità per il periodo successivo. […] proponeva appello, contrastato dalle lavoratici. Il Tribunale di Rovigo con la sentenza impugnata ha rigettato l’appello, condannando l’appellante alle spese del giudizio. Nella motivazione il giudice dei gravame prende anzitutto le mosse dalla decisione del Pretore ed afferma che quel giudice aveva fatto riferimento ad una società di fatto esistente tra […] e […]. Precisa, peraltro, che il primo giudice aveva posto in evidenza come il legame imprenditoriale tra più soggetti possa avere due facce: quella che lega internamente i soggetti tra di loro, e che determina un legame sociale effettivo, individuabile dalla giurisprudenza in base alla ricorrenza di determinati parametri, nel caso ritenuti assenti;
ed una faccia che si rende palese all’esterno, tale da ingenerare nei terzi il ragionevole convincimento dell’esistenza di una società che in realtà non sussiste, nella quale si suole riscontrare la figura giuridica cosiddetta dell’apparenza.
Questa premessa, viene utilizzata dal Tribunale per osservare che avendo la sentenza di primo grado parlato di “società di fatto” ponendo però in rilievo solo gli aspetti che il legame ha esplicato all’esterno, essa ha semplicemente evidenziato che il rapporto di fatto (sintagma riprodotto nella motivazione in esame con l’uso del corsivo) appare all’esterno come rapporto di diritto, e si collega così all’istituto dell’apparenza.
Quindi, secondo il Tribunale, era corretto ritenere, come aveva sostenuto l’appellante che il primo giudice avesse classificato il rapporto fra […] e […] nella categoria della società apparente. Inesatto era per contro che l’apparenza avesse rilievo giuridico solo nel momento di formazione del rapporto e non potesse esplicare alcun effetto durante lo svolgimento di questo. Il tribunale richiama al riguardo gli orientamenti giurisprudenziali in tema di società apparente, e, sottolineando gli effetti che a tale fattispecie vengono ricollegati in sede fallimentare, osserva che la posizione del soggetto dichiarato fallito per la sua posizione di socio apparente, è coinvolta per tutta la durata della cosiddetta società apparente. Prosegue quindi mettendo in rilievo che nel caso in esame il Pretore aveva fatto discendere la nascita di obbligazioni in capo a […], dalla sua posizione di socio, insieme al figlio, di una società apparente, quale conseguenza del legittimo affidamento delle lavoratoci di aver instaurato un rapporto di lavoro subordinato con entrambi tali soggetti, conclusione giustificata sulla base degli elementi di prova, condivisibili, su cui il Pretore aveva fondato la buona fede dei terzi circa la sussistenza di una siffatta apparenza societaria. Rigettato, con tali considerazioni, il primo motivo di appello, con il quale l’appellante aveva contestato la configurabilità di un rapporto sociale di fatto con […], il Tribunale si limita ad osservare, quanto al secondo motivo, vertente sulla non ricorrenza della figura del socio occulto, che mancando nella sentenza impugnata alcun riferimento a tale figura, nulla doveva dirsi al riguardo.
Infine, sul terzo motivo d’appello, fondato sul vizio di extrapetizione, la sentenza sottolinea che in primo grado le lavoratrici avevano chiesto l’accertamento della sussistenza di una società di fatto tra i signori […], […] e […] comunque tra alcuni di essi, ovvero (anche in tal caso utilizzando il carattere corsivo per la frase che segue) la contitolarità in capo agli stessi dei rapporti di lavoro intercorsi con le ricorrenti. Secondo il tribunale una domanda così formulata rendeva privo di fondamento il motivo in parola.
Di questa sentenza […] chiede la cassazione sulla base dei due motivi.
Le intimate resistono con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo denunziando in relazione all’art. 360 comma 1, n. 3 c.p.c., falsa applicazione di norme di diritto con particolare riferimento alla società apparente ed al rapporto sociale apparente, il ricorrente addebita alla sentenza l’errore di diritto di ritenere che la tutela dell’apparenza possa estendersi oltre la fase di formazione del titolo costitutivo del rapporto, dando così indebitamente rilevanza a situazioni che non esistevano nel momento di formazione di detto titolo a che in ipotesi si erano verificate successivamente.
