Corte di Cassazione, Sez. Unite, Sentenza n. 1003 del 1991, dep. 30/01/1991

 

[…]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
[…] ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza in data 7 novembre 1988 con la quale la Corte di appello di Trieste, riformando la decisione di primo grado, lo ha ritenuto responsabile del reato di omicidio colposo plurimo e, con le attenuanti generiche ritenute equivalenti all’aggravante dell’art. 589, comma 2 c.p., lo ha condannato alla pena di dieci mesi di reclusione.
A quanto risulta dalla sentenza, il 22 settembre 1982 in […], nell’essiccatoio di cereali […], dato in comodato alla cooperativa di agricoltori […] della quale era presidente […] tre dipendenti erano rimasti vittime di un infortunio mortale. […] doveva installare, con l’aiuto di […], un motoriduttore per far funzionare i trasportatori a catena del mais che, raccolto sotto una tettoia aperta e passando per una tramoggia, veniva avviato alla torre essiccatoio e da questa ai silos di raccolta. I trasportatori correvano attraverso locali sotterranei in un cunicolo che dopo circa venti metri perveniva nella fossa in cui erano scesi gli operai per eseguire il lavoro. Nella fossa erano stati trovati i corpi di […], di […] e di […], verosimilmente accorso in aiuto dei primi due; tutti e tre erano deceduti per asfissia provocata da una forte concentrazione di anidride carbonica.
I periti avevano accertato che l’anidride carbonica era stata prodotta per la fermentazione e soprattutto per la respirazione della granella di mais accumulata sotto la tettoia (oltre 2800 quintali) ed era passata attraverso la tramoggia ed il cunicolo andando a concentrarsi nella fossa in valori superiori a quelli normalmente ritenuti letali.
Per rispondere dell’omicidio colposo erano stati rinviati a giudizio davanti al Tribunale di Pordenone […] e […], quest’ultimo “nella qualità di legale rappresentante della […] s.p.a. che aveva assunto in appalto ed eseguito l’impianto d’essiccazione e conservazione del mais” senza – secondo l’imputazione – prevedere e comunque attuare misure cautelative, quali sistemi di ventilazione e simili, atte a fronteggiare la formazione – prevedibile in rapporto alla struttura dell’impianto, alla sua destinazione, ai fenomeni naturali della fermentazione – di quantità pericolose di anidride carbonica nella fossa di scorrimento del nastro trasportatore”.
Il tribunale con sentenza del 1 ottobre 1987 aveva assolto entrambi gli imputati, “il primo perchè il fatto non costituisce reato ed il secondo per non aver commesso il fatto”. A giudizio del tribunale […], che aveva ricevuto in consegna l’impianto recentemente progettato e costruito da esperti del settore, non era in grado di prevedere il fenomeno e l’impresa appaltatrice rappresentata da […] “era tenuta a garantire la sicurezza antinfortunistica delle apparecchiature e strutture metalliche appaltatele dall'[…] e non quella del complesso impianto caratterizzato dalla canalizzazione sotterranea dell’immissione del cereale e del suo trasporto agli elevatori e quindi ai silos di stoccaggio”.
In seguito all’impugnazione del pubblico ministero la Corte di appello di Trieste ha confermato l’assoluzione di […] ed ha invece condannato [….].
La […] secondo la corte di appello si era assunta il compito di progettare e realizzare l’intero impianto e dunque era responsabile non solo dei macchinari ma dell’intero impianto; di conseguenza […] doveva “prevedere in quali condizioni avrebbero operato i macchinari da lui forniti e quale sarebbe stato il grado di compatibilità delle lavorazioni con le strutture in cui le macchine venivano calate, cioè il grado di pericolosità dell’impianto complessivamente considerato”.
Più in particolare la corte di appello ha ritenuto che l’impresa appaltatrice “aveva l’obbligo di attenersi al disposto dell’art. 354 d.P.R. 27 aprile 1955 n. 547, secondo cui nei luoghi di lavoro o di passaggio … deve essere, per quanto tecnicamente possibile, impedito o ridotto al minimo il formarsi di concentrazioni pericolose o nocive di gas o vapori asfissianti, provvedendo, se del caso, ad un’adeguata ventilazione ed installando apparecchi indicatori e avvisatori automatici atti a segnalare il raggiungimento di concentrazioni pericolose”.
