Corte di Cassazione, Sez. 1, Sentenza n. 17749 del 2009, dep. il 30/07/2009

[…]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- Il Curatore del fallimento della […], con citazione del 23 giugno 1998, conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Taranto la […], deducendo che: […], con contratto preliminare di compravendita del 10 luglio 1996, integrativo di altro stipulato il 21 maggio 1996, si era obbligata ad acquistare dalla […] uno stabilimento vinicolo, versando un acconto di L. 300 milioni. Sopravvenuto il fallimento della […] (sentenza del Tribunale di Taranto del … 1997), il Curatore aveva comunicato la volontà di sciogliersi dal contratto (L. Fall., art. 72), chiedendo la restituzione dell’acconto.
L’attore chiedeva, quindi, che il Tribunale, dato atto dell’avvenuto scioglimento del contratto, condannasse la convenuta a restituire L. 300 milioni, oltre rivalutazione monetaria ed interessi. La convenuta, nel costituirsi in giudizio, contestava di avere incassato la citata somma e, in subordine, eccepiva la compensazione con il credito vantato a titolo di penale per l’inadempimento delle obbligazioni assunte con il contratto in esame, che chiedeva fosse dichiarato risolto.
Il Tribunale adito, con sentenza del 21 maggio 2001, accoglieva la domanda.

2.- Avverso detta pronuncia proponeva appello la […], reiterando le argomentazioni svolte in primo grado e chiedendo, in loro accoglimento, la riforma della sentenza ed il rigetto della domanda del Curatore.
Resisteva all’appello il Curatore, chiedendone il rigetto. Ricostituitosi il contraddittorio, la Corte d’appello di Lecce, con sentenza depositata il 28,6.2006, rigettava l’appello, condannando la […] alle spese del grado.
La Corte territoriale riteneva infondate le censure con cui la […] aveva negato di avere ricevuto gli assegni indicati nel contratto, negando che la mancata annotazione della somma nel proprio libro degli inventari fosse circostanza idonea a farne escludere la recezione e rigettava l’istanza diretta ad ordinare alla banca trattaria la produzione dei titoli.
Il giudice di secondo grado reputava insussistenti i presupposti della compensazione, osservando, in primo luogo, che la […] vantava un presunto credito non nei confronti del fallito, bensì della Massa. In secondo luogo, affermava che neppure sussisteva un credito liquido e certo, poiché il diritto a trattenere la somma di L. 300 milioni, a titolo di penale, conseguente alla risoluzione del contratto “ipso jure per scadenza infruttuosa del termine essenziale” stabilito dalle parti al 31 agosto 1996, avrebbe potuto verificarsi solo “nel momento in cui il contraente comunica all’altro la propria intenzione di volersi avvalere della clausola”, contestando l’imputabilità dell’inadempimento.
Nella specie, sottolineava la pronuncia, di detta contestazione “non è traccia documentale prima della sentenza” di fallimento della […], poiché la “prima e unica (contestazione) in tal senso” era stata formulata con la comparsa di costituzione depositata in primo grado il 6 novembre 1998, e cioè in data successiva a detta pronuncia, quindi inopponibile alla Massa.
Inoltre, proseguiva la sentenza, con detta comparsa, la […] neppure aveva spiegato domanda riconvenzionale, per ottenere la risoluzione del contrailo, essendosi limitata ad eccepire la risoluzione e la compensazione, che non poteva essere legale, sebbene giudiziale, avente quindi efficacia costituiva e, perciò inopponibile al Fallimento.

3.- Per la cassazione di detta sentenza ha proposto ricorso la […], affidato a tre motivi; ha resistito con controricorso il Curatore.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. La ricorrente, con il primo motivo, denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2702, 2697, 1199 e 1382 c.c., artt. 116, 210 e 345 c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), nella parte in cui la sentenza non ha considerato che, una volta disconosciuti i punti 3 e 6 della scrittura privata, il Curatore avrebbe dovuto dimostrare la consegna dei titoli ed il loro pagamento.
