Corte Costituzionale, Sentenza N. 30 del 1990, dep. il 26/01/1990

[…]

Ritenuto in fatto

1. – Con due ordinanze di identico tenore emesse il 19 dicembre 1986, pervenute alla Corte costituzionale il 24 maggio 1989, il Tribunale di Como ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 39 Cost., una questione di legittimità costituzionale degli artt. 17, 19 e 23 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei diritti dei lavoratori), “se interpretati nel senso di imporre il divieto per le rappresentanze aziendali dei lavoratori costituite al di fuori di quelle legittimate ex art. 19 Statuto, in quanto espressione sempre e comunque di sindacati di comodo, di accedere pattiziamente a forme più o meno estese di tutela, ed in particolare alla possibilità di fruire per i loro dirigenti di permessi retribuiti allo scopo di svolgere attività sindacale”.
Nei casi di specie, il diritto a tali permessi era stato riconosciuto sia dal Pretore che – in sede di appello – dal Tribunale di Milano a …, dirigenti della rappresentanza aziendale costituita presso la … S.p.A. dal sindacato …, in quanto costoro, prima del diniego da parte della società, ne avevano fruito in virtù di accordo tacito o comunque di uniforme e generalizzata prassi aziendale.
La Corte di cassazione, con sentenze 7 febbraio 1986, n. 783 e 19 marzo 1986, n. 1913, aveva viceversa ritenuto che il diritto di costituire rappresentanze aziendali è riservato dal citato art. 19 alle associazioni “maggiormente rappresentative” sul piano nazionale, e quindi precluso a quelle sprovviste di tali requisiti; che, conseguentemente, solo ai dirigenti delle rappresentanze delle prime, e non anche a quelli delle organizzazioni extra art. 19, spetta il diritto ai permessi retribuiti; e che un’eventuale deroga pattizia a tale regola, risolvendosi per i beneficiari in un trattamento di favore, verrebbe a porsi, oltreché contro il principio di ordine pubblico cui le indicate norme si informano, contro l’espresso divieto fatto ai datori di lavoro dall’art. 17 dello Statuto “di sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori”.
Il Tribunale di Como, giudice di rinvio chiamato ad applicare la disciplina risultante da tale principio di diritto, ne contesta la legittimità costituzionale. L’art. 19 dello Statuto – osserva il Tribunale – è norma speciale rispetto all’art. 14, che, in conformità all’art. 39 Cost., garantisce a tutti i lavoratori il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale all’interno dei luoghi di lavoro. Esso è, inoltre, norma a carattere definitorio, nel senso che individua le caratteristiche – di rappresentatività extra-aziendale – che devono avere le rappresentanze sindacali aziendali per poter accedere alla c.d. legislazione di sostegno di cui alle norme del titolo III dello Statuto. Ne risulta così circoscritto – onde evitare un’eccessiva atomizzazione sindacale – l’ambito delle aggregazioni che possono ex lege pretendere l’applicazione di tali norme; ma ciò non significa che le medesime prerogative non possano essere, in tutto o in parte, pattiziamente estese a rappresentanze aziendali costituite al di fuori dei moduli dell’art. 19.
L’opposta opinione della Cassazione, fondata sulla tesi (assolutamente minoritaria in dottrina e giurisprudenza) della natura “permissiva” dell’art. 19 – che cioè solo i sindacati aventi i requisiti ivi indicati sarebbero legittimati a costituire rappresentanze sindacali aziendali – confligge, secondo il giudice a quo, con la garanzia della libertà sindacale di cui all’art. 39 Cost. Essa, infatti, comporta che ai sindacati sprovvisti dei requisiti di cui all’art. 19 viene di fatto preclusa la possibilità di pervenire ai livelli di rappresentatività che consentirebbero l’accesso ex lege alla legislazione di sostegno. Se, invero, essi sono privati dal potere di costituire propri organismi in azienda e destinati a vedersi sempre annullato qualsiasi riconoscimento o spazio già ottenuto in virtù di accordo o prassi uniforme, si da luogo ad una sorta di “pietrificazione dello status quo” e, ignorando le mutevoli realtà aziendali, si preclude l’accesso alla legislazione di sostegno ad organizzazioni che siano magari presenti in azienda in forme maggioritarie e non necessariamente di comodo, che tali dovrebbero però essere sempre ritenute, indipendentemente dalla prova della volontà di sostegno antisindacale dell’imprenditore.