A sostegno del ricorso, […] ha dedotto tre motivi:
– con il primo motivo, denunciando vizi di motivazione ed erronea applicazione dell’art. 45 c.p., il ricorrente ha sostenuto che dal contratto d’appalto la corte di appello avrebbe dovuto dedurre che la […] si era impegnata solo alla costruzione del macchinario e alla sua installazione e che quindi non le si poteva fare carico dell’inosservanza dell’art. 354 d.P.R. 547/55 ed inoltre che l’impianto era stato collaudato dall'[…] con la partecipazione dei vigili del fuoco e dell'[…] e non aveva dato luogo a rilievi perchè era stato eseguito correttamente; il ricorrente ha aggiunto che l’incidente “era del tutto imprevedibile”;
– con il secondo motivo, denunciando la “violazione ed erronea applicazione dell’art. 354 d.P.R. 27 aprile 1955 n.547, il ricorrente ha sostenuto che questa norma si indirizza agli utilizzatori e non anche ai costruttori di una macchina e che eventualmente si sarebbe potuta indirizzare ai progettisti dell'[…], per quanto concerne la costruzione del cunicolo, ma non alla […]; il ricorrente ha aggiunto che l’art. 354 cit. concerne i “luoghi di lavoro e di passaggio” e che non può essere considerato tale l’ambiente dell’infortunio, nel quale si doveva accedere solo nel caso di guasto dei macchinari: secondo il ricorrente nell’ambiente in questione non c’era ragione di realizzare un impianto di aerazione, “non trattandosi di un luogo di lavoro o di passaggio, ma di un contenitore destinato soltanto ad alloggiare i nastri trasportatori”, e “l’obbligo di prendere tutte le misure precauzionali prima di scendere in tale ambiente era riservato al preposto a tali interventi”;
– con il terzo motivo, denunciando la “violazione ed erronea applicazione dell’art. 7 d.P.R. 7 aprile 1955 n. 547 e dell’art. 40 c.p.”, il ricorrente ha sostenuto che la responsabilità del costruttore, venditore e installatore di macchinari pericolosi cessa con la consegna e si trasferisce sul datore di lavoro, il quale è in ogni caso tenuto ad adottare ogni necessaria cautela antinfortunistica.
La quarta sezione penale, avendo rilevato che sulla questione proposta con il terzo motivo esisteva nella giurisprudenza della Corte di cassazione un contrasto ha rimesso gli atti al primo presidente il quale ha assegnato il ricorso alle sezioni unite. MOTIVI DELLA DECISIONE
Il vizio dedotto con il primo motivo è costituito secondo i ricorrenti da un travisamento di fatto perchè la sentenza impugnata ha ritenuto che l’appalto avesse ad oggetto l’intero impianto mentre “l’incarico concerneva solo la costruzione dei macchinari che avrebbero dovuto costituire la parte meccanica dell’essiccatoio”. È sufficiente però leggere il contratto per rendersi conto che non è avvenuto alcun travisamento di fatto. Risulta già dalla premessa che “l'[…] ha commissionato alla ditta la fornitura ed installazione per conto dell'[…] medesimo dell’impianto maidicolo di […]”; e che l’appalto avesse ad oggetto l’intero impianto trova conferma in vari articoli del contratto, ad iniziare dal primo: “L'[…] affida alla ditta, la quale assume la fornitura e l’installazione di un impianto d’essiccazione e conservazione per il mais . ., alle condizioni contenute nella lettera d’invito dell'[…] . . ., secondo la descrizione contenuta nell’offerta della Ditta . . ., nonchè secondo i disegni esecutivi”.
Con la lettera d’invito in data 8 novembre 1977, alla quale l’art. 1 ha fatto riferimento, l'[…] aveva chiesto alla […] e ad altre quattro imprese una “offerta per la fornitura di un impianto d’essiccazione” del quale erano state comunicate le caratteristiche con il progetto di massima e la precisazione che la “progettazione dell’impianto” era compito delle imprese cui era indirizzato l’invito. La lettera si chiudeva con le parole: “Lo scrivente si riserva, a suo insindacabile giudizio, di procedere o meno all’adozione del progetto predisposto da codesta Ditta…”. Era poi stata accolta l’offerta della […], alla quale era stata commessa la realizzazione dell’impianto secondo il progetto esecutivo dalla stessa predisposto.
Poichè questa è stata la vicenda contrattuale non può certo dirsi che la corte di appello abbia travisato i fatti quando ha affermato che la […] aveva assunto “la progettazione e la realizzazione dell’impianto d’essiccazione e stoccaggio del mais” ed è quindi priva di fondamento la tesi del ricorrente, ripresa anche con il secondo motivo, che egli avrebbe potuto essere ritenuto responsabile dell’eventuale inosservanza di norme antinfortunistiche relative ai macchinari ma non dell’inosservanza di norme concernenti l’impianto nel suo complesso e della pericolosità di questo dipendente da difetti di progettazione.