A suo avviso, la prova del pagamento sarebbe stata agevole mediante la produzione di quietanza liberatoria, che avrebbe “dovuto essere d’obbligo”, se fosse stato effettuato il pagamento. Inoltre, la clausola contenuta nell’atto (“salvo il buon fine” dei titoli) neppure costituiva equipollente della quietanza, perché anzi dimostrava che il pagamento non era avvenuto e, comunque sarebbe stato necessario acquisire la prova del rilascio dei titoli. L’istanza di esibizione sarebbe stata erroneamente rigettata dalla Corte d’appello, in forza di una inesatta interpretazione dell’art.345 c.p.c., che, a suo avviso, non disciplinerebbe la produzione di “nuovi documenti” e, secondo la ricorrente, questa Corte l’avrebbe ritenuta ammissibile (è richiamata Cass. n. 5463 del 2002), mentre malamente sarebbe stata richiamata una pronuncia concernente il processo del lavoro.
Secondo la ricorrente, l’istanza sarebbe stata rigettata dal giudice del merito, in quanto ritenuta tardiva, senza avvedersi che, non avendo il Fallimento provato il pagamento, essa era invece ammissibile, pur senza inversione dell’onere della prova.
Con il secondo motivo, è denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1456 e 1457 c.c., L. Fall., art. 56, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).
La ricorrente deduce anzitutto che aveva proposto “domande ed eccezioni riconvenzionali” per ottenere l’accertamento della avvenuta risoluzione del contratto preliminare, quindi non più suscettibile di scioglimento da parte del Curatore.
In particolare, essa avrebbe sostenuto la avvenuta risoluzione del contratto preliminare “per decorrenza di termine essenziale o per clausola risolutiva espressa”.
La prima era stata esclusa dalla sentenza, senza motivare sulla insussistenza di un termine essenziale, che invece era tale, con la conseguenza che, una volta decorso, il contratto doveva ritenersi risolto senza necessità di contestazione documentale. Inoltre, anche volendo ritenere che la risoluzione di diritto avesse costituito oggetto di una mera eccezione e non di una domanda riconvenzionale, il giudice di secondo grado avrebbe dovuto deciderla, ciò che non avrebbe fatto, con conseguente difetto di pronuncia e di motivazione.
La […] sostiene, poi, che la Corte territoriale avrebbe omesso di pronunciarsi sulla domanda di accertamento dell’inadempimento della […].
Infine, “dissente (…) dalle statuizioni” del giudice di secondo grado in ordine al difetto di volontà di far valere la clausola risolutiva espressa, affermando di averla manifestato “per facta concludentia, dedotti in giudizio ed assolutamente pacifici”, consistenti nel fatto che non aveva immesso la […] nel possesso delle macchine, proprio a causa dei suoi inadempimenti.
La ricorrente, con il terzo motivo, denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1241, 1243, 1382, 1456 e 1457 c.c., e L. Fall., artt. 56 e 72, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), deducendo la “incomprensibilità dell’iter logico seguito” dalla Corte territoriale per rigettare l’eccezione di compensazione. A suo avviso, il rinvio a Cass. n. 376 del 1998 sarebbe erroneo, essendo questa sentenza inconferente, mentre la compensazione avrebbe potuto operare sia nel caso di ritenuta risoluzione ipso jure del contratto, sia nel caso di scioglimento a seguito dell’esercizio della relativa facoltà da parte del Curatore.
Secondo la […], il giudice di secondo grado non avrebbe indicato le ragioni per le quali la compensazione non avrebbe potuto operare, avendo essa richiamato Cass. n. 6560 del 1990 e n. 100 del 1972, le quali avrebbero affermato che la parte venditrice può opporre in compensazione al debito di restituzione dell’acconto ricevuto un proprio credito verso il fallito.
Inoltre, aveva anche fatto riferimento a Cass. n. 1671 del 1999, secondo la quale la compensazione è ammissibile anche quando i crediti del fallito non sono scaduti alla data del concorso, richiamando anche la sentenza delle Sezioni Unite n. 755 del 1999 (che, in parte, trascrive).
