[…]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con contratto stipulato in forma pubblica amministrativa il […]1983, n. 714, il Comune di […] affidava all’impresa […] i lavori di costruzione della rete fognante del centro abitato. Con successivo contratto, in data 1 ottobre 1983, autorizzato con delibera della Giunta municipale n. […] del […]1983, l’impresa […] subappaltava i suddetti lavori alla impresa del […], agli stessi patti, prezzi e condizioni di cui al contratto di appalto stipulato con il Comune. Successivamente, insorti in corso d’opera dei contrasti tra il subappaltatore e il Comune, l’impresa […], in base alla clausola compromissoria contenuta nell’art. 9 del contratto di appalto n. […] del […]1983, promuoveva giudizio arbitrale con atto del 26 giugno 1995 per ottenere il pagamento delle residue somme intimate con atto stragiudiziale di diffida del 21 marzo 1991, oltre interessi e rivalutazione.
Il collegio arbitrale, con lodo del 24 marzo 1998, reso esecutivo il 6 luglio 1998, condannava il Comune di […] a pagare all'[…], quale erede di […], la somma di lire 188.981.604, con gli interessi legali dal 24 gennaio 1991 al soddisfo su lire 143.327.500 e dalla data del deposito del lodo al saldo sulla rimanente somma di lire 45.104.304.
Avverso tale pronuncia il Comune proponeva impugnazione davanti alla Corte di appello di Messina, la quale, con sentenza in data 10 agosto 2000, dichiarava la nullità del lodo, compensando tra le parti le spese di lite.
La Corte respingeva preliminarmente l’eccezione, proposta da […], di inammissibilità della impugnazione per essere la stessa stata notificata alla parte presso il domicilio eletto nel giudizio arbitrale. In proposito, la Corte riteneva che la notificazione, eseguita all'[…], n. q., nel domicilio eletto nel giudizio arbitrale presso il proprio difensore, […], in Messina, […], fosse valida, in considerazione del fatto che il mandato al difensore nel giudizio arbitrale doveva valere per tutti gli stati e gradi e che il difensore stesso aveva svolto, dopo la pronuncia del lodo e addirittura della impugnazione, attività nell’interesse della sua rappresentata; comunque, poiché la notifica poteva al più essere ritenuta affetta da nullità e non inesistente, la stessa risultava sanata per raggiungimento dello scopo.
Quanto ai motivi di impugnazione del lodo, la Corte riteneva che gli arbitri fossero privi della potestas iudicandi, giacché la clausola compromissoria era contenuta nel contratto di appalto n. […] del […] 1983, intercorso tra il Comune di […] e altra impresa, al quale quindi il dante causa della […] era estraneo, non potendosi ritenere intervenuta una valida cessione del suindicato contratto n. […] con il successivo contratto in data […]1983, autorizzato dalla Giunta Municipale, avente ad oggetto il subappalto da parte della impresa […] all’impresa […] dei lavori previsti dal contratto n. […], per l’assorbente rilievo che il Comune non era stato parte del contratto […] 1983. Nè, ad avviso della Corte di appello, poteva ritenersi che la clausola compromissoria contenuta nell’originario contratto di appalto fosse operante tra il Comune e l’impresa […] perché richiamata dagli atti di sottomissione […] 1984 e […] 1986, direttamente stipulati tra queste parti, giacché con essi l’impresa si era semplicemente obbligata ad eseguire alle stesse condizioni i lavori ivi indicati, senza che venisse fatta alcuna menzione alla clausola compromissoria, che avrebbe dovuto essere esplicitamente sottoscritta, non potendo essere desunta per facta concludentia.
In ogni caso, ha osservato la Corte di appello, pur volendosi ritenere la […] abilitata ad invocare la clausola compromissoria, il lodo sarebbe insanabilmente nullo, per essere il collegio arbitrale stato costituito, secondo quanto previsto dalla clausola compromissoria, da tre arbitri, scelti in base alle comuni regole del codice di rito, mentre avrebbe dovuto essere costituito secondo quanto disposto dall’art. 45 del d.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063, in quanto, riferendosi l’arbitrato all’appalto di un’opera pubblica interamente finanziata dal Ministero del tesoro, esso avrebbe dovuto svolgersi secondo la disciplina dettata per l’esecuzione delle opere di competenza del Ministero dei lavori pubblici, con conseguente applicabilità del capitolato generale di appalto di cui al citato d.P.R.. E tra queste norme, quella per la quale il collegio arbitrale deve essere costituito da cinque componenti dotati di speciali requisiti soggettivi, alla quale doveva attribuirsi efficacia imperativa, con conseguente nullità di clausole compromissorie che prevedano una difforme composizione dell’organo.
