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Con il motivo da esaminare in questa sede, si duole il ricorrente – denunziando violazione degli artt. 2932, 177, 184, 189 c.c., art. 354 c.p.c. – che il giudice a quo erroneamente abbia escluso la sussistenza del litisconsorzio necessario tra i coniugi in comunione dei beni nel giudizio ex art. 2932 c.c. che il promissario acquirente del bene oggetto di comunione, promessogli in vendita non da entrambi ma da uno soltanto dei coniugi comproprietari, abbia promosso nei soli confronti di quest’ultimo e, pur avendo riconosciuto che detta azione, ove intesa ad ottenere il trasferimento non della sola quota del promittente ma dell’intero bene, debba essere promossa nei confronti d’entrambi i coniugi, abbia tuttavia rigettato la domanda invece di rimettere la causa al primo giudice ex art. 354 c.p.c. per l’integrazione del contraddittorio.
La censura è fondata: per la contestata esclusione del contraddittorio, oltre che per l’evidenziata contraddizione in termini.
La comunione ordinaria, quale regolata dagli artt. 1100 e 1116 c.c., si configura come comunione pro indiviso o proprietà plurima parziaria, nella quale il diritto di proprietà è unico ed ha ad oggetto il bene nella sua interezza e, tuttavia, il diritto di ciascuno dei partecipanti non ha per oggetto ne’ il bene nella sua interezza, ne’ una parte fisicamente individuata di esso, bensì una quota ideale, proporzionata al suo diritto di partecipazione, del quale costituisce la misura.
In tale situazione, la promessa di vendita di un bene in comunione (come hanno evidenziato queste SS.UU. con la sentenza 8.7.93 n. 7481) è, di norma, considerata dalle parti attinente al bene medesimo come un unicum inscindibile e non come somma delle singole quote che fanno capo a ciascuno dei comproprietari – salvo che l’unico documento predisposto per il detto negozio venga redatto in modo tale da farne risultare la volontà di scomposizione in più contratti preliminari in base ai quali ognuno dei comproprietari s’impegna esclusivamente a vendere la propria quota al promissario acquirente, con esclusione di forme di collegamento negoziale o di previsione di condizioni idonee a rimuovere la reciproca insensibilità dei contratti stessi all’inadempimento di uno di essi – di guisa che i detti comproprietari costituiscono un’unica parte complessa e le loro dichiarazioni di voler vendere si fondono in un’unica volontà negoziale; onde, quando una di tali dichiarazioni manchi (o sia invalida), non si forma (o si forma invalidamente) la volontà di una delle parti del contratto preliminare, escludendosi, pertanto, in toto la possibilità per il promissario acquirente d’ottenere la sentenza costitutiva di cui all’art. 2932 c.c. nei confronti dei soli comproprietari promittenti, sull’assunto di una mera inefficacia del contratto stesso rispetto a quelli rimasti estranei, dacché, da un lato, non è configurabile un interesse alla sua esecuzione parziale da parte del promissario acquirente (per mancanza del diritto su cui tale interesse si dovrebbe fondare) e, dall’altro, il comproprietario promittente venditore che ha espresso il suo consenso (o lo ha espresso validamente) non oppone un semplice interesse contrario (giuridicamente apprezzabile o meno) all’avversa richiesta d’esecuzione parziale, ma invoca l’insussistenza stessa del diritto vantato dalla controparte.
La situazione è diversa ove si verta in tema di comunione legale tra coniugi, quale regolata dagli artt. 177 e 197 c.c..