Con il secondo motivo di ricorso denunziando in relazione all’articolo 360, comma 1, numeri 3 4 e 5 c.p.c., violazione dell’articolo 112 c.p.c., il ricorrente, con un primo profilo di censura, addebita alla sentenza impugnata di aver escluso con motivazione contraddittoria che la sentenza di primo grado fosse affetta da extrapetizione.
Il tribunale ha infatti affermato che il Pretore aveva ritenuto di poter classificare il rapporto tra […] e […] nell’ambito della categoria della società apparente, e non aveva invece mai fatto riferimento alla figura giuridica del socio occulto. Il tribunale ha poi affermato anche che la domanda delle ricorrenti mirava ad accertare la sussistenza di una società di fatto tra […], […] e […], o fra alcuni di essi, ovvero la contitolarità in capo ad essi dei rapporti di lavoro intercorsi con le lavoratrici. Quindi la domanda è stata fondata su una pretesa responsabilità di […] sul presupposto di un vincolo sociale di fatto reale e sussistente, ancorché non apparente. Ma, se ciò è vero, allora la domanda si fonda sull’ipotesi dell’esistenza di un socio occulto, nella persona di […]. Pertanto, visto che, come la stessa sentenza ha affermato, una tale ipotesi è stata ritenuta insussistente, la domanda fondata su di essa avrebbe dovuto esser rigettata. Se, invece, una pretesa estensione di responsabilità al […] fosse stata fondata sull’istituto dell’apparenza non troverebbe spiegazione la sentenza impugnata nella parte in cui essa afferma che l’accertamento da essa fatto rispetto alla domanda attorea era nel senso che la responsabilità del […] si fondava sulla sussistenza di una società di fatto fra lo stesso […], […] e […], ossia sulla sussistenza di un rapporto sociale effettivo ancorché non apparente.
Con un secondo profilo di censura il ricorrente addebita in sostanza alla sentenza impugnata di avere erroneamente ritenuto che i concetti di società di fatto, società apparente, società occulta e socio occulto possano esprimere indifferentemente una stessa realtà fenomenica e problematiche giuridiche identiche. Invece si tratta, come affermato anche dalla giurisprudenza di legittimità, di concetti diversi, posto che società apparente è quella che appare esistente nei confronti dei terzi che con essa contraggono, facendo affidamento sull’apparenza di un rapporto sociale nella realtà inesistente; società occulta o socio occulto di società apparente è, contrariamente a quello dell’apparenza, fenomeno fondato invece sulla effettività e realtà del rapporto sociale che, seppur non apparente e quindi occulto è tuttavia esistente, con la conseguenza che in tale caso la tutela del terzo non è più fondata sul fenomeno dell’apparenza ma su quello della effettività della responsabilità dell’intera base sociale e di ogni componente della stessa apparente o meno; società di fatto è quella in cui il contratto sociale risulta non da un documento bensì da “facta concludentia”. Le differenze anzidette rendono i tre istituti assolutamente disomogenei e incomunicabili. La sentenza impugnata, ignorandole, non ha considerato che, avendo le ricorrenti lavoratici chiesto l’accertamento della sussistenza di un rapporto sociale fra […], […] e […], il fatto che il giudice di primo grado avesse fondato invece la responsabilità di […] sull’apparenza societaria implicava non una mera qualificazione giuridica di un identico presupposto di fatto ma il riconoscimento di una causa petendi diversa ed alternativa rispetto all’altra e perciò il vizio di extrapetizione erroneamente e contraddittoriamente escluso dal giudice di appello. I due motivi fra loro connessi possono essere trattati congiuntamente.
