Corte di Cassazione, Sez. 1, Ordinanza n. 10112 del 2018, dep. il 24/04/2018

[…]

FATTI DI CAUSA

1. — Con sentenza del 30 giugno 2014 la Corte d’appello di Brescia ha respinto l’appello proposto da […] e […] nei confronti della Banca […], poi […], contro la sentenza con cui il Tribunale di Mantova aveva respinto la loro domanda volta alla dichiarazione di nullità, annullamento ovvero risoluzione di operazioni di investimento da essi poste in essere nell’ambito di un contratto quadro stipulato con l’intermediario finanziario per la negoziazione di strumenti finanziari.
La Corte territoriale ha ritenuto:
-) che gli originari attori non avessero chiesto la dichiarazione di risoluzione del contratto quadro;
-) che i testi indotti dall’intermediario finanziario fossero capaci e che non vi fossero ragioni per dubitare della loro attendibilità;
-) che, quanto ai titoli azionari, riguardo ai quali gli appellanti avevano sostenuto che lo stesso intermediario finanziario avesse ammesso di non aver fornito alcuna informazione, […] e […] non avessero neppure indicato gli specifici investimenti cui intendevano riferirsi, né il tempo del relativo acquisto, né lo specifico andamento dei titoli;
-) che l’obbligo informativo fosse stato adempiuto in relazione all’acquisto di azioni […];
-) che fosse stato altresì adempiuto l’obbligo di segnalazione delle operazioni inadeguate, essendo viceversa adeguate quelle riguardo alle quali la segnalazione non era stata effettuata;
-) che l’intermediario finanziario non fosse tenuto ad un obbligo di informazione post-contrattuale.
2. — Per la cassazione della sentenza […] e […] hanno proposto ricorso per otto motivi.
[…] ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. — Il ricorso, che si protrae per 54 pagine ed è in ciò difforme dal Protocollo siglato il 17 dicembre 2015 dalla Corte di cassazione e dal Consiglio nazionale forense, a mezzo dei loro presidenti, in merito alle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia civile e tributaria, Protocollo in cui è fissato un limite dimensionale di 30 pagine dei motivi, contiene otto motivi.
.1. — Il primo motivo è rubricato: «Falsa applicazione dell’articolo 342 c.p.c. e violazione dell’articolo 112 c.p.c. in relazione alla ammissibilità e specificità del terzo motivo di appello relativo al contestato inadempimento della banca all’obbligo informativo specifico in relazione agli investimenti azionari nei titoli “[…]”, “[…]”, “[…]”, “[…]” e “[…]”; violazione dell’articolo 132 in relazione al contenuto della sentenza (articolo 360, comma 1, numero 4, cp.c.)»
Sostengono in breve i ricorrenti che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere aspecifico il motivo di impugnazione concernente l’omesso adempimento degli obblighi informativi in ordine all’acquisto dei titoli azionari indicati in rubrica, omettendo in ogni caso al riguardo di motivare adeguatamente.
1.2. — Il secondo motivo è rubricato: «Violazione degli articoli 21 decreto legislativo 58/98 e 28 secondo comma regolamento Consob in relazione agli investimenti nei titoli azionari (articolo 360 comma 1 numero 3 c.p.c.)». Secondo i ricorrenti, la Corte territoriale sarebbe incorsa in violazione delle norme richiamate nel respingere la censura relativa alla omessa informativa in ordine ai medesimi investimenti azionari.
1.3. — Il terzo motivo è rubricato: «Omesso esame di fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti in relazione al corretto adempimento all’obbligo informativo specifico in relazione all’acquisto del titolo “[…] 02 7,25%, (articolo 360 comma 1 numero 5 c.p.c.)».
Secondo i ricorrenti la Corte territoriale avrebbe errato nell’affermare che l’intermediario finanziario avesse informato del rating del titolo ed altresì, in tal modo, che esso non avesse natura speculativa.
1.4. — Il quarto motivo è rubricato: «Violazione degli articoli 21 decreto legislativo 58/98 e 28 secondo comma regolamento Consob 11.522/98 relazione all’adempimento dell’obbligo informativo relativamente all’investimento nel titolo “[…] 02 7,25%” (articolo 360 comma 1 numero 3 c.p.c.)».
Il motivo è volto a censurare sotto il profilo della violazione di legge l’affermazione secondo cui doveva ritenersi corretta l’informativa data agli investitori in relazione al titolo menzionato.