Fondamentale è stata, al riguardo, la ricostruzione che dell’istituto ha operato la Corte costituzionale con la sentenza 17.3.88 n. 311, nella quale si è evidenziata la netta distinzione tra comunione ordinaria e comunione legale tra coniugi, questa configurata come una proprietà plurima parziaria, per più versi analoga alla classica communio ercto non cito, sulla considerazione:
che trattasi di comunione senza quote; che i coniugi non sono individualmente titolari di un diritto di quota, bensì solidalmente titolari, in quanto tali, di un diritto avente per oggetto i beni della comunione; che la quota non è un elemento strutturale, ma ha soltanto la funzione di stabilire la misura entro cui i beni della comunione possono essere aggrediti dai creditori particolari, la misura della responsabilità sussidiaria di ciascuno dei coniugi con i propri beni personali verso i creditori della comunione, la proporzione in cui, sciolta la comunione, l’attivo e il passivo debbono essere ripartiti tra i coniugi od i loro eredi. Configurazione cui consegue che, nei rapporti con i terzi, ciascun coniuge ha il potere di disporre dei beni della comunione e che il consenso dell’altro, richiesto dal modulo dell’amministrazione congiuntiva adottato dall’art. 180 c.c., comma 2 per gli atti di straordinaria amministrazione, non è un negozio unilaterale autorizzativo, nel senso d’atto attributivo di un potere, ma piuttosto nel senso, secondo la nota teoria formulata dalla giuspubblicistica, di atto che rimuove un limite all’esercizio di un potere e requisito di regolarità del procedimento di formazione dell’atto di disposizione, la cui mancanza, ove si tratti di bene immobile o mobile registrato, si traduce in un vizio del negozio, onde l’ipotesi regolata dall’art. 184 c.c., comma 1 tecnicamente si riferisce non ad un caso d’acquisto inefficace perché a non domino, bensì ad un caso d’acquisto a domino in base ad un titolo viziato. Per il che, nella comunione legale tra coniugi, la mancanza del consenso d’uno dei condomini al negozio avente ad oggetto diritti reali su immobili o mobili registrati non determina, come nella comunione ordinaria, l’invalidità assoluta del negozio, ma solo la sua annullabilità nello stabilito termine di prescrizione annuale (e tuttavia, come affermato nella massima CCos. 0010600, la prevista annullabilità dell’atto non costituisce deroga al generale principio d’inefficacia degli atti di disposizione posti in essere da alienante non legittimato, onde da parte della dottrina anche si sostiene che l’atto posto in essere dal singolo coniuge è colpito dalla sanzione generale dell’inefficacia dell’atto compiuto dal non legittimato nei confronti del coniuge pretermesso, e che in favore di quest’ultimo si aggiunge la possibilità d’esperire altresì l’azione speciale d’annullamento ex art. 184 c.c. al fine d’evitare di rimanere personalmente obbligato per l’inadempimento verso il terzo). La riportata metodologia ricostruttiva dell’istituto non ha trovato larghi consensi in dottrina – dalla quale se n’è anche evidenziata l’incoerenza con la ratio della comunione legale, quale introdotta dalla novella n. 151/1975, come intesa al superamento della discriminazione del coniuge più debole, insita nel precedente regime della separazione dei beni, ed alla maggiore tutela patrimoniale della famiglia – e tuttavia ha costituito la base delle pronunzie adottate in materia dalla successiva giurisprudenza di legittimità che, non di meno, pur partendo da tale comune presupposto, sulla questione che ne occupa è pervenuta, come si è visto, a soluzioni diametralmente opposte.
In particolare, la recente Cass. 28.10.04 n. 20867 – ponendosi in consapevole contrasto con la prevalente giurisprudenza anteriore, in ordine alla quale rileva come l’inevitabile coinvolgimento nel giudizio ex art. 2932 c.c. del coniuge rimasto estraneo al preliminare vi fosse stato asserito in modo generico – sulla considerazione che i coniugi non sono individualmente titolari di un diritto di quota ma solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni della comunione, che nei rapporti con i terzi ciascun coniuge ha il potere di disporre dei beni della comunione, che l’azione ex art. 2932 c.c. non ha natura reale ma personale, perviene alla conclusione per cui in quest’ultima non sia ravvisabile un’ipotesi di litisconsorzio necessario, non vertendosi in situazione sostanziale caratterizzata da un rapporto unico ed inscindibile con pluralità di soggetti e non rivestendo, quindi, il coniuge rimasto estraneo al preliminare, del quale si chiede l’esecuzione in forma specifica, la qualità di parte la cui presenza in giudizio sia condizione essenziale affinché la sentenza non venga inutiliter data.