Né è vero, come è stato sostenuto nel secondo motivo, che al ricorrente comunque non potrebbe addebitarsi la violazione dell’art.354 d.P.R. 27 aprile 1955 n. 547, che impone la ventilazione ed altre cautele nei locali o luoghi di lavoro o di passaggio nei quali possono formarsi concentrazioni pericolose o nocive di gas, vapori o polveri esplodenti, infiammabili, asfissianti o tossici. Con ragione la sentenza impugnata, una volta stabilito che la […] si era assunta il compito di predisporre il progetto esecutivo dell’impianto e di realizzarlo, l’ha ritenuta responsabile, a norma dell’art. 7 d.P.R. n. 547 cit., per l’inosservanza della prescrizione antinfortunistica.
Per convincersi che la corte di appello ha fatto esatta applicazione del citato art. 7 è sufficiente ricordarne la formulazione: “sono vietate…..la costruzione, la vendita, il noleggio e la concessione in uso di macchine, di attrezzature, di utensili e di apparecchi in genere . . . nonchè l’installazione di impianti, che non siano rispondenti alle norme del decreto stesso”. Dalla formulazione infatti si deduce agevolmente che è illecita ai sensi dell’art. 7 (e punita ai sensi del successivo art. 390 d.P.R. n. 547 cit.) la realizzazione di un impianto non conforme alle norme del decreto, tra le quali è appunto il ricordato art. 354. Può dirsi in generale che l’esecutore di un impianto è sempre tenuto ad osservare le prescrizioni antinfortunistiche perchè l’obbligo gli deriva dalla legge, indipendentemente da una specifica previsione contrattuale ed anche nel caso in cui il committente, per ragioni di costo o per altre ragioni, richieda una prestazione diversa.
Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto pure sotto un altro aspetto l’errata applicazione dell’art. 354 cit. sostenendo che l’ambiente nel quale è avvenuto l’infortunio mortale non può essere considerato luogo di lavoro o di passaggio.
Anche sotto questo aspetto il motivo è privo di fondamento. È vero infatti che l’ambiente in questione era costituito da un locale interrato occupato dai macchinari del nastro trasportatore e non destinato all’attività lavorativa, ma è anche vero che non può per ciò solo escludersi che esso fosse da considerare luogo di lavoro. Luogo di lavoro o di passaggio ai fini della norma antinfortunistica in questione è infatti non solo quello in cui il lavoro o il passaggio avviene in continuazione, durante il funzionamento dell’opificio, ma anche quello nel quale si deve lavorare od accedere saltuariamente, senza che il lavoro o l’accesso risultino subordinati a particolari condizioni o cautele. Nella specie, i giudici di merito hanno accertato che si entrava nel locale attraverso una scala fissa e che più volte (v. al riguardo anche la sentenza di primo grado) gli operatori vi erano entrati per le riparazioni del motovariatore, perciò correttamente la corte di appello ha considerato il locale un luogo di lavoro ritenendo che avrebbero dovuto essere adottate le cautele prescritte dall’art. 354 cit. Nè vale ad escludere le responsabilità per l’inosservanza della norma antinfortunistica l’obiezione del ricorrente che l’impianto era stato collaudato senza rilievi “dall'[…] con la partecipazione dei vigili del fuoco e dell'[…]” perchè una volta accertata l’inosservanza, con la conseguente violazione dell’art. 7 d.P.R. n. 547 cit., il fatto che la violazione non sia stata rilevata dagli organi preposti al controllo potrebbe eventualmente dar luogo ad una responsabilità anche di questi ma non potrebbe far escludere la responsabilità di chi ha commesso la violazione.
Con il terzo motivo è stata proposta la questione che ha determinato la rimessione del ricorso alle sezioni unite:
richiamando alcune decisioni di questa corte il ricorrente ha sostenuto che “poichè spetta agli imprenditori la responsabilità di curare la sicurezza dell’ambiente di lavoro e di scegliere macchine rispondenti ai requisiti richiesti dal legislatore, le responsabilità del costruttore, del venditore e dell’installatore dei macchinari vengono a cessare nel momento in cui questi ultimi siano posti a disposizione del datore di lavoro, con la conseguenza che costui subentra nell’obbligo di applicare, dopo l’acquisto, i prescritti dispositivi di sicurezza, onde a suo carico può e deve essere ritenuta la penale responsabilità derivante da eventi determinati dalla violazione di norme antinfortunistiche relative a tali dispositivi”.