Ad avviso del Tribunale sarebbe, inoltre, violato l’art. 3, secondo comma, Cost., in quanto “se è legittimo riconoscere per legge particolari prerogative a chi ha raggiunto effettivi livelli di rappresentatività alla stregua dei requisiti di cui all’art. 19, non possono tollerarsi discriminazioni tra organizzazioni sindacali quanto all’esistenza e all’esercizio della propria attività”.
2. – Nei giudizi dinanzi alla Corte si sono costituiti, a mezzo dell …, gli attori nei procedimenti a quibus …, i quali, nell’atto di costituzione e in una memoria aggiunta, hanno svolto argomentazioni sostanzialmente analoghe a quelle contenute nell’ordinanza di rimessione. La difesa insiste, in particolare, sul carattere definitorio e non permissivo dell’art. 19 St. e sottolinea che il riconoscimento di determinati spazi di agibilità sindacale, quali i permessi, era già avvenuto in alcuni casi prima dello Statuto, si è realizzato in via di fatto anche dopo ed ha fonte autonoma rispetto allo Statuto medesimo, in quanto discende da accordi generali o particolari originati dal concreto operare dell’organizzazione sindacale. Se si nega validità ai riconoscimenti e spazi già ottenuti dalle organizzazioni non rientranti nel modello dell’art. 19, esse non solo non godono del trattamento privilegiato di quelle che vi rientrano, ma sono specificamente contrastate e si nega di fatto il loro diritto all’esistenza ed allo svolgimento della propria attività. Altro infatti è sancire una disuguaglianza delle posizioni di partenza, attribuendo un privilegio alle organizzazioni ivi contemplate e con ciò alterando la libera concorrenza tra sindacati; altro è argomentarne il totale “blocco” di tale concorrenza, mediante l’immobilizzazione, e quindi l’esclusione, proprio di quei sindacati che, pur partendo da posizioni svantaggiate, riescano ad emergere costringendo il datore al riconoscimento contrattuale.
Quanto, poi, all’art. 17 St., la difesa sottolinea che elemento costitutivo della fattispecie ivi vietata è la prova della volontà di sostegno antisindacale dell’imprenditore, che non può perciò essere presunta. A ritenere altrimenti, si giungerebbe al paradosso “per cui il coronamento contrattuale della lotta di un sindacato per l’equiparazione ai sindacati privilegiati dalla legge dovrebbe essere considerato come indice sicuro della sua funzione ‘di comodo'”.
La difesa nega inoltre che vi fossero nella specie elementi idonei a qualificare come “di comodo” il sindacato in questione, e sostiene che se l’art. 17 St. fosse interpretato nel senso di imporre al datore di lavoro di negare spazi di agibilità sindacale a soggetti diversi da quelli di cui all’art. 19 esso si porrebbe in contrasto con l’art. 39 Cost.
La difesa richiama infine alcune convenzioni internazionali in tema di libertà sindacale (Convenzioni O.I.L. nn. 87 e 98, recepite con legge 23 marzo 1958, n. 367; Convenzione europea dei diritti dell’uomo, art. 11; Carta sociale europea, ratificata con legge 3 luglio 1965, n. 929, artt. 5 e 6; Patto internazionale dei diritti economici, sociali e culturali dell’O.N.U., ratificato con legge 25 ottobre 1977, n. 881, art. 8) per desumerne che il divieto per alcune organizzazioni sindacali di ottenere spazi e riconoscimenti si porrebbe in contrasto con tali fonti normative internazionali, con conseguente possibile violazione anche degli artt. 10 e 35 Cost.