La ricorrente, dopo avere riportato parte della motivazione della sentenza impugnata (pg. 20 – 21 del ricorso), afferma di non condividerla, ritenendo che, in virtù della L. Fall., art. 56, la compensazione opera sempre che il fatto genetico della situazione giuridica estintiva delle obbligazioni contrapposte sia anteriore al fallimento, essendo quindi ammissibile anche la compensazione giudiziale. Inoltre, il credito invocato era certo, poiché scaturiva dalla clausola 6) dell’atto integrativo e modificativo del 10.7.1996, e non era stato contestato ne’ nell’an, ne’ nel quantum, non essendo stato appunto contestato l’inadempimento della […], “sia perché e stato dimostrato dall’appellante con prove documentali (scritture contabili in atti), sia perché è stato ammesso ex adverso, dallo stesso Fallimento”.
Secondo la […], il credito da essa vantato sarebbe divenuto esigibile prima della dichiarazione di fallimento ed erroneamente la sentenza lo avrebbe considerato quale credito nei confronti della Massa; applicando i principi enunciati da Cass. S.U. n. 755 del 1999 dovrebbe invece ritenersi che il credito di restituzione non nasce dal fallimento ed i crediti contrapposti sarebbero concorsuali, “trattandosi di situazioni sorte l’una direttamente in capo alla fallita (credito restitutorio), l’altra direttamente nei confronti della fallita (credito da penale)”.
Infine, la sentenza avrebbe negato che fosse stata provata la volontà di incamerare la penale, manifestata prima del fallimento, senza considerare che l’inadempimento costituiva fatto sufficiente a far nascere il diritto alla penale, senza necessità di alcuna manifestazione di volontà. In ogni caso, la ricorrente reitera gli argomenti svolti nel secondo motivo, per sostenere che, in via riconvenzionale, aveva chiesto l’accertamento dell’inadempimento della […] e del suo diritto a trattenere la penale, che non richiedevano una pronuncia con efficacia costitutiva, in virtù del principio enunciato da Cass. n. 1532 del 1975.
D’altronde, conclude la […], anche ritenendo che nella specie sussistesse un’ipotesi di compensazione giudiziale, la L. Fall., art.56, sarebbe applicabile anche a detta ipotesi (è richiamata Cass. n. 11288 del 2001, nonché Cass. n. 1650 del 1977), con conseguente erroneità della pronuncia, che ha negato la compensazione.

2.- Il primo motivo è infondato.

2.1.- La questione posta nella fase di merito, concernente la consegna degli assegni, secondo quanto risulta dalla sentenza impugnata, ha avuto ad oggetto l’interpretazione delle clausole del contratto preliminare relative a detta consegna da parte della prominente acquirente, a titolo di pagamento di un acconto sul prezzo. La ricorrente, con il mezzo in esame prospetta, invece, che essa avrebbe anche effettuato il “disconoscimento” “dei punti 3) e 6) della scrittura privata” (pg. 9 del ricorso), adombrando in tal modo di avere appunto disconosciuto la scrittura privata, ai sensi dell’art. 214 c.p.c., sia pure limitatamente a dette clausole. In questi termini, la questione è evidentemente nuova, concernendo profili del tutto diversi, ed ulteriori, rispetto a quelli oggetto della fase di merito e deve ritenersi sollevata, per la prima volta, in questa sede, in violazione del principio secondo il quale i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni già comprese nel tema del decidere, non essendo prospettabili per la prima volta nel giudizio di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio.
Pertanto, avendo la ricorrente proposto detta questione, aveva l’onere non solo di allegarne l’avvenuta deduzione, entro detti precisi termini, avanti al giudice del merito, ma anche di indicare, specificamente, in quale atto del precedente giudizio lo avesse fatto, riproducendolo, onde dare modo a questa Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminarne il merito (tra le tante, Cass. n. 5070 del 2009; n. 14747 del 2007; n. 25546 del 2006); dal mancato adempimento di detto onere consegue l’inammissibilità di questo profilo della censura. Siffatto rilievo preliminare impedisce, ovviamente, di valutare l’ulteriore profilo, anch’esso preliminare, concernente l’ammissibilità del “disconoscimento” limitato ad una o più clausole della scrittura privata.