Il nucleo essenziale degli accertamenti di fatto contenuti nella sentenza è riducibile a ciò che, nella specie esaminata, mancavano i parametri per poter ritenere che tra […]n e […] fosse stata costituita una società di fatto per l’esercizio della impresa di confezioni facente formalmente capo al secondo, mentre al tempo stesso, sulla base degli elementi di prova acquisiti, si doveva ritenere che nei terzi, quali erano i dipendenti, si era determinata la ragionevole convinzione che il loro rapporto di lavoro subordinato facesse capo ad entrambi i due soggetti, avendo questi determinato l’insorgere nei detti terzi di un incolpevole affidamento nella effettiva esistenza fra loro di un rapporto societario. Non rileva qui esaminare se vi fossero indici idonei di tale apparenza, con il connesso problema delle modalità di esteriorizzazione dell’inesistente rapporto sociale, dal momento che in se, l’accertata ricorrenza di una apparenza societaria non è stata in effetti contestata.
Il primo motivo di censura, senza denunziare vizi di motivazione, pone il problema (di diritto) della rilevanza che nel rapporto di lavoro possa avere un affidamento circa la individuazione dell’effettivo datore di lavoro, formatosi successivamente al sorgere del rapporto.
Il secondo motivo denunzia nel primo profilo contraddittorietà ma con riguardo alla esclusione del vizio di extrapetizione da parte del primo giudice, mentre nel secondo prospetta ancora una volta errori di diritto in tema di distinzioni fra società di fatto, società apparente e società occulta, ma nulla osserva sui menzionati indici di apparenza. Aver determinato l’incolpevole convinzione che del rapporto fossero contitolari, quali datori di lavoro, […] e […], benché il rapporto fosse formalmente sorto con il primo significa aver determinato la convinzione di una modifica soggettiva del rapporto stesso. La modificazione soggettiva, se sussistente, avrebbe determinato anche in capo a […] responsabilità per i debiti relativi al rapporto di lavoro. Il principio della tutela dell’affidamento comporta che chi abbia ingenerato nel terzo ancorché senza mala fede il ragionevole convincimento sulla ricorrenza di una determinata situazione, produttiva di conseguenze giuridiche risponde dell’ingannevole apparenza posta in essere.
È insegnamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che al di fuori dei casi particolari di tutela dell’affidamento da essa suscitato, previsti per legge, l’apparenza del diritto non integra un istituto di carattere generale con connotazioni definite e precise ma opera nell’ambito dei singoli istituti giuridici secondo il vario grado di tolleranza di questi in ordine alla prevalenza dello schema apparente su quello reale (Cass. 1^ marzo 1995, n. 2311; 17 marzo 1975, n. 1020). In tale ordine di idee non è stato escluso quindi in linea generale che il principio dell’apparenza possa essere invocato non già al fine di individuare il soggetto o il contenuto di un rapporto determinato (della cui realtà non si dubita) bensì per aggiungerne altro, sul fondamento dell’affidamento venutosi a creare ad es. nel corso delle trattative e della costituzione del primo. Nè rileva ai fini che qui interessano che in determinati tipi di rapporti tale operazione non possa esser compiuta per i limiti intrinseci di disciplina del rapporto (v. al riguardo, con riferimento ad un preteso rapporto fideiussorio apparente, Cass. 8 maggio 1981, n. 3027). Ciò che invece appare rilevante per decidere del ricorso in esame è l’inesistenza di elementi normativi che, in linea generale, impediscano di attribuire rilievo a situazioni che nel vigore di un determinato rapporto inducano senza colpa una parte di tale rapporto a ritenere che l’originaria struttura soggettiva della controparte abbia subito un mutamento, modificandosi, come nella specie, nel senso della sostituzione all’unico datore di lavoro individuale di un diverso e più complesso centro di imputazione costituito da una società di fatto fra detto datore e altro o altri soggetti. Una siffatta esclusione del resto sarebbe difficilmente compatibile con il carattere del rapporto lavoro, che è rapporto non istantaneo ma di durata, equivalendo a dire che non potrebbe trovare tutela l’interesse del lavoratore ad invocare la responsabilità di chi creando l’apparenza del suo essersi aggiunto alla parte originaria del rapporto abbia, ad es. con la sua maggiore capacità patrimoniale o attitudine imprenditoriale determinato nel lavoratore la scelta di restare alle dipendenze di una impresa giudicata conseguentemente più solida. Contro tali considerazioni non vale richiamare il precedente costituito da Cass. 5 marzo 1987, n. 2311, osservando che in quel caso la società apparente era emersa nei confronti del terzo al momento del primo negozio intervenuto fra le parti. Ivi il negozio considerato (una compravendita) non aveva il menzionato carattere ne’ quindi quella decisione aveva ragione di esaminare lo specifico profilo qui controverso.
