MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il Tribunale di Pordenone ha affermato la responsabilità dell’imputato in epigrafe in ordine a reato di cui all’art. 590 c.p., in danno dei lavoratore […]. La pronunzia è stata parzialmente riformata dalla Corte d’appello di Trieste che ritenuto la prevalenza delle attenuanti generiche ed ha rideterminato la pena. L’imputato era responsabile dello stabilimento […] con delega in materia di prevenzione e sicurezza del lavoro. I lavoratore operava su un fusto vuoto (che in precedenza conteneva un prodotto per la diluizione degli intonaci a base di alcol etilico) allo scopo di renderlo utilizzabile come contenitore per i materiali di scarto delle lavorazioni. Il liquido in precedenza presente nei fusto implicava pericolo di formazione di vapori esplosivi. Il lavoratore si accingeva alla rimozione del coperchio applicando a contenitore un elettrodo per praticare dei fori nel bidone ai fine di rendere possibile il suo aggancio alla gru e la sua movimentazione, utilizzando un utensile denominato scroccatrice. Nel compiere tale operazione causava una scintilla che innescava l’esplosione di vapori e la proiezione del coperchio che lo colpiva a volto cagionandogli gravissime lesioni.
La contestazione in imputazione afferisce alla mancanza di adeguata valutazione, ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, comma 2, del rischio derivante dall’utilizzazione dei fusti in questione ed alla colpa connessa alla mancata prescrizione di dispositivi più adeguati per evitare esplosioni.
La Corte d’appello ha convenuto con la difesa che all’interno dell’azienda si era instaurata una prassi, nota al […] e da lui sempre seguita, che prevedeva la preventiva inertizzazione dei fusti vuoti mediante lo sciacquo e lo svuotamento prima di procedere al loro riutilizzo. Tale prassi era nota alla vittima che la aveva sempre rispettata. È invece emerso che in occasione dell’infortunio tale prassi non era stata rispettata. Si ritiene che in quella contingenza il […], pur avendolo in precedenza fatto centinaia di volte, dimenticò di lavare il fusto. Si tratta di disattenzione, che costituisce una delle situazioni rischiose che il garante è tenuto a fronteggiare.
I lavoratore era al corrente della prassi ma era del tutto ignaro dei rischi connessi al permanere di vapori di solvente e del pericolo di incendio ed esplosione a contatto con una fonte di innesco. Ciò spiega la scarsa attenzione apprestata alla corretta inertizzazione del contenitore.
Tale situazione di pericolo avrebbe richiesto misure appropriate, quali la immediata inertizzazione del fusti prima di lasciarli abbandonati qua e là nello stabilimento, visto che essi costituivano una fonte di pericolo.
Se nel documento di valutazione dei rischi aziendali tale rischio fosse stato valutato, le procedure di sicurezza avrebbero dovuto essere esplicitate agli operai, ottenendo una maggiore attenzione da parte di coloro che impiegavano i fusti ridetti.
Viene quindi condiviso il giudizio del primo giudice: vi è colpa specifica connessa all’omessa valutazione dei rischio. 2. Ricorre per cassazione l’imputato deducendo diversi motivi. 2.1. Violazione dell’art. 521 c.p.p.. La contestazione riguardava la mancata adozione di dispositivi più adeguati. In relazione a tale imputazione è stata pronunziata sentenza di condanna in primo grado. È emerso che il ricorrente aveva elaborato una procedura di apertura dei fusti che prevedeva lo svitamento dei tappi, il lavaggio con acqua, l’apertura con mezzi meccanici e solo infine l’intervento facendo uso della scroccatrice. Il lavoratore è invece subito intervenuto con la scroccatrice. Il giudice d’appello ha sostanzialmente accolto le prospettazioni difensive al riguardo, ma ha fondato l’affermazione di responsabilità su aspetti della vicenda mai contestati. In particolare si è ritenuto che fosse mancata la valutazione del rischio: obbligo che grava sul datore di lavoro e che non è delegabile. Tale innovazione dell’accusa ha comportato violazione del diritto di difesa.
2.2 Violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4. Si è attribuita al ricorrente l’omessa valutazione del rischio, che costituisce obbligo non delegabile del datore di lavoro, qualifica che il […] non rivestiva.
2.3. Violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 5. Erroneamente si è ritenuto che il lavoratore non fosse destinatario di alcun obbligo di sicurezza verso se stesso e potesse disattendere gli obblighi di legge e le istruzioni del datore di lavoro. È invece emerso che il lavoratore ha completamente pretermesso le misure di sicurezza previste in ordine all’apertura dei fusti da una procedura non scritta ma consolidata.
Tale violazione è stata l’unica causa dell’evento.
2.4. Si censura i ritenuto nesso causale. L’evento è derivato dalla violazione delle prescrizioni di sicurezza che imponevano di inertizzare il fusto, togliendo i tappi e lavandolo. Solo dopo si poteva tagliare meccanicamente il coperchio. Erroneamente si è ritenuto che si trattasse di disattenzione prevedibile. È invece certo che l’evento si è verificato a causa del comportamento inosservante del lavoratore e dunque non sussiste il nesso causale.