Nè, ad avviso della Corte di appello, poteva ritenersi che l’art. 45 del citato d.P.R. fosse stato abrogato dall’art. 32 della legge n. 109 del 1994, come sostituito dall’art. 9-bis del d.l. n, 101 del 1995, convertito con modificazioni dalla legge n. 216 del 1995, dovendo negarsi a tale disposizione efficacia retroattiva, come si desume dal fatto che l’art. 10 della legge 18 novembre 1998, n. 415, nel sostituire interamente l’art. 32, ha stabilito che solo dalla data di entrata in vigore del regolamento ivi previsto avrebbero cessato di avere applicazione alcune disposizioni del d.P.R. n. 1063 del 1962, e tra questa quella di cui all’art. 45.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre […] sulla base di due motivi; resiste con controricorso il Comune di […], il quale propone ricorso incidentale condizionato. Entrambe le partì hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Deve essere preliminarmente disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale, ai sensi dell’art 335 cod. proc. civ..
Con il primo motivo, articolato in più profili, la ricorrente deduce il vizio di violazione e falsa applicazione di legge: artt. 141, 330 cod. proc. civ., 47 e 1421 cod. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., nonché omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia ai sensi dell’art. 360, n. 5 cod. proc. civ..
La Corte di appello avrebbe errato nel non ritenere inesistente la notificazione dell’impugnazione per nullità del lodo arbitrale eseguita presso il procuratore domiciliatario della parte nel giudizio arbitrale. Infatti, nel caso di impugnazione di un lodo arbitrale non potrebbe trovare applicazione l’art. 330 cod. proc. civ., trattandosi di disposizione riferibile solo al giudizio ordinano; il giudizio arbitrale si caratterizza, invece, per l’assenza del cd. ius postulandi e cioè dell’obbligo per la parte di stare in giudizio attraverso un difensore tecnico, potendovi stare di persona.
Nè, prosegue la ricorrente, sarebbe applicabile l’art. 141, secondo comma, cod. proc. civ., che renderebbe legittima la notificazione presso il domiciliatario soltanto quando l’elezione di domicilio sia inserita in un contratto e la sua obbligatorietà sia espressamente richiesta.
Ed ancora, il ragionamento della Corte di appello sarebbe viziato perché tratto in errore dalla circostanza dell’elezione di domicilio della ricorrente nel giudizio arbitrale e dalla formula, usata nel rilascio della procura, riferita a “tutti gli stati e gradi”. La prima, infatti, sarebbe riferibile al solo giudizio arbitrale e non a quello, eventuale, di impugnazione del lodo; la seconda, risolvendosi in una formula di stile, non potrebbe avere valore oltre il giudizio arbitrale che si svolge in unico grado. Nè avrebbero rilievo le attività svolte dallo stesso difensore, successivamente alla pronuncia del lodo, perché ininfluenti e, inoltre, o anteriori alla procura rilasciata per il giudizio di impugnazione ovvero basate su altra e diversa procura riguardante la fase di esecuzione o quella stragiudiziale, volta ad ottenere un accordo transattivo tra le parti.
In ogni caso, il vizio afferente alla notifica irregolare non costituirebbe un caso di nullità sanabile in conseguenza della costituzione della controparte, giacché il vizio riguarderebbe l’inesistenza della notificazione, come ritenuto dalla pronuncia di questa Corte n. 345 del 1999, il cui contrario orientamento, peraltro espresso in modo inconsapevole dalla sentenza n. 4397 del 1999, ove condiviso, dovrebbe indurre a rimettere la questione alle Sezioni Unite. In sostanza, il vizio della notificazione sarebbe insuscettibile di qualsiasi sanatoria, e ciò anche se si considerasse come accertato (ma non lo sarebbe) il fatto che il destinatario della notificazione sarebbe anche la collega che condivide lo studio professionale con il suo difensore.