3. – L’Avvocatura dello Stato, intervenuta in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri in entrambi i giudizi con memorie identiche, sostiene innanzitutto che la questione sarebbe inammissibile, in quanto sollevata rispetto ad una regola – quella risultante dal principio di diritto enunciato dalla Cassazione – cui il giudice di rinvio è tenuto ad uniformarsi. Pur dando atto del contrario orientamento di questa Corte (sent. n. 138 del 1977), l’Avvocatura ne sollecita una revisione, argomentando dal fatto che il principio di diritto non può essere messo in discussione dal giudice di rinvio, neanche per dubitare della sua validità costituzionale, in quanto rispetto al rapporto in causa si è su di esso formato il giudicato.
La questione, secondo l’Avvocatura, è comunque infondata nel merito. Da un lato, infatti, la preclusione alla costituzione di rappresentanze sindacali aziendali da parte delle associazioni non rispondenti ai requisiti in cui all’art. 19 St. sarebbe già stata ritenuta legittima da questa Corte (sent. n. 54 del 1974); dall’altro, l’inibizione per queste a giovarsi delle misure di sostegno specificate nel titolo III dello Statuto, anche se ottenute pattiziamente, non menomerebbe la loro libertà di azione sindacale. La possibilità di accesso al livello di rappresentatività voluto dall’art. 19 dipenderebbe infatti non dalla fruizione di tali misure, ma dalla capacità dell’organizzazione di rendersi interprete, in modo serio e credibile, degli interessi della categoria rappresentata e di accrescere così le adesioni, fino a risultare un valido interlocutore nella contrattazione collettiva.

Considerato in diritto

1. – I procedimenti hanno ad oggetto la medesima questione di legittimità costituzionale degli artt. 17, 19 e 23 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), sollevata in riferimento agli artt. 39 e 3, secondo comma Cost. dal Tribunale di Como con due ordinanze distinte ma di identico tenore. È perciò evidente l’opportunità della loro riunione.
2. – L’Avvocatura dello Stato ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità della questione, in quanto sollevata dal predetto Tribunale, quale giudice di rinvio, nei confronti della norma risultante dal principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione. A suo avviso, dal fatto che questi è tenuto ad uniformarsi a detto principio (art. 384 c.p.c.) discende che, rispetto al rapporto in causa, si formi sul punto il giudicato e che perciò esso non possa essere messo in discussione neanche per dubitare della sua validità costituzionale.
Tale eccezione va disattesa, in quanto contrasta col consolidato indirizzo di questa Corte – più volte manifestato sia esplicitamente che in modo implicito (cfr. ad es. le sentt. nn. 138 del 1977, 11 del 1981, 21 del 1982, 2 e 345 del 1987) – rispetto al quale l’Avvocatura non adduce argomenti nuovi. Essa, in effetti, suppone una confusione tra i distinti profili dell’interpretazione della norma – rispetto alla quale il giudice di rinvio è vincolato – e della sua legittimità costituzionale. Il giudizio in proposito è riservato a questa Corte e non può ritenersi assorbito nella valutazione compiuta sul piano ermeneutico dal giudice della nomofilachia. E poiché la norma – così come interpretata – deve ancora ricevere applicazione nella fase di rinvio, il precludere che su di essa vengano prospettate questioni di legittimità costituzionale comporterebbe un’indubbia violazione delle disposizioni regolanti la materia (artt. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1948 e 23 della legge n. 87 del 1953), dato che queste non contengono al riguardo alcuna specifica limitazione.
3. – Con le due sentenze, di tenore identico (Sez. lav., nn. 783 e 1913 del 1986) dalle quali i giudizi di rinvio traggono origine, la Corte di cassazione ha statuito la nullità, per illiceità dell’oggetto, delle pattuizioni concernenti la concessione di permessi retribuiti a dirigenti di rappresentanze sindacali aziendali non rientranti tra quelle definite nell’art. 19 St. lav., e cioè costituite al di fuori dell’ambito delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale o delle associazioni comunque firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva.