2,2.- La questione qui esaminabile attiene all’interpretazione delle clausole del contratto preliminare, concernenti il pagamento di un acconto da parte della promittente acquirente.
Al riguardo, la Corte d’appello, confermando sul punto la sentenza di primo grado, ha escluso la fondatezza della deduzione della ricorrente, secondo la quale essa non aveva ricevuto il pagamento dell’acconto, osservando che “al n. 3 del documento è scritto, in termini di fattuale realtà, che la parte acquirente “versa” in acconto la somma a mezzo degli assegni che (…) costituiscono non una promessa, ma una modalità di pagamento delle somme portate” (pg. 8). La pronuncia precisa, quindi, che la clausola da atto che “l’acquirente “accetta” i titoli in pagamento, aggiungendo in maniera davvero significativa “salvo il buon fine degli stessi” nell’unico senso letterale e logico della frase, cioè che tale pagamento doveva ritenersi non effettuato se gli assegni non fossero stati incassati”, osservando che “la sottoscrizione da ambo i contraenti del contratto assume indubbio valore di quietanza, pur mancandone una superflua e sovrabbondante dichiarazione espressa in tal senso”, concludendo infine che nella clausola 6 le parti avevano dato atto che “la somma di trecento milioni di lire era stata “ricevuta in acconto”, perciò materialmente appresa a tale titolo” (pg. 8 e 9).
Siffatta conclusione è conseguita, dunque, alla interpretazione del contratto che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, si traduce in una indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per vizi di motivazione o per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale (per tutte, Cass. n. 7500 del 2007; n. 27168 del 2006; n 8296 del 2005).
Il sindacato di legittimità non può dunque investire il risultato interpretativo in sè e la censura non può essere formulata mediante l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, essendo imprescindibile la specificazione dei canoni in concreto violati, delle norme ermeneutiche asseritamenle violate, con la precisazione – al di là della indicazione degli articoli di legge in materia – del modo e delle considerazioni con le quali il giudice del merito se ne sarebbe discostato (Cass. n. 5273 del 2007; n. 4178 del 2007). Pertanto, non è sufficiente una mera critica della decisione sfavorevole, formulata attraverso la mera proposizione di una diversa e più favorevole interpretazione rispetto a quella adottata dalla sentenza di merito (tra le più recenti, Cass. n. 12946 del 2007; n. 420 del 2006; n. 8296 del 2005); nella formulazione della censura, per il principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, occorre riportare il testo integrale della regolamentazione pattizia del rapporto o della parte in contestazione (Cass. n. 2560 del 2007; n. 3075 del 2006; n. 16132 del 2005), anche quando ad essa la sentenza abbia fatto riferimento, riportandone solo in parte il contenuto, se tanto non consenta una sicura ricostruzione del diverso significato che ad essa il ricorrente pretenda in ipotesi di attribuire (Cass. n. 4063 del 2005). Infine, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni, sicché quando di una clausola negoziale siano possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 12123 del 2006; n. 15197 del 2004).
Nella specie, la contestazione dell’interprelazione offerta dalla Corte d’appello è affidata a censure formulate in violazione di detti principi e che consistono in una mera critica dell’esegesi offerta dal giudice di merito, traducentesi nella prospettazione di una diversa valutazione degli elementi di fatto già dallo stesso esaminati. La ricorrente non ha, infatti, indicato quale tra le norme che governano l’interpretazione dei contratti sarebbe stata violata, nonché il punto ed il modo in cui ciò sarebbe avvenuto. Soprattutto, in violazione del principio di autosufficienza, neppure ha riportato il contenuto delle citate clausole contrattuali, al fine di dimostrare che, eventualmente, la loro lettera sarebbe stata palesemente disattesa dalla sentenza impugnata. In realtà, risulta palese che nessuna incongruità logica ed incompletezza è riscontrabile in una lettura delle pattuizioni contrattuali che, muovendo dalla lettera delle medesime, da atto che attestandosi in esse la consegna degli assegni, quale pagamento dell’acconto, “salvo buon fine”, l’unica interpretazione possibile era appunto che la promettente venditrice aveva appunto ricevuto i titoli.