Occorre ricordare in proposito che la giurisprudenza prevalente è nel senso che l’utilizzazione di una macchina o di un impianto non conformi alla normativa antinfortunistica da parte dell’imprenditore, in violazione degli obblighi esistenti nei suoi confronti, non fa venir meno il rapporto di causalità tra l’infortunio e la condotta di chi ha costruito, venduto o ceduto la macchina o realizzato l’impianto (v., in questo senso, tra le decisioni più recenti, sez. IV 18 novembre 1988, Bovone;Sez. IV, 14 marzo 1988, Formis; Sez. IV, 7 marzo 1986, Orlandi; Sez. IV, 18 marzo 1982, Gatti; Sez. IV, 25 novembre 1980, Rovetta); alcune decisioni sono però nel senso, sostenuto dal ricorrente, che “la responsabilità del costruttore, venditore o installatore di macchine ex art. 7 della legge antinfortunistica viene a cessare nello stesso momento in cui la macchina viene messa a disposizione del datore di lavoro” e giungono quindi ad escludere la responsabilità del costruttore o del venditore (sez. IV 3 aprile 1979, Maccaferri). Da queste ultime decisioni si devono distinguere quelle (non poche) che contengono affermazioni di principio analoghe, fatte però non per escludere la responsabilità del costruttore o del venditore ma solo per affermare quella dell’imprenditore (sez. IV 16 maggio 1985, Pittalunga; Sez. VI, 24 novembre 1983, Perra e Natali; Sez. IV, 26 novembre 1975, Tassinari), la quale in altre decisioni invece è assai più semplicemente motivata considerando che “l’eventuale responsabilità del costruttore o venditore dei macchinari privi dei requisiti di sicurezza……non esclude quella di chi, a norma dell’art. 4, è tenuto a verificare, prima dell’impiego, che essi siano rispondenti alla normativa antinfortunistica e non costituiscano fonte di pericolo”.
La questione in sostanza attiene al rapporto di causalità, posto che occorre stabilire se deve o meno ravvisarsi questo rapporto tra la costruzione della macchina o la realizzazione dell’impianto e l’infortunio che in seguito alla messa in funzione sia derivato dall’inosservanza delle prescrizioni antinfortunistiche. I principi desumibili dagli art. 40 e 41 c.p. portano agevolmente a dare al quesito una risposta affermativa. Infatti, una volta stabilito che un infortunio è dipeso da una carenza della macchina o dell’impianto addebitabile al costruttore non si vede come possa negarsi che sussista, a norma dell’art. 40 c.p., un rapporto di causalità tra la condotta del costruttore e l’evento. La messa in funzione della macchina o dell’impianto da parte dell’impreditore senza ovviare alla carenza costituisce una causa sopravvenuta che non può rientrare tra quelle che per l’art. 41, comma 2 c.p. fanno venir meno il rapporto tra la precedente causa e l’evento. Quale che sia infatti la caratteristica d’assegnare alle “cause sopravvenute . . . da sole sufficienti a determinare l’evento” non c’è dubbio che anche seguendo una concezione non restrittiva non potrebbe comunque giungersi ad escludere il nesso di causalità in un caso, come quello in esame, in cui la prima condotta ha posto in essere una situazione di pericolo che secondo uno svolgimento normale ha poi determinato l’evento. Basta considerare che le macchine e gli impianti realizzati per un’impresa sono naturalmente destinati all’utilizzazione per convincersi che in questa non può ravvisarsi un accadimento interruttivo del nesso di causalità. Nè rileva il fatto che anche l’imprendititore è tenuto all’osservanza delle norme antinfortunistiche e quindi dovrebbe astenersi dal far funzionare una macchina o un impianto non regolare perchè l’art. 41, comma 3 c.p. stabilisce espressamente che “le disposizioni precedenti – quelle cioè sull’interruzione del rapporto di causalità – si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui”. In altre parole anche l’eventuale fatto illecito dell’imprenditore non vale a far perdere rilevanza, sotto l’aspetto causale, al fatto illecito del costruttore della macchina o dell’impianto.
Deve quindi convenirsi con la giurisprudenza prevalente di questa corte che l’utilizzazione della macchina o dell’impianto non conforme alla normativa antinfortunistica da parte dell’imprenditore non fa venir meno il rapporto di causalità tra l’infortunio e la condotta di chi ha costruito, venduto o ceduto la macchina o realizzato l’impianto.
In conclusione, essendo risultato privo di fondamento anche il terzo motivo, il ricorso deve essere rigettato […]