1.5. — Il quinto motivo è rubricato: «Violazione degli articoli 21 decreto legislativo 58/98 a 28 comma 2 regolamento Consob in relazione all’adempimento dell’obbligo informativo relativamente agli investimenti nel titolo “[…] 99/02 8%” (articolo 360 comma 1 numero 3 c.p.c.)».
Affermano i ricorrenti che l’informativa fornita sarebbe stata in proposito generica ed imprecisa.
1.6. — Il sesto motivo è rubricato: «Violazione dell’articolo 21 decreto legislativo 58/98 dell’articolo 29 regolamento Consob numero 11522/98 in relazione a tutte le operazioni di causa nonché dell’articolo 2725 c.c. in relazione alle operazioni del 22 giugno 2001 sul titolo “[…] 99/02” acquistato con spesa di C 76.618,04 (articolo 360 comma 1 numero 3 c.p.c.)».
Si sostiene che la decisione impugnata si porrebbe in contrasto con la giurisprudenza di legittimità in ordine alla valutazione di adeguatezza dell’operazione menzionata.
1.7. — Il settimo motivo è rubricato: «Violazione degli articoli 1337, 1338, 1374, 1375 e 1175 c. c. in relazione al dovere di adempiere, nell’esecuzione del contratto di custodia e amministrazione titoli, alle obbligazioni collaterali di informazione e protezione della controparte (articolo 360 numero 1 comma 3 c.p.c.)».
Il motivo denuncia l’asserito errore commesso dalla Corte d’appello nell’escludere la sussistenza di un obbligo di informazione postcontrattuale in capo all’intermediario finanziario.
1.8. — L’ottavo motivo è rubricato: «Violazione degli articoli 345 e 112 c.p.c. in relazione alla contestata qualificazione della domanda (articolo 360 comma 1 numero 4 c.p.c.)». Affermano i ricorrenti che la Corte territoriale avrebbe errato nell’escludere che essi non avessero chiesto la dichiarazione di risoluzione del contratto quadro.
2. — Il ricorso va respinto.
2.1. — Il primo motivo è inammissibile.
2.1.1. — Nella sua prima parte, quella fondata sulla denuncia dell’asserito errore commesso dal giudice di merito nel ritenere non specifico il motivo incentrato sulla violazione degli obblighi informativi concernenti gli investimenti azionari, il motivo è inammissibile per difetto dei requisiti di specificità ed autosufficienza. In proposito il Protocollo di cui si è detto poc’anzi pone in evidenza l’esigenza che: 1) ciascun motivo articolato nel ricorso risponda ai criteri di specificità imposti dal codice di rito; 2) nel testo di ciascun motivo che lo richieda sia indicato l’atto, il documento, il contratto o l’accordo collettivo su cui si fonda il motivo stesso (articolo 366, comma 1, n. 6, c.p.c.), con la specifica indicazione del luogo (punto) dell’atto, del documento, del contratto o dell’accordo collettivo al quale ci si riferisce; 3) nel testo di ciascun motivo che lo richieda siano indicati il tempo (atto di citazione o ricorso originario, costituzione in giudizio, memorie difensive, ecc.) del deposito dell’atto, del documento, del contratto o dell’accordo collettivo e la fase (primo grado, secondo grado, ecc.) in cui esso è avvenuto; 4) siano allegati al ricorso (in apposito fascicoletto, che va pertanto ad aggiungersi all’allegazione del fascicolo di parte relativo ai precedenti gradi del giudizio) ai sensi dell’articolo 369, secondo comma, n. 4, c.p.c., gli atti, i documenti, il contratto o l’accordo collettivo ai quali si sia fatto riferimento nel ricorso e nel controricorso.