2.3.- Relativamente all’ultimo profilo di censura, va osservato che, nel caso di pagamento effettuato mediante assegni di conto corrente, l’effetto liberatorio si verifica con la riscossione della somma portata dal titolo (Cass. n. 8927 del 1998). Infatti, sebbene l’assegno sia bancario che circolare costituisca, a differenza della cambiale, mezzo di pagamento, la consegna di esso, salva diversa volontà delle parti, si intende fatta prò solvendo e non prò soluto con esclusione dell’immediato effetto estintivo del debito (per tutte Cass. S.U. n. 26617 del 2007; qui non interessa la disciplina concernenti casi e limiti entro i quali è imposto il pagamento a mezzo assegno), come peraltro sicuramente accaduto nella specie, poiché, come ha osservato la Corte d’appello, gli assegni erano stati consegnati in pagamento dell’acconto del quale si dava atto, con l’espressa indicazione “salvo il buon fine degli stessi”.
Nondimeno, l’assegno bancario costituisce appunto un mezzo di pagamento agevole, sostitutivo della moneta, un titolo di credito pagabile a vista (cioè all’atto della presentazione), che si perfeziona giuridicamente nel momento in cui entra in circolazione, vale a dire quando dalla disponibilità del traente passa a quella del prenditore (Cass. S.U. n. 2907 del …969), avendo questa Corte già affermato che la prova del pagamento, quale fatto estintivo di una obbligazione, può essere validamente fornita con la dimostrazione dell’avvenuta emissione di un assegno, non sussistendo contraddizione tra il valore così attribuito al rilascio del titolo e l’astrattezza dello stesso (Cass. n. 115 del 1962; v. anche n. 3863 del 1969). Siffatta conclusione e, peraltro, coerente con la legge di circolazione del titolo, il cui possesso da parte del creditore che lo ha ricevuto implica il mancato pagamento, – da accertare mediante protesto, nel caso di mancanza di fondi -, essendo onerato il creditore che voglia agire in base all’azione causale della restituzione del titolo (R.D. n. 1736 del 1933, art. 58). Ne consegue che, una volta provata la consegna dei titoli, spettava alla […] provare il mancato incasso dei medesimi, mediante la produzione degli stessi, non costituendo questa una prova negativa risolventesi in una … diabolica e non avendo la ricorrente neppure dedotto circostanze quali, esemplificativamente, la restituzione, ovvero lo smarrimento ed il furto dei titoli (circostanze queste ultime che avrebbero peraltro legittimato l’ammortamento), idonee a dimostrare che il mancato possesso non era riconducibile al pagamento (in relazione alla cambiale, Cass. n. 16994 del 2007). Siffatti principi sono stati correttamente applicati dalla Corte d’appello che, una volta reputata provata la consegna dei titoli ha esattamente ritenuto provato il pagamento, stante la mancata produzione dei titoli da parie della accipiens. Le considerazioni svolte dalla ricorrente in ordine al mancato rilascio di quietanza sono, infine, prive di pregio in quanto la pronuncia, con accertamento di fatto, congruamente e logicamente motivato, quindi incensurabile in questa sede, ha ritenuto che la sottoscrizione, alla luce del contenuto delle clausole contrattuali, “assume indubbio valore di quietanza, pur mancandone una superflua e sovrabbondante dichiarazione espressa in tal senso” (pg. 9 della sentenza).
Per completezza, va aggiunto che il rilascio della quietanza costituisce una obbligazione del creditore, il cui mancato adempimento non può tornare a danno del debitore (Cass. n. 1630 del 1973) e, nella specie, avrebbe dovuto avere ad oggetto la consegna dei titoli, che la Corte d’appello ha incensurabilmente ritenuto provata alla luce delle indicazioni contenute nel contratto.

2.4.- La deduzione concernente il mancato accoglimento dell’istanza di esibizione è, infine, infondata.