Con il secondo motivo, anch’esso articolato in più profili, si denuncia il vizio di violazione e falsa applicazione di legge: artt. 806 e ss. cod. proc. civ., 829 cod. proc. civ., 1372 cod. civ., 45 d.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063, 32 legge n. 109 del 1994, come sostituito dall’art. 9-bis decreto legge n. 101 del 1995, convertito con modificazioni in legge n. 216 del 1995, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., nonché omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia ai sensi dell’art. 360, n. 5 cod. proc. civ..
Sotto un primo profilo, la ricorrente censura la sentenza impugnata, per avere erroneamente affermato il difetto di potestas judicandi del collegio arbitrale per essere gli arbitri privi di un valido titolo di investitura, non potendo l'[…], succeduta al titolare dell’impresa del […], promuovere il giudizio arbitrale in base alla clausola compromissoria contenuta nell’originario contratto di appalto n. […] del […]1983, del quale il […] era titolare. In proposito, la ricorrente rileva innanzitutto che il giudizio arbitrale era stato promosso dal proprio genitore, al quale ella era subentrata soltanto nel corso della procedura arbitrale. La questione della estensibilità degli effetti della clausola compromissoria alla impresa […], inoltre, era già stata presa in considerazione dal collegio arbitrale, che aveva respinto la relativa eccezione di nullità proposta dal Comune di […] osservando che quest’ultimo aveva espressamente esaminato e approvato lo schema del contratto di subappalto, contenente all’art 16 la clausola compromissoria; il medesimo collegio arbitrale aveva poi affermato che la clausola in questione non poteva che riferirsi alle controversie nascenti tra il Comune e l’impresa subappaltatrice e che, di fatto, l’impresa appaltatrice era stata estromessa dai lavori ed era stata sostituita dall’impresa […]. Da tale iter procedimentale, da inquadrarsi sul terreno della ermeneutica civilistica delle clausole contrattuali, emergeva dunque la volontà delle parti di instaurare un autonomo rapporto, nel quale era operante la clausola compromissoria, con la conseguenza che rispetto ad essa si rivela non pertinente il richiamo all’art. 1372 cod. civ.. Peraltro, osserva ancora la ricorrente, con i successivi atti di sottomissione dell'[…] 1984 e del […] 1986, con i quali il Comune aveva imposto alla impresa subappaltatrice il rispetto delle medesime condizioni e modalità che regolavano il rapporto principale – tra le quali la clausola compromissoria di cui all’art. 9 del contratto di appalto principale e di quello di subappalto – si era sviluppato l’appalto determinandosi un diretto rapporto tra il Comune e l’impresa […], con l’assunzione reciproca di diritti e obblighi senza alcuna partecipazione dell’originale impresa appaltatrice. La ricorrente, sotto altro profilo, censura la sentenza impugnata laddove si sostiene che non avrebbe rilevanza il successivo contratto in data […] 1983, autorizzato con delibera della Giunta municipale n. […] del […] 1983, con il quale l’impresa […] aveva subappaltato il lavori all’impresa […], per affermare che si sarebbe determinata una cessione del contratto n. […] del […] 1983. In proposito, la ricorrente osserva che, seppure possono essere condivise le argomentazioni contenute nella sentenza impugnata, secondo cui, essendo la cessione del contratto un negozio a struttura trilaterale, la cessione stessa non è ammissibile senza il consenso del contraente ceduto, tuttavia, nel caso di specie, la partecipazione e l’inserimento nel rapporto del Comune di […] risultava per fatti concludenti, rilevati anche dalla Corte di appello, la quale, peraltro, non ha attribuito ad essi la rilevanza giuridica loro propria. Si tratta dei seguenti elementi:
il contratto concluso con la scrittura del […] 1983 tra l’impresa […] e l’impresa […], seppure privo di registrazione, doveva ritenersi di data certa, essendo il […] deceduto il […] 1996; subito dopo la stipula dell’atto di cessione del contratto si era determinato l’inserimento nel relativo rapporto del Comune, essendo stato accertato che i lavori, da quel momento, erano stati svolti dall’impresa […], tanto che il libro delle misure sin dalla prima pagina recava la firma del […]; tale circostanza poteva essere spiegata unicamente con la cessione integrale del rapporto, giacché in caso di subappalto parziale il subappaltatore non dovrebbe firmare le pagine del libro delle misure relative a lavori eseguiti dalla ditta appaltatrice; a partire dal […] 1983 non vi era più alcuna firma della impresa […], mentre anche il libro della contabilità recava la firma del […] nella qualità.