Ciò detto, l’inammissibilità del motivo, secondo quanto subito si dirà, non discende, ovviamente, dalla violazione del protocollo, che è di per sé privo di efficacia normativa: ma il Protocollo testimonia di un condiviso orientamento interpretativo che ha la sua base nel dato normativo, sia per quanto attiene all’esigenza di specificità, sia per quanto attiene all’esigenza di autosufficienza, sicché legittima l’interpretazione della norma in conformità al protocollo, con l’ulteriore conseguenza che la violazione delle regole del protocollo dà luogo ad inammissibilità laddove esso rifletta opzioni interpretative di quel dato. Ora, quanto alla specificità, si tratta di un requisito che, con riguardo ai motivi di ricorso per cassazione, non è espressamente contemplato dal codice di rito, come è per l’appello, secondo quanto stabilisce l’art. 342 c.p.c.. Ciò, però, non vuol certo dire che i motivi di ricorso per cassazione, secondo la legge, possano essere aspecifici, quanto, piuttosto, che l’esigenza di prevedere espressamente il requisito di specificità ricorreva per l’appello, ma non per il ricorso per cassazione, giacché, mentre è astrattamente configurabile un appello non fondato su motivi specifici (e tale è l’appello configurato come novum iudicium, nel qual caso, secondo la nota definizione della dottrina esso costituisce «semplicemente il mezzo per passare da uno all’altro esame della causa»), il motivo di ricorso per cassazione non può per ragioni intrinseche che essere specifico, giacché diretto a demolire il provvedimento impugnato in ragione della sussistenza di uno dei vizi normativamente previsti, con la conseguente necessità di individuare il vizio e spiegare in qual modo esso si annida nella decisione impugnata. Un motivo di cassazione non specifico, cioè, è per definizione un non-motivo. E il motivo è specifico se, quando le affermazioni che esso contiene sono vere, senza che la Corte debba supplire a sue mancanze, il provvedimento impugnato è affetto dall’errore denunciato.
Quanto all’autosufficienza, poi, il protocollo altro non è che il recepimento di principi già indicati da questa Corte — secondo l’orientamento più elastico formatosi in proposito — sulla base dell’art. 366 c.p.c. (Cass., Sez. Un., 25 marzo 2010, n. 7161; Cass. 23 agosto 2011, n. 17602; Cass. 4 gennaio 2013, n. 124). Sicché può in definitiva affermarsi che la violazione delle regole per la redazione del ricorso per cassazione, secondo il Protocollo siglato il 17 dicembre 2015 dalla Corte di cassazione e dal Consiglio nazionale forense, a mezzo dei loro presidenti, in merito alle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia civile e tributaria, dà luogo ad inammissibilità, laddove tale violazione implica la violazione — non già, ovviamente, del Protocollo in sé, bensì — del dato normativo di riferimento nell’interpretazione recepita nello stesso Protocollo.
Nel caso in esame, si dice che i titoli in questione erano stati individuati nel contesto del terzo motivo di appello, trascritto nella parte rilevante all’interno del primo motivo di ricorso per cassazione, e si aggiunge poi «che tempo dell’acquisto, andamento dei titoli e perdite subite, erano stati indicati nell’illustrazione del fatto e per di più risultavano dagli ordini, dagli estratti del deposito titoli e dagli attestati di vendita prodotti in atti dalle parti», ma di tali atti e documenti, ed in particolare della idoneità del loro contenuto a rendere edotta la Corte d’appello sulle circostanze ritenute rilevanti ai fini del decidere, nulla si sa (sicché il motivo è sul punto aspecifico; sulla specificità v. Cass. 11 gennaio 2005, n. 359; Cass. 12 marzo 2005, n. 5454; Cass. 29 aprile 2005, n. 8975; Cass. 22 luglio 2005, n. 15393; Cass. 24 gennaio 2006, n. 1315; Cass. 14 marzo 2006, n. 5444; Cass. 17 marzo 2006, n. 5895; Cass. 31 marzo 2006, n. 7607; Cass. 6 febbraio 2007, n. 2540; Cass. 28 agosto 2007, n. 18210; Cass. 28 agosto 2007, n. 18209; Cass. 31 agosto 2015, n. 17330), né ne è specificamente indicata la collocazione (sicché il motivo non è autosufficiente).
Insomma, il giudice di appello ha affermato in modo netto e chiaro che […] e […], nel riferirsi ai titoli azionari riguardo ai quali, secondo loro, l’intermediario finanziario aveva ammesso di non aver fornito alcuna informazione, non avevano indicato gli specifici investimenti cui intendevano riferirsi, né il tempo del relativo acquisto, né lo specifico andamento dei titoli. Il motivo di ricorso per cassazione afferma il contrario, ma non dice né dove né come sarebbero state fornite le indicazioni in ordine al tempo dell’acquisto ed allo specifico andamento dei titoli.
