Corte di Cassazione, Sez. I, Sentenza n. 2226 del 1996, dep. il 16 Marzo 1996

[…]
FATTO
Con atto di citazione notificato il 29.12.1978 […] conveniva dinanzi al Tribunale di Catania […] e […], per sentirli condannare in solido al pagamento della somma di L. 8.438.861, con interessi legali dal 31.7.1977, come quota di utili a lui spettante a seguito dello scioglimento della società di fatto con gli stessi intercorsa sino alla data predetta, per la gestione di un’agenzia della […] Assicurazioni s.p.a. Con sentenza 12-31.3.1981 il Tribunale rigettava la domanda, ritenendola, sfornita di prova e rilevando comunque che la pretesa creditoria dell’attore avrebbe dovuto essere azionata nei confronti della società, e non dei soci.
Nel giudizio d’appello, promosso dal […], si costituivano entrambi gli appellati, deducendo in particolare […] (che in primo grado era rimasto contumace) la propria estraneità alla controversia, per avere egli agito esclusivamente in qualità di procuratore della sorella […], con la quale il […] aveva stabilito la società di fatto.
Con sentenza 5.11 – 22.12.1993, la Corte d’appello di Catania, in riforma della decisione di primo grado, condannava […] (riconoscendo la qualità di mero procuratore del fratello […]) al pagamento di L. 6.920.814, oltre interessi legali dalla domanda, individuando in tale cifra quanto dovuto al […] a titolo di utili residui, ed affermando la legittimazione passiva della […], in quanto unica socia, nella quale, dopo il recesso del […], si era concentrata in via esclusiva la titolarità dell’agenzia, e che aveva poi proceduto alla liquidazione dei rapporti con i terzi ed alla chiusura dell’attività. Avverso tale sentenza […] ha proposto ricorso, corredato da memoria.
L’intimato […] non si è costituito.
DIRITTO
Con il primo mezzo la ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2272, 2285, 2289 c.c., e 100 c.p.c., nonché carenza ed illogicità di motivazione, contesta la legittimazione passiva di essa […] affermata dalla Corte d’appello e la qualificazione di recesso attribuita al comportamento del […]: sostiene, al contrario, che si era verificato scioglimento della società di fatto, per comune volontà dei soci, al quale era seguito il semestre di quiescenza previsto dall’art. 2272 n. 4 c.c., durante il quale, prima dell’apertura della fase di liquidazione, la società era peraltro rimasta in vita come soggetto autonomo, nei cui confronti le pretese dei soci dovevano essere rivolte. La censura, sostanzialmente intesa a negare la legittimazione passiva della […], è priva di fondamento.
Essendo venuta oggettivamente meno la pluralità dei soci (ed è irrilevante se per comune volontà degli stessi o per recesso unilaterale del […]), si è verificata la causa di scioglimento della società prevista dall’art. 2272 n. 4 c.c., alla quale, decorso, senza la ricostituzione della pluralità dei soci, il termine di sei mesi fissato nella predetta norma, è susseguita la fase della liquidazione.
Il periodo che qui interessa – considerate le richieste del […], che riguardano non la liquidazione della quota ex art. 2289 c.c., ma la corresponsione degli utili residui a lui spettanti all’atto della verificazione della causa di scioglimento è appunto il periodo definito dalla ricorrente di “quiescenza”, durante il quale la società è rimasta in vigore, peraltro con la sola socia […].
Sostiene la ricorrente che, anche in tale periodo, nonostante la fase anomala costituita dalla concentrazione della società nell’unica socia superstite, la legittimazione passiva per le domande dell’altro socio risiedeva nella società come soggetto autonomo e non poteva essere attribuita individualmente all’unica socia rimasta. Tale prospettazione non può essere condivisa.
Con il venir meno della pluralità dei soci, la società semplice, composta da due soci, perde il carattere societario e si trasforma in impresa individuale, con la concentrazione della titolarità dei rapporti – già facenti capo alla società – nel socio residuo, che, quale imprenditore individuale, risponde personalmente delle obbligazioni già sociali.
È bene premettere che, in tema di società semplice, è stata stabilita, dalla giurisprudenza di questa Corte, la sufficienza ai fini della rituale instaurazione del contraddittorio – della presenza in giudizio di tutti i soci, non essendo configurabile un interesse della società (come autonomo soggetto giuridico) che non si identifichi con la somma degli interessi dei soci medesimi (Cass.7663-1990; 1799-1990). Ciò perché, come in particolare affermato nella seconda delle sentenze citate, nella società di persone, l’unificazione della collettività dei soci (che si manifesta nell’attribuzione alla società di un nome, una sede, una rappresentanza ed un’autonomia patrimoniale) non perviene fino alla formazione di un ente terzo rispetto ai soci: con la conseguenza, sul piano sostanziale, dell’esclusione, nei rapporti interni, d’un interesse della società potenzialmente distinto ed antagonista nei confronti dei soci, e, sul piano processuale, della regolarità dell’instaurazione del contraddittorio con la presenza in giudizio di tutti i soci, facendo stato la pronuncia anche nei riguardi della società.
Lo stesso principio è stato affermato in tema di società in nome collettivo costituita da due soli soci (Cass. 3842-1994), ove, in base alla non configurabilità, per quanto riguarda i rapporti interni, di una volontà ed un interesse della società, come autonomo soggetto giuridico, distinti e potenzialmente antagonisti rispetto a quelli dei soci, il socio superstite è stato definito unico legittimo contraddittore dell’altro socio per le controversie relative ai rapporti sociali.
A maggior ragione nel caso di specie, quando, con il venir meno della pluralità dei soci, la società deve ritenersi avere perduto l’aspetto societario, trasformandosi in impresa individuale, gestita dalla sola […], la legittimazione passiva di quest’ultima per le pretese dell’ex-socio […] appare indiscutibile. Affermata dunque tale legittimazione passiva, in via esclusiva, risulta palese l’infondatezza anche del secondo motivo di gravame – peraltro logicamente incompatibile con il primo – nel quale, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727, 2729 c.c., la ricorrente lamenta che la Corte d appello abbia trascurato di valutare che essa […] non aveva mai avuto responsabilità di cassa nella società, essendo la gestione di cassa affidata ad un dipendente, il quale aveva effettuato i conteggi ed al quale il […] avrebbe dovuto rivolgersi per reclamare la propria quota di utili.
E più che evidente, infatti, l’irrilevanza della “responsabilità di cassa” attribuita ad un dipendente della società, il quale mai potrebbe, in virtù di tale asserita responsabilità, essere passivamente legittimato in luogo dell’unica socia, divenuta titolare dell’impresa individuale a seguito del venir meno dell’altro socio. Il terzo motivo, poi, attinente al regolamento delle spese di lite, è palesemente assorbito dal rigetto dei precedenti. Il ricorso deve pertanto essere respinto. […]