In linea preliminare, va ricordato che, secondo un principio enunciato dalle Sezioni Unite civili, ormai consolidatosi nella giurisprudenza di questa Corte, anche nel rito ordinario, con riguardo alla produzione di nuovi documenti in grado di appello, l’art. 345 c.p.c., comma 3, va interpretato nel senso che esso fissa sul piano generale il principio della inammissibilità di mezzi di prova “nuovi” (la cui ammissione, cioè, non sia stata richiesta in precedenza), quindi, anche delle produzioni documentali. La norma indica, altresì, i limiti di tale regola, ponendo in via alternativa i requisiti che tali documenti, al pari degli altri mezzi di prova, devono presentare per poter trovare ingresso in sede di gravame (sempre che essi siano prodotti, a pena di decadenza, mediante specifica indicazione degli stessi nell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado, a meno che la loro formazione non sia successiva e la loro produzione non sia stata resa necessaria in ragione dello sviluppo assunto dal processo): requisiti consistenti nella dimostrazione che le parti non abbiano potuto proporli prima per causa ad esse non imputabile, ovvero nel convincimento del giudice della indispensabilità degli stessi per la decisione. Nel rito ordinario, risultando il ruolo del giudice nell’impulso del processo meno incisivo che nel rito del lavoro, l’ammissione di nuovi mezzi di prova ritenuti indispensabili non può peraltro prescindere dalla richiesta delle parti (Cass. S.U. n. 8203 del 2005; Cass. n. 14766 e n. 5323 del 2007; n. 15514 e n. 7073 del 2006).
Siffatto principio è stato correttamente applicato dalla Corte d’appello, la quale ha ritenuto che “l’attività istruttoria tardivamente invocata in questa sede doveva trovare spazio nel giudizio dinanzi al tribunale”, con apprezzamento motivato sufficientemente e senza errori logici, risultando palese che la […] bene avrebbe potuto formulare l’istanza di esibizione (la cui ammissione è, peraltro, rimessa alla discrezionalità del giudice del merito) nel giudizio di primo grado, poiché, per quanto sopra esposto, l’onere della produzione gravava su di essa, non sul Curatore del fallimento – indicando, previamente, le ragioni del mancato possesso dei titoli -, con la conseguenza che la mancata produzione dei titoli da parte dell’attore non giustificava l’omissione da parte della convenuta.

3.- Il secondo ed il terzo motivo devono essere esaminati congiuntamente ed in relazione al capo della sentenza che con entrambi è stato censurato (avente ad oggetto la compensazione) va rilevata la sussistenza di una ragione preliminare di inammissibilità dell’eccezione riconvenzionale di compensazione e della sottesa domanda diretta ad ottenere l’accertamento della risoluzione del contratto preliminare, rilevabile di ufficio (e che, peraltro, ha costituito oggetto di eccezione proposta dal controricorrente) e che comporta la cassazione senza rinvio della pronuncia, limitatamente a detto capo.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, nella procedura fallimentare operano i principi del concorso formale e sostanziale, in virtù dei quali, da un lato, i creditori, fatti salvi gli eventuali diritti di prelazione, possono partecipare solo in proporzione delle rispettive ragioni (par candicio creditorum) alla distribuzione del ricavato fallimentare; d’altro canto, tutte le posizioni creditorie verso il fallito sono sottoposte ad un accertamento unitario, quali che siano i titoli e quali che possano essere, in astratto, le domande proponibili (artt. 51 e 52; artt. da 92 e ss. L. Fall.).
Pertanto, ogni diritto di credito, una volta dichiarato il fallimento, è tutelabile esclusivamente nelle forme previste dalla L. Fall., art. 92 e ss.; la previsione di un’unica sede concorsuale per l’accertamento del passivo comporta la necessaria concentrazione presso un unico organo giudiziario delle azioni dirette all’accertamento dei crediti e l’inderogabile osservanza di un rito funzionale alla realizzazione del concorso dei creditori, che comporta l’improponibilità della domanda proposta nelle forme ordinarie.