2.1.2. — Nella seconda parte, poi, l’inammissibilità discende dall’applicazione del principio secondo cui è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico», nella «motivazione apparente», nel «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e nella «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile», esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di «sufficienza» della motivazione (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053).
È erronea, dunque, l’affermazione dei ricorrenti secondo cui «la garanzia della motivazione… si ha… solo allorquando essa non solo esiste, ma è anche logica e coerente», giacché, al contrario, può discorrersi di violazione dell’articolo 132 c.p.c. per la mancanza della motivazione soltanto se questa sia materialmente mancante ovvero se la motivazione fornita non sia che un mero simulacro, privo di alcun reale contenuto.
Nel caso di specie, viceversa, la motivazione non solo c’è, ma è anche plausibilissima, avendo la Corte d’appello evidenziato di non essere stata posta in condizioni di prendere posizione sugli investimenti azionari in questione, dal momento che non erano stati neppure indicati in specifico (e cioè mediante la menzione delle caratteristiche dei titoli e non certo del solo nominativo dell’emittente) gli investimenti azionari oggetto della domanda, ed altresì il tempo del relativo acquisto e l’andamento di essi, non potendo certo configurarsi un deficit informativo riguardo a titoli neppure in tal senso esattamente individuati.
2.2. — Il secondo motivo, prospettato come violazione di legge, è anch’esso inammissibile. Secondo i ricorrenti il denunciato vizio discenderebbe dal fatto che l’intermediario, per sua stessa ammissione, non aveva dato alcuna informazione sulla natura, i rischi e le implicazioni degli investimenti azionari. Ma la doglianza così prospettata non intacca per nulla la ratio decidendi in precedenza esaminata, di per sé idonea a sorreggere la decisione adottata, con la quale la Corte d’appello ha respinto l’impugnazione rivolta contro il rigetto della domanda concernente i menzionati titoli azionari in ragione della mancata specifica indicazione di essi e delle loro caratteristiche.
2.3. — Il terzo motivo, formulato ai sensi del numero 5 dell’articolo 360 c.p.c., è inammissibile.
È difatti nuovamente sufficiente rammentare che la riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, è stata interpretata da questa Corte, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al «minimo costituzionale» del sindacato di legittimità sulla motivazione (v. la cit. Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053).
Ciò detto occorre rammentare anzitutto che, in tema di intermediazione finanziaria, la prova dell’assolvimento degli obblighi informativi incombenti sull’intermediario può essere data anche mediante deposizione testimoniale del funzionario della banca in quanto nessuna fonte, primaria o secondaria, richiede la prova scritta (Cass. 9 Agosto 2017, n. 19750). Ed infatti, non importa incapacità a testimoniare (art. 246 c.p.c.) per i dipendenti di una banca la circostanza che questa, evocata in giudizio da un cliente, potrebbe convenirli in garanzia nello stesso giudizio per essere responsabili dell’operazione che ha dato origine alla controversia. Infatti, le due cause, anche se proposte nello stesso giudizio, si fondano su rapporti diversi ed idipendenti hanno un interesse solo riflesso ad una determinata soluzione della causa principale, che non li legittima a partecipare al giudizio promosso dal cliente, in quanto l’esito di questo, di per sé, non è idoneo ad arrecare ad essi pregiudizio (Cass. 10 aprile 2014, n. 8462). Sicché, sulla scia delle enunciazioni che precedono, va affermato il principio che segue: «Il dipendente dell’intermediario finanziario che ha dato corso all’operazione impugnata dall’investitore ha un interesse riflesso e di mero fatto all’esito della causa e non può pertanto essere ritenuto incapace a testimoniare». Nel caso in esame la Corte territoriale ha posto in evidenza che il teste […] aveva dichiarato di aver personalmente informato il cliente del tipo di investimento che stava scegliendo, spiegandogli che si trattava di un titolo a medio rischio, essendo il rating indicato all’epoca BB+, come effettivamente confermato da consulenza tecnica, con la conseguenza che l’informazione fornita era esatta. Si tratta di motivazione che eccede la soglia del minimo costituzionale.
2.4. — Il quarto motivo, prospettato come violazione di legge, è inammissibile. Vale difatti osservare che il vizio di violazione di legge ricorre (quanto alla violazione di legge in senso proprio) in ipotesi di erronea negazione o affermazione dell’esistenza o inesistenza di una norma, nonché di attribuzione ad essa di un significato non appropriato, ovvero (quanto alla falsa applicazione), alternativamente, nella sussunzione della fattispecie concreta entro una norma non pertinente, perché, rettamente individuata ed interpretata, si riferisce ad altro, od altresì nella deduzione dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, di conseguenze giuridiche che contraddicano la sua pur corretta interpretazione (Cass. 26 settembre 2005, n. 18782).