2.5. La Corte ha inoltre violato l’art. 43 c.p.. Il datore di lavoro deve poter fare affidamento sull’osservanza delle procedure da parte del dipendente. Nessun rimprovero avrebbe potuto esser mosso, neppure con riguardo al non contestato deficit di valutazione del rischio. Non può pretendersi la valutazione di rischi minimo, come quello di aprire un bidone. Qui non era in questione il rischio derivante da atmosfere esplosive. In ogni caso tutti i rischi erano stati considerati compreso quello dell’addetto scroccatore.
2.6. Si censura altresì la rilevanza causale dell’ipotetica omissione da parte del datore di lavoro. Il controfattuale è puramente immaginativo. Si è trascurato che mai in precedenza si era verificato alcun infortunio in sede di pulitura dei bidoni. La pericolosità della procedura era nota ed essa non aveva mai esposto a pericolo alcuno. Tale aspetto della vicenda non è stato valutato dalla Corte d’appello.
3. Il ricorso è infondato.
Dalla lettura della prima sentenza emerge che era stata omessa la valutazione de rischio specifico connesso all’uso dei bidoni svuotati. Inoltre la vittima non era stata in alcun modo edotta dei rischi relativi alla preparazione dei fusto. La prassi invalsa era che i lavoratore, privo della esatta cognizione del pericolo che scaturiva dall’impiego dei contenitori, si procurasse un contenitore, ne rimuovesse i tappi, lavasse l’interno con acqua, praticasse dei fori per la movimentazione con gru, con il pericolo che un’inadeguata attenzione a tale operazione rendesse possibile ì’innesco di esplosione dei vapori a seguito dell’uso della scroccatrice. Dunque tale prassi era inadeguata e pericolosa. Tra l’altro quei giorno il lavoratore aveva a lungo cercato un fusto vuoto all’interno dello stabilimento.
Tale valutazione è sostanzialmente consonante con quella espressa dalla Corte d’appello e di cui si è dato conto all’inizio. Ne emerge che il lavoratore era all’oscuro circa le ragioni che rendevano essenziale, ai fini della sicurezza, il lavaggio dei bidoni. La ripulitura era infatti imposta dall’esigenza di allontanare possibili resti di sostanze volatili ed infiammabili. Inoltre la prassi instaurata era sommaria, non prevedeva la inertizzazione dei bidoni prima che fossero lasciati sparsi ed incontrollati nello stabilimento. Questo duplice profilo di colpa non reca in sè alcuna immutazione della contestazione: già nella originaria imputazione, infatti si faceva riferimento all’assenza di appropriate misure per governare il rischio. E d’altra parte l’imputato si è nel corso dell’intero processo adeguatamente difeso in ordine alle contestazioni afferenti alle procedure di cui si discute. L’indicato duplice tratto colposo della condotta è altresì idoneo a giustificare l’affermazione di responsabilità. È ben vero che effettivamente la valutazione dei rischio già all’epoca del fatto era adempimento non delegabile del datore di lavoro, ai sensi del D.Lgs. n. 626 dei 1994, art. 1 comma 4 ter. Tuttavia al datore di lavoro delegato incombeva l’obbligo di informare ì lavoratori sui rischi per la sicurezza, ai sensi dell’art. 20 del richiamato decreto legislativo; e, naturalmente, di adottare le procedure di sicurezza appropriate. Il delegato aveva individuato il rischio, tanto che vi aveva fatto fronte instaurando la prassi operativa di svuotamento e lavaggio, Tuttavia essa era inadeguata. E non era comunque accompagnata dall’essenziale informazione al lavoratore. E ciò fonda adeguatamente la colpa.
La valutazione dei rischi ed il relativo documento costituisco efficaci strumenti al servizio della sicurezza, consentendo la messa a fuoco della situazione pericolose e, conseguentemente, l’adozione delle adeguate misure di sicurezza. Ma, con tutta evidenza, le valutazioni e prescrizioni contenute nel detto documento non limitano per nulla la responsabilità dei garanti che, nella maggior parte dei casi, trovano il loro fondamento prescrittivo nella articolata disciplina di settore. Le omissioni o carenze del documento non possono per ciò solo far venire meno gli ulteriori obblighi datoriali previsti dalla legge. La constatazione del rischio impone comunque ai garanti medesimi, nell’ambito delle loro rispettive competenze, di adottare le misure appropriate che, giova ripeterlo, riguardavano nel caso di specie la spiegazione dei rischi e l’adozione di procedure adeguate. Tali apprestamenti sono invece mancati: il rischio era noto, ma era governato con prassi inappropriata.
A ciò può ad abundantiam aggiungersi che il tema della competenza in ordine al documento di valutazione dei rischi non era stato dedotto in appello.
La sentenza non è neppure censurabile a proposito della evitabilità dell’evento. Le pronunzie di merito correttamente argomentano che se il lavoratore fosse stato informato del rischio di esplosione avrebbe con ben maggiore attenzione e cautela proceduto al lavaggio, così evitando l’evento. Il controfattuale è dunque articolato correttamente.
D’altra parte, a fronte di una così macroscopica violazione del dovere d’informazione, correttamente i giudici di merito hanno ritenuto di non poter porre in campo l’opinata negligenza della ignara vittima.
Il ricorso deve essere conseguentemente rigettato.
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