Nè, prosegue la ricorrente, può condividersi l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui non avrebbe rilevanza la circostanza che la clausola compromissoria contenuta nell’originario contratto di appalto dovrebbe considerarsi operante tra il Comune e l’impresa […] perché richiamata negli atti di sottomissione, direttamente stipulati dalle parti. Tale affermazione muove infatti dalla premessa che gli atti di sottomissione conterrebbero soltanto l’obbligo di eseguire alle stesse condizioni i lavori della perizia di variante. Al contrario, attraverso quegli atti si era determinato un vero e proprio contratto di appalto integrativo, che presupponeva, quale dato essenziale, che si fosse realizzata la cessione del rapporto dalla impresa […] alla impresa […]; se così non fosse stato, del resto, gli atti di sottomissione avrebbero dovuto essere stipulati con l’impresa […] e non con l’impresa […]. Da qui l’ulteriore conseguenza che la sottoscrizione dei due atti di sottomissione preclude l’esame di ogni rapporto precedente, tanto più che le riserve erano state formulate e i verbali di collaudo erano stati sottoscritti direttamente ed esclusivamente dall’impresa […] e il Comune aveva erogato direttamente a quest’ultima, sulla base della relazione redatta dal direttore dei lavori, la somma di lire 135.112.741. Sicché, la sentenza, non avendo individuato l’intervenuta cessione del contratto e non recando adeguata motivazione sulla problematica ricordata, dovrebbe, per questo profilo, essere cassata.
In ogni caso, prosegue la ricorrente, la sentenza sarebbe affetta dal vizio di violazione dell’art. 829, ultimo comma, cod. proc. civ., in quanto la Corte di appello ha proceduto alla valutazione del merito della controversia, prendendo in considerazione fatti e comportamenti che erano già stati valutati ai fini della decisione del collegio arbitrale.
Sotto un ulteriore profilo, la ricorrente censura la sentenza impugnata laddove afferma che, quand’anche si volesse considerare l'[…] abilitata ad invocare la clausola compromissoria contenuta nell’art. 9 del contratto di appalto n. 714 del 4 marzo 1983, ugualmente sussisterebbe la nullità insanabile del lodo arbitrale, essendo la controversia, ancorché avente ad oggetto un appalto di opera pubblica, devoluta ad un collegio arbitrale composto di tre arbitri scelti secondo le comuni norme del codice di procedura civile, e non ad un collegio arbitrale composto secondo le indicazioni contenute nell’art. 45 del d.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063. La ricorrente, premesso che la procedura arbitrale è stata introdotta con atto del 26 giugno 1995, ai sensi degli artt. 31-bis e 32 della legge n. 109 del 1994, come modificata dalla legge n. 216 del 1995, e che la disciplina introdotta dalle disposizioni citate, essendo chiaramente orientata nel senso di riconoscere carattere consensuale all’arbitrato nei rapporti di appalto di opere pubbliche, ha implicitamente abrogato l’art. 45 del ricordato d.P.R. n. 1063 del 1962, contesta la sentenza impugnata, sia perché non ha ritenuto sussistente, nella specie, il fenomeno abrogativo derivante dall’art. 15 delle preleggi, per nuova disciplina della materia, sia perché, comunque, non ha ritenuto immediatamente applicabile la nuova disciplina di carattere evidentemente processuale, come tale destinata a trovare immediata applicazione ai rapporti in corso alla data della sua entrata in vigore.
Nè, si osserva nel ricorso, può essere condiviso il convincimento della Corte di appello, secondo cui la tesi della perdurante vigenza, al momento della introduzione del giudizio arbitrale, dell’art. 45 del d.P.R. n. 1063 del 1962, sarebbe confermata dalla circostanza che l’art. 10 della legge 18 novembre 1998, n. 415 ha espressamente disposto l’abrogazione del citato art. 45. La esplicita previsione dell’abrogazione, infatti, non contrasta con la già intervenuta abrogazione di quella disposizione in base al disposto dell’art. 15 delle preleggi, dovendosi in tal caso attribuire alla disposizione abrogativa efficacia meramente dichiarativa e ricognitiva di una situazione già verificatasi.