Dalla violazione o falsa applicazione di norme di diritto va difatti tenuta nettamente distinta la denuncia dell’erronea ricognizione della fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, ricognizione che si colloca al di fuori dell’ambito dell’interpretazione e applicazione della norma di legge. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi — violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta — è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110; Cass. 4 aprile 2013, n.8315; Cass. 16 luglio 2010, n. 16698; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass., Sez. Un., 5 maggio 2006, n. 10313).
Nel caso in esame il motivo non ha nulla a che vedere con il significato e la portata applicativa delle norme in esso richiamate, ma si cimenta esclusivamente con il governo del materiale probatorio eseguito dalla Corte d’appello nel ritenere che gli originari attori avessero ricevuto un’informativa adeguata.
2.5. — Riguardo al quinto motivo valgono considerazioni analoghe a quelle appena svolte. Difatti la Corte d’appello ha considerato che il teste […] aveva riferito di aver informato il […], il quale aveva chiesto di investire in titoli di paesi emergenti, che il maggior rendimento era collegato ad una maggiore rischiosità del titolo, ma lo stesso […] gli aveva detto che detto titolo era già nel suo portafoglio, e che non intendeva desistere nonostante fosse stato informato dello sbilanciamento in titoli rischiosi.
Orbene, tale valutazione attiene al merito della controversia e si sottrae pertanto al sindacato di questa Corte.
2.6. — Il sesto motivo è infondato. L’art. 29 del Regolamento Consob numero 11522/98, che pone la c.d. suitability rule, ossia la regola che impedisce agli intermediari di porre in essere operazioni inadeguate al profilo di rischio dell’investitore, si pone in collegamento con la c.d. know your customer rule, dal momento che l’intermediario in tanto può verificare l’adeguatezza dell’operazione, in quanto abbia precedentemente acquisito le informazioni concernenti il cliente.
Ciascuna operazione di negoziazione, secondo la disposizione menzionata, può essere inadeguata tanto per tipologia ed oggetto, quanto per frequenza o dimensione, ed ognuno di tali eventuali profili di inadeguatezza, ove sussistente, deve essere — con diverso approfondimento in dipendenza dell’attività prestata dall’intermediario, secondo si tratti di attività di gestione, ovvero di mera negoziazione o ricezione-trasmissione di ordini — indicato e spiegato all’investitore al fine di consentirgli in proposito una scelta consapevole. In particolare, l’inadeguatezza per tipologia ed oggetto va verificata in relazione alle caratteristiche proprie dello strumento finanziario, le quali si riflettono sul coefficiente di rischio dell’operazione. Il profilo dell’adeguatezza per dimensione o frequenza riguarda invece il rapporto tra l’entità dell’investimento e del portafoglio del cliente, profilo al quale la sentenza impugnata non contiene alcun riferimento.
Nel caso in esame la Corte d’appello ha evidenziato come i due investitori avessero dichiarato di avere media esperienza in materia di strumenti finanziari e media propensione al rischio, nonché di coltivare l’obiettivo della rivalutabilità rapportata al rischio dell’oscillazione dei corsi. Dopodiché la sentenza impugnata ha ritenuto che, considerate le riconosciute conoscenze specifiche e la media propensione al rischio degli investitori, dovesse ritenersi che gli investimenti ivi richiamati, riferiti a circa un quarto della disponibilità finanziaria dei medesimi, fossero del tutto adeguati, mentre per l’acquisto del 22 giugno 2000, di importo più ingente, la segnalazione di inadeguatezza era stata effettuata D’altronde, ha aggiunto la Corte d’appello, la segnalazione di inadeguatezza non poteva reputarsi di stile, dal momento che il teste […] aveva riferito che l’inadeguatezza dell’operazione era stata segnalata sia per la dimensione dell’investimento, sia per l’eccessiva rischiosità connessa allo sbilanciamento del portafoglio in misura preponderante verso paesi emergenti. Orbene, in tale motivazione non è ravvisabile alcun vizio di violazione di legge, neppure sotto il profilo del vizio di sussunzione.