Siffatta preclusione rispetto a forme di tutela diverse da quelle dell’accertamento endofallimentare concerne tutti i crediti, anche quelli prededucibili, poiché, come ripetutamente ribadito, “nessuna fattispecie satisfattoria di posizioni creditorie particolari, incidente con effetto depauperatorio sul patrimonio del fallito vincolato al soddisfacimento paritetico dei creditori (…) può legittimamente trovare luogo al di fuori del concorso” anche i crediti verso la Massa debbono essere accertati con il medesimo rito previsto per i crediti concorsuali (Cass. n. 7967 del 2008; n. 1065 del 2002; n. 1356 del 1999; n. 11379 del 1998). La questione concernente la modalità da osservare per l’introduzione di una pretesa creditoria nei confronti di un debitore assoggettato a fallimento non attiene alla competenza, che non entra affatto in gioco, quando, come nella specie, il tribunale adito coincide con il tribunale fallimentare, costituendo invece una questione attinente al rito, con la conseguenza che, proposta una domanda volta a far valere, nelle forme ordinarie, una pretesa creditoria soggetta, invece, al regime del concorso, il giudice adito e tenuto a dichiarare (non la propria incompetenza ma) l’inammissibilità, l’improcedibilità o l’improponibilità della domanda, siccome proposta secondo un rito diverso da quello previsto come necessario dalla legge, trovandosi in presenza di una vicenda litis ingressus impediens, concettualmente distinta da un’eccezione d’incompetenza, che “può essere dedotta o rilevata d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio” (Cass. n. 5063 del 2008; n. 453 del 2005; n. 19718 del 2003; n. 6475 del 2003). Siffatta regola, ha infine affermato questa Corte, opera anche qualora sia chiesta la compensazione del credito con altro credito azionato in giudizio dal curatore fallimentare, poiché la compensazione può essere riconosciuta soltanto in sede fallimentare e, anche quando sia stata dedotta solo in via di eccezione, presuppone comunque l’accertamento del debito del fallito (da ultimo, Cass. n. 7967 del 2008). Inoltre, detta regola concerne anche il caso – prospettato con il secondo motivo – in cui la parte intenda far valere la asserita risoluzione di diritto di un contratto, che non opera automaticamente per effetto del mero inadempimento di una delle parti, ma nel momento in cui il contraente nel cui interesse è stata pattuita la clausola risolutiva comunica all’altro contraente l’intenzione di volersene avvalere, assoggettata alla disciplina del concorso formale sancita (L. Fall., art. 51) e, altrimenti, improponibile (Cass. n. 7178 del 2002). Infine, le Sezioni Unite, hanno ritenuto che, qualora, nel giudizio promosso dal curatore il convenuto abbia proposto domanda riconvenzionale diretta all’accertamento di un proprio credito nei confronti del fallimento, derivante dal medesimo rapporto, la suddetta domanda, per la quale opera il rito speciale ed esclusivo dell’accertamento del passivo ai sensi della L. Fall., art. 93 e ss., deve essere dichiarata inammissibile (o improcedibile se formulata prima della dichiarazione di fallimento e riassunta nei confronti del curatore) nel giudizio di cognizione ordinaria, e va eventualmente proposta con domanda di ammissione al passivo su iniziativa del presunto creditore, mentre la domanda proposta dalla curatela resta davanti al giudice per essa competente, che pronuncerà al riguardo nelle forme della cognizione ordinaria, salva la possibilità di una trattazione unitaria delle due cause (nei casi e nei modi indicati, che qui è irrilevante ricordare, Cass. S.U. n. 2307 del 2004; n. 21499 e n. 21500 del 2004). In applicazione di detti principi, il giudice del merito avrebbe dovuto, quindi, rilevare l’inammissibilità dell’eccezione riconvenzionale di compensazione e della sottesa domanda diretta ad ottenere l’accertamento della risoluzione del contratto, asseritamene già perfezionatasi prima dello scioglimento del contratto da parte del curatore del fallimento, non pronunciare nel merito.
Siffatta ragione di inammissibilità va rilevata d’ufficio in questa sede e comporta la cassazione della pronuncia limitatamente a tale capo, che va disposta senza rinvio, sussistendo una causa di inammissibilità dell’eccezione riconvenzionale di compensazione e della sottesa domanda di accertamento della risoluzione del contratto preliminare.

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