Ma i principi affermati in quella come in numerose altre sentenze di questa Corte, dai quali evidentemente non vi è ragione per discostarsi, sono costantemente nel senso che il comportamento di due o più persone che, pur non essendo realmente legate da alcun vincolo sociale, operano nel mondo esterno in modo da generare il convincimento che esse agiscano come soci, così determinando l’affidamento dei terzi sull’esistenza e la responsabilità della società apparente determina la responsabilità di ciascun socio apparente per le obbligazioni contratte anche da uno solo di essi e si riflette anche sotto il profilo concorsuale con la dichiarazione di fallimento della società e dei soci, indipendentemente dal fatto che essi abbiano, o non, inteso dare vita tra di loro ad un rapporto sociale, (v. fra le molte oltre a Cass. 5 marzo 1987, n. 2311, cit; 4 agosto 1988 n. 4827; 11 marzo 1992 n. 969; 9 giugno 1993, n. 6438; 26 luglio 1996, n. 6770; 12 settembre 1997, n. 9030). Sulla base di tali considerazioni la Corte reputa quindi infondato il primo motivo.
La sentenza impugnata, riportando il contenuto della domanda svolta dagli attori in primo grado ha sottolineato (usando fra l’altro la particolare forma grafica del corsivo per mettere in evidenza solo una parte – ovviamente ritenuta di particolare rilievo – di un testo citato nella sua integrità) che essa conteneva una richiesta di affermazione di contitolarità dei rapporti in capo ai due […] e a […]. Tale affermazione, contrariamente all’opinione manifestata nel primo profilo del secondo motivo, non entra in contraddizione con la negata assenza di extrapetizione nell’operato del primo giudice. Premesso che compito del giudice di una qualsivoglia impugnazione è l’interpretazione dell’atto impugnato, e premesso che d’altra parte spetta esclusivamente al giudice di merito interpretare la domanda, salvo il caso in cui se ne lamenti l’omesso esame (v. fra le molte Cass. 17 luglio 2002, n. 10384) questa Corte reputa che il Tribunale di Rovigo abbia letto la domanda delle ricorrenti come rivolta a far valere la contitolarità dei rapporti in capo a […] e […] per effetto dell’apparente vincolo sociale, in alternativa al riscontro di un vincolo sociale effettivo. Tale lettura è coerente con l’insieme delle considerazioni in punto di fatto svolte nella motivazione della sentenza impugnata, e rende perfettamente coerente a sua volta il rigetto del motivo con cui l’appellante aveva fatto valere il vizio di extrapetizione. Nella sentenza del Pretore non vi era infatti alcuna eccedenza fra la richiesta di far valere la contitolarità dei rapporti in capo anche a […], e la decisione di ritenere, che verso le lavoratrici, terze rispetto ai rapporti effettivi interni fra i due […] e la […], operasse una siffatta contitolarità a prescindere dalla reale consistenza dei rapporti interni alla controparte. D’altra parte come la sentenza del Tribunale mette varie volte in evidenza (anche, come detto, con l’uso di particolari accorgimenti grafici) il nucleo fondamentale della decisione del Pretore era la riscontrata sussistenza di un fenomeno di apparenza societaria rilevante ai fini della responsabilità verso i tersi, e i riferimenti alla sussistenza di rapporti di fatto andavano letti in tale direzione.
Il secondo profilo del secondo motivo contiene censure irrilevanti, dal momento che si indirizza contro talune incertezze terminologiche della decisione impugnata in tema di società apparente, di fatto o occulta che non pregiudicano tuttavia l’essenza della decisione resa. In conclusione il ricorso deve essere rigettato con condanna del ricorrente alle spese di lite.
[…]