2.7. — Il settimo motivo è infondato. Va escluso, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, che un obbligo dell’intermediario finanziario di informazione post-contrattuale possa essere desunto sic et simpliciter dalla previsione di ordine generale dettata dall’articolo 21 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, laddove stabilisce che: «Nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento e accessori i soggetti abilitati devono: … b) acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati».
La previsione di un’informazione post-contrattuale, collocata cioè nella fase esecutiva del rapporto, ricorreva difatti nel caso del contratto di gestione e di consulenza in materia di investimenti, trovando giustificazione nel fatto stesso dell’affidamento da parte del cliente all’intermediario del governo del proprio patrimonio mobiliare, alla stregua dell’articolo 28 del Regolamento Consob n. 11522 del 1998, il quale fissava l’obbligo di dare pronta notizia per iscritto di perdite effettive o potenziali pari o superiori al 50% nel caso di investimento in strumenti finanziari derivati per finalità non di copertura, in ragione, evidentemente, della particolare rischiosità dell’investimento in derivati. Tale impostazione è parimenti accolta dall’articolo 55 del successivo regolamento Consob n. 16190 del 29 ottobre 2007, ma la fissazione della soglia delle perdite è devoluta all’indicazione delle parti.
In tale quadro, questa Corte ha già chiarito che, in tema di contratti relativi a strumenti finanziari, deve escludersi che l’intermediario nella compravendita di valori mobiliari, sia assoggettato, anche quando abbia stipulato con il cliente solo un contratto di deposito titoli in custodia ed amministrazione, ad un obbligo di informazione, proprio del contratto di gestione del portafoglio, relativo all’aggravamento del rischio dell’investimento già effettuato (Cass. 3 luglio 2017, n. 16318; Cass. 22 febbraio 2017, n. 4602). Men che meno, poi, un simile obbligo informativo può sussistere in ipotesi di semplice «incarico di negoziare strumenti finanziari», quale quello nella specie conferito alla banca, secondo quanto risulta dalla pagina 2 del ricorso.
La decisione della S.C. di negare, all’infuori del contratto di gestione e di consulenza in materia di investimenti, la sussistenza, nei termini indicati, di un obbligo d’informare l’investitore sull’andamento del titolo — di un obbligo, cioè, come si diceva, di informazione post-contrattuale — si colloca sulla scia di precedenti decisioni dello stesso segno e, in particolare, di una pronuncia di questa Corte secondo cui né il decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, né il Regolamento Consob 11522/1998 pongono in capo all’intermediario, al di fuori del servizio di gestione di portafoglio e di quello di consulenza, obblighi di informazione successivi all’erogazione del servizio e relativi, quindi, all’investimento effettuato. Dopo aver escluso la ricorrenza di obblighi di informazione post-contrattuale in forza del Tuf e del Regolamento intermediari applicabile, è stato con tutta chiarezza affermato, difatti, che: «Né, ad avviso del Collegio, si può ritenere che un obbligo di informazione sia comunque riconducibile, nella materia in esame, ai generali doveri di correttezza, buona fede e diligenza; ciò non solo perché la disciplina di dettaglio contenuta nel regolamento riduce naturalmente il campo di applicazione delle clausole generali, ma soprattutto perché, al di fuori di un servizio di consulenza o di gestione patrimoniale, dopo l’erogazione del servizio si è esaurita l’attività dell’intermediario con riferimento all’ordine eseguito» (Cass. 20 gennaio 2013, n. 2185).
A tale orientamento va data continuità.
Conclusioni diverse non possono essere tratte da Cass. 27 ottobre 2015, n. 21890, massimata nel senso che: «Gli obblighi di diligenza e trasparenza, gravanti sull’intermediario ex art. 21 del d.lgs. n. 58 del 1998 ed art. 28, comma 2, regolamento Consob n. 11522 del 1988, riguardano anche il servizio di deposito titoli a custodia e amministrazione accessorio ad un contratto di negoziazione dei medesimi strumenti finanziari, sicché, una volta avvenuta la negoziazione, persiste in capo all’intermediario l’obbligo di “acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che questi siano sempre adeguatamente informati”, il cui oggetto, peraltro, non concerne genericamente l’andamento dei titoli, come specificamente stabilito dal menzionato art. 28 per i derivati e i warrant per il diverso rapporto di gestione titoli, ma dipendono unicamente da specifiche circostanze quali, ad esempio, la conoscenza, da parte della banca di notizie particolari e non riservate, o l’esito di analisi economiche, condotte dalla stessa banca, che l’obbligo di correttezza suggerisca di divulgare tra i clienti)».