In realtà, di quest’ultimo asserto – che non costituisce affatto una logica conseguenza delle premesse, atteso anche il carattere di specialità con il quale si pone la normativa regolatrice dell’istituto della comunione familiare – l’esaminata sentenza non fornisce dimostrazione alcuna, a differenza dai disattesi precedenti che, affatto generici al riguardo, la contraria opinione fondano su una pluralità d’argomenti validi, condivisi ed integrati dalla prevalente dottrina.
Non appare, in vero, conclusiva la ragione – mutuata dalle remote Cass. 27.4.82 n. 2635 e 28.12.88 n. 7081 – addotta in considerazione della natura obbligatoria e non reale del preliminare. Va, infatti, considerato che i richiamati precedenti pervenivano a tale affermazione in funzione della ritenuta esperibilità dell’azione ex art. 2932 c.c. limitatamente alla quota del coniuge promittente venditore, tesi disattesa dalla giurisprudenza successiva, con espresso richiamo ai principi posti dal Giudice delle leggi con la richiamata sentenza 311/88, sulla considerazione dell’inconciliabilità dell’ingresso d’un estraneo nella comunione familiare con la natura e la disciplina peculiari dell’istituto (Cass. 2.2.95 n. 1252, 14.1.97 n. 284, 11.4.02 n. 5191, 19.3.03 n. 4033); d’altro canto, stante il pacifico principio per cui, in tema d’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto ex art. 2932 c.c., la sentenza che tenga luogo del contratto definitivo non concluso deve necessariamente riprodurre, nella forma del provvedimento giurisdizionale, il medesimo assetto d’interessi assunto dalle parti quale contenuto del contratto preliminare, senza possibilità di introdurvi modifiche (e pluribus, Cass. 29.3.06 n. 7273, 25.2.03 n. 2824, 7.8.02 n. 11874, in tema di comunione Cass. 1.3.95 n. 2319, 3 0.12.94 n. 11358, 8.7.93 n. 7481, 2.8.90 n. 7749 e, nello specifico, Cass. 19.5.88 n. 3483), una volta che il preliminare abbia avuto ad oggetto l’obbligazione di trasferire l’intero bene, neppure potrebbe il promissario acquirente agire per il trasferimento della sola quota del promittente venditore.
La tesi in discussione, d’altronde, può giustificare, al più, il difetto di legittimazione attiva del coniuge rimasto estraneo all’atto compiuto dall’altro senza il suo consenso quando trattisi di diritti d’obbligazione, in quanto la comunione legale fra i coniugi, di cui all’art. 177 c.c., attiene agli “acquisti”, id est agli atti implicanti l’effettivo trasferimento della proprietà della res o la costituzione di diritti reali sulla medesima, non quindi i diritti di credito sorti dal contratto concluso da uno dei coniugi, i quali, per la loro stessa natura relativa e personale, pur se strumentali all’acquisizione di una res, non sono suscettibili di cadere in comunione (Cass. 1.4.03 n. 4959, 4.3.03 n. 3185, 13.12.99 n. 13941, 18.2.99 n. 1363, 27.1.95 n. 987, 11.9.91 n. 9513); ma tali ragioni, peraltro fortemente criticate in dottrina, non possono valere nel caso inverso, laddove, come meglio in seguito, l’obbligazione del coniuge che ha agito senza il consenso dell’altro è fatta valere dal terzo e l’adempimento coattivo comporta l’aggressione al patrimonio familiare in generale ed al diritto di comproprietà del coniuge pretermesso in particolare.
Inoltre, dalla giurisprudenza e da parte della dottrina si è anche evidenziato come, stante il disposto dell’art. 184 c.c., comma 1, la categoria dei negozi immobiliari, per i quali è previsto il consenso congiunto dei coniugi, sia da identificare in base alla natura del bene sul quale cadono gli effetti del contratto, ricomprendendo, quindi, tanto i negozi ad effetti reali quanto quelli ad effetti obbligatori; come debbasi, ancora, fare riferimento al regime degli effetti, reale o personale che sia l’azione, ai fini dell’affermazione o meno della necessità del litisconsorzio (Cass. 31.3.06 n. 7698, 6.7.04 n. 12313, 14.5.03 n. 7404, 5.7.01 n. 9083, 1.7.97 n. 5895 SS.UU.).