Il giudice a quo dubita che tale norma – che la Corte di cassazione ricava dagli artt. 17, 19 e 23 dello Statuto – contrasti con gli artt. 39 e 3, secondo comma, Cost., assumendo che essa – in quanto preclude a tali organizzazioni la possibilità di accedere di fatto ai livelli di rappresentatività che, ai sensi del citato art. 19, consentono di fruire della c.d. legislazione di sostegno – ne limiterebbe la libertà sindacale e comporterebbe nei loro confronti ingiustificate discriminazioni quanto all’esercizio delle loro attività. Ai fini della risoluzione di tale questione – che è l’unica rilevante per la definizione dei giudizi principali – non è decisivo stabilire se la costituzione di rappresentanze sindacali aziendali sia consentita solo nell’ambito delle associazioni di cui all’art. 19. Confutando l’opinione in tal senso espressa nelle citate sentenze, il giudice a quo ricorda che è ormai largamente prevalente, in dottrina e giurisprudenza, la tesi della natura definitoria, e non permissiva, di questa disposizione. Ciò però indurrebbe solo a ritenere che è legittima la costituzione di rappresentanze che, non fruendo delle posizioni attive di cui al titolo III dello Statuto, operano nondimeno nell’ambito dell’art. 14 del medesimo; ma non comporta come necessaria conseguenza la possibilità di accesso in via pattizia alle suddette posizioni attive.
Parimenti non decisivo, ai fini in discorso, è stabilire se il divieto di concessione pattizia di permessi retribuiti discenda direttamente da quello, imposto all’imprenditore dall’art. 17, di “sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori”. Il giudice a quo intende in tal senso la concisa enunciazione contenuta al riguardo nelle sentenze di rinvio; e giustamente oppone che dalla pattuizione in qualunque modo intervenuta tra l’imprenditore ed una determinata associazione sindacale non può senz’altro inferirsi, per presunzione assoluta, la natura “di comodo”, e quindi la non genuinità di quest’ultima. Le agevolazioni concesse ben possono infatti essere giustificate dalla particolare forza contrattuale raggiunta da tale associazione, a seguito di un’autentica controversia collettiva. Per pervenire alla qualificazione di un sindacato come “di comodo” non può in effetti prescindersi – secondo l’opinione prevalente in dottrina e giurisprudenza – dall’indagine concreta sull’intento antisindacale dell’imprenditore e sulla finalizzazione del sostegno all’assoggettamento alle proprie strategie dell’organizzazione beneficiaria: e conseguentemente l’illiceità della concessione pattizia di permessi retribuiti non può essere affermata sulla base del solo disposto dell’art. 17.
A ben vedere, però, non sembra essere questa l’opinione della Corte di cassazione: che, altrimenti, si sarebbe logicamente limitata a questo solo argomento, in quanto decisivo ed assorbente. Al di là delle espressioni testuali, appare perciò più corretto intendere il riferimento all’art. 17 come espressione di quel “principio di ordine pubblico” ostativo a tali pattuizioni che essa ritiene di dover desumere dal complesso delle disposizioni statutarie richiamate (artt. 17, 19 e 23): sicché l’indagine demandata alla Corte concerne la conformità di detto principio alle disposizioni costituzionali di cui si lamenta la violazione.
4. – La protezione accordata dallo Statuto dei diritti dei lavoratori alle organizzazioni sindacali si articola su due livelli. Ad un primo livello, comune a tutte, viene assicurata la libertà di associazione e di azione sindacale, che comprende altre importanti garanzie, quali la tutela contro atti discriminatori, anche sotto forma di trattamenti economici collettivi, la libertà di proselitismo e collettaggio (artt. 15, 16, 26), l’accesso ad altri importanti diritti di esercizio collettivo, come quelli sanciti dagli artt. 9 e 11. A garanzia del libero sviluppo di una normale dialettica sindacale stanno poi il divieto di sindacati di comodo (art. 17) e la tutela – per le organizzazioni a dimensione nazionale – contro la condotta antisindacale del datore di lavoro (art. 28).