Non rilevante sarebbe poi, ad avviso della ricorrente, la questione esaminata dalla sentenza impugnata, concernente la possibilità di fare applicazione della legge n. 415 del 1998, non invocata dalla difesa del Comune e risolta in senso negativo in base al principio jura novit curia. In proposito, la ricorrente osserva che nella controversia non si discuteva dell’applicabilità o meno della legge da ultimo citata, quanto piuttosto del rapporto intercorrente tra l’art. 45 del d.P.R. n. 1063 del 1962 e la legge n. 109 del 1994, e successive modificazioni, rapporto indipendente dai contenuti della legge n. 415 del 1998 e che doveva essere risolto alla stregua del ricordato criterio posto dall’art. 15 delle preleggi, che regola l’abrogazione implicita delle leggi. Da qui la irrilevanza della reiterazione dichiarativa della intervenuta cessazione di efficacia del citato art. 45 sulla interpretazione della disciplina dettata dalla legge n. 109 del 1994.
Con il ricorso incidentale condizionato, il Comune di […] ripropone, ai soli fini di un’eventuale pronuncia da adottare nella successiva fase del giudizio, le censure già proposte avverso il lodo arbitrale e non esaminate dalla Corte di appello a seguito della dichiarata nullità del lodo per nullità della clausola compromissoria. Si tratta, in particolare, della censura di violazione di legge e omessa motivazione di un punto decisivo della controversia, per avere gli arbitri ritenuto che il pagamento in favore dell’impresa […] costituisse indice certo di riconoscimento di debito e, comunque, di un rapporto giuridico diretto tra le parti. In proposito, la difesa del Comune ribadiva che la delibera di pagamento era stata adottata per giungere ad una sollecita approvazione degli atti e a definitiva tacitazione di ogni pretesa, e nulla era dovuto all’impresa subappaltante perché con quest’ultima non vi era rapporto obbligatorio diretto, perché il pagamento era comunque avvenuto per fini di celerità di definizione del procedimento amministrativo di approvazione degli atti relativi all’appalto, ed era stato effettuato senza alcun ulteriore riconoscimento di debito, a scopi transattivi.
Con un secondo motivo il Comune deduce il vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 91 cod. proc. civ. e di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, per avere la Corte di appello omesso di pronunciarsi sulla domanda di condanna dell'[…] al pagamento delle spese di funzionamento del collegio arbitrale e per avere disposto la compensazione delle spese processuali.
Il primo motivo del ricorso principale è infondato.
La questione se la notificazione della impugnazione per nullità del lodo arbitrale presso il difensore domiciliatario nel giudizio arbitrale debba essere ritenuta inesistente o affetta da nullità, sanabile a seguito della costituzione del convenuto, è stata risolta dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 3 marzo 2003, n. 3075, nel senso che il vizio dal quale la notifica è comunque affetta integra un’ipotesi di nullità e non anche di inesistenza. Nella citata sentenza è stato infatti affermato il principio secondo cui “l’impugnazione per nullità del lodo arbitrale deve essere notificata alla parte personalmente, non presso la persona che l’abbia difesa nel procedimento arbitrale, ancorché cumulando in detta sede la veste di domiciliataria, mentre resta al riguardo irrilevante che detto difensore sia un legale abilitato all’esercizio della professione, o sia anche munito di procura, sempre con elezione di domicilio, per la dichiarazione di esecutività del lodo (art. 825 cod. proc. civ.) o per l’intimazione del precetto ed il promuovimelo dell’esecuzione forzata, potendo l’elezione di domicilio riguardare la notificazione dell’impugnazione per nullità del lodo solo se contenuta nel compromesso o nella clausola compromissoria, in relazione alla riconducibilità di detta impugnazione al rapporto od affare per il quale si è concordato il ricorso ad arbitri, non anche quando sia accessoria all’incarico difensivo per il procedimento arbitrale o per i successivi momenti dell’esecutività ed esecuzione del lodo, atteso che, in queste ultime ipotesi, quella notificazione è atto estraneo ed esterno ai compiti del mandatario – domiciliatario, stante la diversificazione e la separazione del procedimento di formazione ed attuazione del lodo e del giudizio rivolto a denunciarne la nullità. Tuttavia, l’irrituale effettuazione della notificazione dell’impugnazione presso quel difensore, anziché alla parte personalmente, non implica inesistenza, ma nullità della notificazione medesima, e, dunque, un vizio emendabile con effetto ex tunc (ad esclusione del verificarsi di decadenza per l’eventuale sopraggiungere della scadenza del termine d’impugnazione) con la costituzione del convenuto, ovvero, in difetto di tale costituzione, con la rinnovazione della notificazione medesima, cui la parte istante provveda spontaneamente od in esecuzione di ordine impartito dal giudice ai sensi dell’art. 291 cod. proc. civ.. T