È, piuttosto, evidente che l’essere ciascun coniuge titolare del bene per l’intero, e dell’intero poter disporre, non può implicare, di per sè, che debba escludersi la necessaria partecipazione dell’altro coniuge al giudizio nel quale si discuta della traslazione del bene stesso, evento rispetto al quale non può negarsi l’interesse ad interloquire del detto altro coniuge, pur sempre comproprietario del bene stesso.
Partire, infatti, dal presupposto che, al momento dell’introduzione del giudizio ex art. 2932 c.c., il coniuge promittente venditore abbia già efficacemente alienato il bene, così che il coniuge rimasto estraneo al negozio abbia perso, contestualmente alla stipulazione del preliminare, la propria contitolarità sul bene e non possa fare ricorso se non all’azione d’annullamento, oltre ad essere in palese contrasto con la lettera dello stesso art. 184 c.c., comma 1, che prevede una possibilità di convalida successiva inconciliabile con una già intervenuta perdita della titolarità del bene, implica una non condivisibile attribuzione a tale tipo di contratto d’un effetto traslativo, estraneo alla sua funzione ed alla sua natura, che non gli è riconosciuto neppure da quella parte della dottrina per la quale esso sarebbe configurabile come una sorta di vendita obbligatoria ed il definitivo come un semplice atto esecutivo o ripetitivo.
Vero è, per contro, che, stipulato il preliminare, nel momento in cui il coniuge promittente venditore si rende inadempiente e costringe il promissario acquirente all’azione d’esecuzione specifica, l’altro coniuge, che non abbia partecipato al negozio ne’ vi abbia prestato altrimenti il proprio consenso, è ancora contitolare del bene e su di esso legittimato ad esercitare i suoi poteri d’amministrazione congiunta; atteso l’effetto solo obbligatorio del preliminare, l’attività negoziale posta in essere dal coniuge promittente con l’impegnarsi ad alienare non ha prodotto ancora l’effetto di sottrarre il bene al patrimonio comune ed alla contitolarità su di esso d’entrambi i comproprietari, onde il coniuge rimasto estraneo al preliminare è ancora titolare d’una situazione giuridica inscindibile che lo rende litisconsorte necessario nel giudizio d’esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre.
È, infatti, ancora sul piano degli effetti della promossa azione ex art. 2932 c.c. che occorre muoversi ai fini della soluzione del problema che ne occupa.
Come evidenziato dalla dottrina prevalente e da quella parte della giurisprudenza che si ritiene qui di confermare, ove dal preliminare scaturiscano controversie, non può disconoscersi al coniuge rimasto estraneo al negozio l’interesse a partecipare ai relativi giudizi, in quanto, pur se non è rimasto personalmente obbligato e se non è corresponsabile assieme al coniuge stipulante, unico obbligato, tuttavia l’impegno assunto da quest’ultimo e la responsabilità personale del medesimo sono comunque tali da incidere sul patrimonio comune e sul tenore di vita della famiglia, giacché, ex art. 189 c.c., espongono all’altrui azione esecutiva non solo i beni del promittente ma anche quelli della comunione, essendo, infatti, la richiesta pronunzia ex art. 2932 c.c., o l’alternativa pronunzia risarcitoria quanto meno per responsabilità precontrattuale, destinate ad incidere anche sul diritto del coniuge comproprietario o contitolare non stipulante e sulla consistenza del patrimonio familiare.
Ne consegue l’ineludibile presenza in giudizio del coniuge rimasto estraneo al preliminare, dacché, come questa Corte ha ripetutamente evidenziato, si ha litisconsorzio necessario, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, allorquando la decisione richiesta, indipendentemente dalla sua natura (di condanna, d’accertamento o costitutiva), sia di per sè inidonea a spiegare i propri effetti, cioè a produrre un risultato utile e pratico, anche nei riguardi delle sole parti presenti, stante la natura plurisoggettiva e concettualmente unica ed inscindibile, sia in senso sostanziale, sia, alle volte, in senso solo processuale, del rapporto dedotto in giudizio, nel quale i nessi fra i diversi soggetti, e tra questi e l’oggetto comune, costituiscono un insieme unitario, con conseguente immutabilità del rapporto medesimo ove non vi sia la partecipazione di tutti i suoi titolari (da ultimo, Cass. 7.3.06 n. 4890, 6.7.04 n. 12313, 23.9.03 n. 14102, 5.7.01 n. 9083, 11.4.00 n. 4593 e 1.7.97 n. 5895 a SS.UU.).