Il secondo livello esprime la politica promozionale perseguita dal legislatore al precipuo fine di favorire l’ordinato svolgimento del conflitto sociale, e comporta una selezione dei soggetti collettivi protetti fondata sul principio della loro effettiva rappresentatività. Ad essi sono attribuiti diritti ulteriori idonei a sostenerne l’azione, come quelli di tenere assemblee, disporre di locali, fruire di permessi retribuiti (artt. 20, 23, 27) ecc. Il principale criterio selettivo adottato al riguardo è quello della “maggiore rappresentatività” a livello pluricategoriale (art. 19, lett. a), finalizzato a favorire un processo di aggregazione e coordinamento degli interessi dei vari gruppi professionali, di sintesi delle varie istanze rivendicative e di raccordo con le esigenze dei lavoratori non occupati. Ma accanto ad esso la tutela rafforzata è stata conferita (lett. b) anche al sindacalismo autonomo, sempreché esso si dimostri capace di esprimere attraverso la firma di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva – un grado di rappresentatività idoneo a tradursi in effettivo potere contrattuale a livello extra-aziendale (cfr. sent. n. 334 del 1988).
La posizione di vantaggio che il giudice a quo vorrebbe riconosciuta alle organizzazioni sindacali non rientranti nelle predette categorie, che ottengono permessi sindacali (o altre misure di sostegno) per patto con l’imprenditore costituirebbe, precisamente, una deroga a quanto disposto nella lett. b) dell’art. 19.
Si tratta perciò di vedere se il criterio selettivo espresso in tale disposizione sia da considerare, nel sistema dello Statuto, come criterio inderogabile, ed in caso positivo se tale inderogabilità sia o meno conforme a Costituzione.
Ad entrambi tali quesiti va data risposta positiva: e perciò la questione deve ritenersi non fondata.
5. – La differenza tra i due suaccennati livelli di tutela che il giudice a quo vorrebbe colmabile attraverso pattuizioni con l’imprenditore consiste, come si è detto, nel diverso e più elevato grado di effettiva rappresentatività che le organizzazioni ammesse alla tutela rafforzata di cui al titolo III dello Statuto devono dimostrare di possedere. Al di fuori della rappresentatività generale presupposta nella lett. a), la lett. b) dell’art. 19 appresta un congegno di verifica empirica della rappresentatività nel singolo contesto produttivo, misurandola sull’efficienza contrattuale dimostrata almeno a livello locale, attraverso la partecipazione alla negoziazione ed alla stipula di contratti collettivi provinciali. Nel fissare a tale livello – extra-aziendale – la soglia minima della rappresentatività, il legislatore ha tra l’altro inteso evitare, o quanto meno contenere, i pregiudizi che alla libertà ed autonomia della dialettica sindacale, all’eguaglianza tra le varie organizzazioni ed all’autenticità del pluralismo sindacale possono derivare dal potere di accreditamento della controparte imprenditoriale.
Rispetto a tali pericoli, l’accesso pattizio alle misure di sostegno non offre alcuna garanzia oggettivamente verificabile, in quanto è strutturalmente legato al solo potere di accreditamento dell’imprenditore. Il patto, infatti, non presuppone di per sé alcuna soglia minima di rappresentatività dell’organizzazione che ne sia beneficiaria, pur al livello meramente aziendale, sicché può avvantaggiare sindacati di scarsa consistenza e correlativamente alterare la parità di trattamento rispetto ad organizzazioni dotate di rappresentatività anche maggiore presenti in azienda. Pur al di fuori dell’ipotesi di sostegno al sindacato “di comodo” (art. 17), sarebbe in tal modo consentito all’imprenditore di influire sulla libera dialettica sindacale in azienda, favorendo quelle organizzazioni che perseguono una politica rivendicativa a lui meno sgradita.