Difatti, la massima così risultante dal CED di questa Corte di cassazione non trova corrispondenza nel contenuto della sentenza, ed è stata formulata sulla base di una pronuncia che aveva respinto l’impugnazione dell’investitrice, la quale si era vista in fase di merito rigettare sia dal Tribunale che dalla Corte d’appello la domanda con cui aveva lamentato la violazione degli obblighi informativi concernenti l’acquisto da parte sua di titoli azionari di una società poi fallita.
In particolare, a fronte di un contratto che — si badi — aveva ad oggetto non solo la negoziazione, ricezione e trasmissioni ordini, ma anche il «servizio accessorio di deposito titoli a custodia e amministrazione» (§ 4.1. della sentenza di cui si discorre), riconducibile alla previsione dell’articolo 1838 c.c., la Corte d’appello aveva ritenuto la sussistenza di un persistente obbligo informativo proprio in ragione della peculiare natura del rapporto, ma aveva tuttavia affermato che tale obbligo informativo potesse operare entro limiti circoscritti: «ciò può dipendere da specifiche circostanze allorquando, ad esempio, la banca sia venuta a conoscere, ovviamente non in modo riservato, notizie particolari ovvero abbia desunto da sue analisi economiche orientamenti positivi o negativi che l’obbligo di operare con correttezza può imporre di divulgare tra i clienti». Il virgolettato che precede, non esprime cioè l’affermazione di un principio di diritto da parte della Corte di cassazione, ma costituisce presa d’atto del giudizio formulato dalla Corte territoriale la quale — precisa subito Cass. 27 ottobre 2015, n. 21890 — aveva tuttavia ritenuto che «la ricorrente, con l’atto di appello non aveva neppure indicato quale fosse stata la informazione che si assumeva essere mancata, oltre il mero andamento del titolo». In breve, respingendo il motivo, la menzionata sentenza ha dato responso negativo al quesito di diritto, all’epoca ancora previsto, formulato dalla ricorrente nei termini che seguono: «se l’art. 21 TUF impone alla banca di tenere sempre adeguatamente informati i propri clienti sull’investimento una volta che lo stesso sia stato eseguito e impone alla banca la predisposizione di procedure idonee a salvaguardare i diritti dei clienti, se tali obblighi informativi e organizzativi permangano per tutta la vigenza del rapporto fra le parti senza che gli stessi dipendano dalla conoscenza occasionale e/o da notizie particolari sul titolo che la banca possa avere e se la violazione dell’art. 21 TUF impone il risarcimento dei danni a carico dell’intermediario»; «se l’art. 28, comma 2, Reg.Consob 11522/98 impone all’intermediario l’obbligo di consigliare con informazioni adeguate il cliente nella fase successiva all’acquisto del titolo, comportamento finalizzato a mettere il cliente in condizioni di valutare l’opportunità di dismettere i titoli (oltre che di acquistarli) dal portafoglio».
Sicché neppure dalla sentenza in discorso può desumersi l’esistenza di un obbligo di informazione post-contrattuale, riguardo a rapporti quale quello oggetto della lite, mentre va ribadito il principio che segue: «In materia di investimenti finanziari, gli obblighi informativi gravanti sull’intermediario ai sensi dell’articolo 21, comma 1, lett. b), del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, sono finalizzati a consentire all’investitore di operare investimenti pienamente consapevoli, sicché tali obblighi, al di fuori del caso del contratto di gestione e di consulenza in materia di investimenti, vanno adempiuti in vista dell’investimento e si esauriscono con esso».
2.8. — L’ottavo motivo è inammissibile.
Come si è visto finora, la Corte territoriale dopo aver ritenuto che gli originari attori non avessero chiesto la dichiarazione di risoluzione del contratto quadro, ha singolarmente esaminato e disatteso i motivi rivolti contro il rigetto della domanda da parte del giudice di primo grado: di guisa che il rigetto di detti motivi costituisce autonoma ratio decidendi su cui si appoggia la decisione impugnata, con conseguente inammissibilità della censura rivolta contro l’ulteriore ratio decidendi investita dal motivo.
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