Per altro verso, la necessaria partecipazione del coniuge rimasto estraneo al preliminare va affermata anche in applicazione dell’art. 180 c.c., dal quale, coerentemente alla ratio della novella che riconosce quale principio informatore del diritto di famiglia la parità di diritti e doveri tra i coniugi, si stabilisce che l’amministrazione dei beni della comunione spettano disgiuntamente a ciascuno di essi per gli atti d’ordinaria amministrazione ma congiuntamente ad entrambi per quelli di straordinaria amministrazione e per la stipula dei contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento nonché la rappresentanza in giudizio per gli atti ad essa relativi. Un valido criterio discretivo tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione generalmente accolto è quello della normalità dell’atto di gestione, che viene travalicata ove questo comporti un rischio di pregiudizio sulla consistenza del patrimonio o la possibilità d’alterazione della sua struttura, per il che a determinare il discrimine non è tanto il contenuto, modesto o rilevante, dell’atto, quanto piuttosto la sua finalità ed il suo effetto; onde può dirsi che, in linea di massima e rapportando comunque il criterio a ciascun singolo caso concreto, ove il negozio sia per sua natura intrinsecamente idoneo ad alterare la consistenza del patrimonio, a pregiudicarne le potenzialità economiche, a sottrarne o modificarne elementi costitutivi, esso è di straordinaria amministrazione, mentre è di ordinaria amministrazione ove sia tendenzialmente idoneo a conservare la consistenza quantitativa del patrimonio pur se rischioso.
Alla luce di tale criterio, non si può non riconoscere carattere pregiudizievole al contratto anche solo ad efficacia obbligatoria, in quanto potenzialmente idoneo ad incidere sulla consistenza del patrimonio dello stipulante; in particolare, carattere siffatto va riconosciuto al contratto preliminare di vendita, che, come è stato evidenziato in dottrina ed in giurisprudenza, si pone quale momento originario d’una serie obbligatoria consequenziale e successiva, il cui esito finale necessitato è il trasferimento della proprietà del bene promesso in vendita, sì che, in ragione dell’effetto conclusivo della sequenza, tale contratto, che alla serie obbligatoria da inizio, va considerato atto eccedente l’ordinaria amministrazione. Anche il contratto preliminare può avere, dunque, una rilevanza pregiudizievole sulla consistenza patrimoniale della comunione e sulle condizioni di vita della famiglia, in considerazione dell’obbligazione assunta dal disponente, che pur vincola unicamente costui, e della responsabilità dello stesso per l’inadempimento;
onde il contratto preliminare di vendita di bene immobile in regime di comunione legale costituisce negozio eccedente l’ordinaria amministrazione e, per il richiamato espresso disposto dell’art. 180 c.c., comma 2, le azioni che da esso traggono origine richiedono la presenza in giudizio d’entrambi i coniugi.
In definitiva, per tutte le esposte ragioni, devesi ritenere che nell’azione ex art. 2932 c.c. promossa dal promissario acquirente, per l’adempimento in forma specifica o per i danni da inadempimento precontrattuale, nei confronti del promittente venditore che, coniugato in regime di comunione dei beni, abbia stipulato senza il consenso dell’altro coniuge, quest’ultimo sia litisconsorte necessario; che, di conseguenza, ove il coniuge rimasto estraneo alla stipulazione del preliminare non sia stato convenuto in giudizio unitamente al coniuge stipulante e nei suoi confronti non sia stato integrato il contraddittorio, il giudizio svoltosi sia nullo e debba essere, pertanto, nuovamente celebrato a contraddittorio integro. Nella specie, deve, dunque, essere dichiarata la nullità delle sentenze di primo e di secondo grado, con conseguente rinvio della causa, ex art. 383 c.p.c., u.c., al Tribunale di Firenze il quale provvedere anche sulle spese, comprese quelle della presente fase del giudizio.
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