Questa Corte, d’altra parte, ha già ripetutamente sottolineato (sentt. nn. 54 del 1974 e 334 del 1988) la razionalità di una scelta legislativa caratterizzata dal ricorso a tecniche incentivanti idonee ad impedire un’eccessiva dispersione e frammentazione dell’azione dell’autotutela ed a favorire una sintesi degli interessi non circoscritta alle logiche particolaristiche di piccoli gruppi di lavoratori.
È palese che la possibilità di estensione pattizia delle misure di sostegno si porrebbe in contraddizione con tale logica: sia perché favorirebbe processi di frammentazione della rappresentanza potenzialmente pregiudizievoli alla stessa efficacia dell’azione sindacale; sia perché rafforzerebbe il potere di pressione di cui ristretti gruppi professionali fruiscono in ragione della loro particolare collocazione nel processo produttivo e potrebbe più in generale incentivare quella segmentazione esasperata dell’azione sindacale che la Corte, nelle citate sentenze, ha ritenuto contraria agli interessi generali e specificamente a quelli dei lavoratori.
Il divieto delle pattuizioni in discorso è perciò coerente non solo alla logica ispiratrice dell’art. 19, ma anche ai motivi in base ai quali la Corte ha ritenuto tale disposizione conforme ai principi costituzionali qui invocati.
6. – Le ragioni che spinsero il legislatore del 1970 a scoraggiare la proliferazione di microorganizzazioni sindacali ed a favorire, secondo un’ottica solidaristica, la rappresentazione di interessi non confinati nell’ambito delle singole imprese o di gruppi ristretti sono tuttora in larga misura valide. La Corte è tuttavia ben consapevole che, anche a causa delle incisive trasformazioni verificatesi nel sistema produttivo, si è prodotta in anni recenti una forte divaricazione e diversificazione degli interessi, fonte di più accentuata conflittualità; e che anche in ragione di ciò – nonché delle complesse problematiche che il movimento sindacale si è perciò trovato a dover affrontare – è andata progressivamente attenuandosi l’idoneità del modello disegnato nell’art. 19 a rispecchiare l’effettività della rappresentatività.
Prendere atto di ciò non significa, però ritenere che l’idoneo correttivo al logoramento di quel modello consista nell’espansione, attraverso lo strumento negoziale, del potere di accreditamento della controparte imprenditoriale, che per quanto si è detto può non offrire garanzie di espressione della rappresentatività reale. Si tratta, invece, di dettare nuove regole idonee ad inverare, nella mutata situazione, i principi di libertà e di pluralismo sindacale additati dal primo comma dell’art. 39 Cost.; prevedendo, da un lato, strumenti di verifica dell’effettiva rappresentatività delle associazioni, ivi comprese quelle di cui all’art. 19 dello Statuto; dall’altro la possibilità che le misure di sostegno – pur senza obliterare le già evidenziate esigenze solidaristiche – siano attribuite anche ad associazioni estranee a quelle richiamate in tale norma, che attraverso una concreta, genuina ed incisiva azione sindacale pervengano a significativi livelli di reale consenso.
Non spetta a questa Corte individuare gli indici di rappresentatività, i modi di verifica del consenso, l’ambito in cui questa deve essere effettuata, i criteri di proporzionalità della rappresentanza e gli strumenti di salvaguardia degli obiettivi solidaristici ed equalitari propri del sindacato; ma essa non può mancare di segnalare che l’apprestamento di tali nuove regole – ispirate alla valorizzazione dell’effettivo consenso come metro di democrazia anche nell’ambito dei rapporti tra lavoratori e sindacato – è ormai necessario per garantire una più piena attuazione, in materia, dei principi costituzionali.

Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 19, 17 e 23 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento) sollevata in riferimento agli artt. 3 e 39 Cost. dal Tribunale di Como con le ordinanze indicate in epigrafe.