ale affermazione è stata confermata da successive pronunce di questa Corte (Cass., 2 aprile 2003, n. 5074, a Sezioni Unite; Cass. 19 settembre 2003, n. 13897; Cass.) 11 novembre 2003, n. 16900; Cass., 19 novembre 2003, n. 17538; Cass., 20 novembre 2003, n. 17599, resa in altra controversia tra le medesime parti del presente giudizio). In particolare, Cass., 19 settembre 2003, n. 13897, ha precisato che “L’art. 141 cod. proc. civ., che detta disposizioni in tema di notificazioni presso il domiciliatario, va coordinato con l’art. 47 cod. civ., per il quale il domicilio eletto rappresenta una deroga al domicilio legale circoscritta a determinati e specifici affari, e dal collegamento fra le due norme discende che la corretta esecuzione della notificazione presso il domiciliatario presuppone che l’atto oggetto della notifica sia catalogabile fra quelli considerati con l’elezione di domicilio. Ne consegue che, nel caso di notificazione dell’impugnazione del lodo arbitrale per nullità, detto rapporto dell’atto con il domicilio eletto potrebbe essere individuato solo se l’elezione fosse contenuta nel compromesso o nella clausola compromissoria, essendo evidente in tal caso la riconducibilità della detta impugnazione al rapporto per il quale si era convenuto il ricorso ad arbitri; diversamente, invece, deve ritenersi quando l’elezione di domicilio sia intervenuta con il conferimento dell’incarico difensivo per il procedimento arbitrale, poiché la successiva impugnazione è finalizzata alla verifica sulla validità dell’atto conclusivo del compito affidato agli arbitri e determina, quindi, l’insorgere di un procedimento intrinsecamente e funzionalmente differenziato dal primo, nel cui ambito la ricezione dell’atto introduttivo non può essere interpretata come un adempimento incluso nell’originario mandato difensivo. Tuttavia la notificazione erroneamente eseguita presso il difensore officiato per il procedimento arbitrale è nulla, non inesistente (essendovi comunque un collegamento tra la parte e il predetto difensore, tenuto anche conto della contiguità fra il procedimento arbitrale e il giudizio di impugnazione del lodo, oltre che della riconducibilità di entrambi ad un unico affare sostanziale), e dunque sanabile mediante la costituzione del convenuto” (in senso conforme, v. Cass., n. 16900 del 2003, citali Collegio ritiene che non vi sia ragione di discostarsi dal principio affermato dalle Sezioni Unite e ribadito da ulteriori pronunce conformi; ne’ sussistono gli elementi per sottoporre nuovamente alle Sezioni Unite di questa Corte – come sollecitato dalla difesa della ricorrente nella memoria ex art. 378 cod. proc. civ. e in sede di discussione orale – la questione della individuazione della natura del vizio da cui sia affetta la notificazione dell’impugnazione per nullità del lodo arbitrale. La ricorrente ha infatti sostenuto che vi sarebbe materia per un nuovo intervento chiarificatore delle Sezioni Unite sulla base del rilievo che la citata sentenza n. 3075 del 2003 si riferirebbe ad una fattispecie in cui i difensori ai quali l’impugnazione era stata notificata, “non solo avevano assistito la parte nel procedimento arbitrale, ma, successivamente al deposito del lodo, avevano provveduto alla notificazione di esso e, a seguito di tale notificazione, avevano intimato precetto per il pagamento della somma indicata nel lodo medesimo, all’uopo avvalendosi di procura, sempre con elezione di domicilio, rilasciata per il compimento di tali atti e per l’eventuale esecuzione forzata”.
In proposito, è sufficiente rilevare che nella sentenza impugnata – come del resto la stessa ricorrente, nel punto 1.4.1. del ricorso, riferisce specificatamente – si dà atto della circostanza che anche nel caso di specie, come in quello preso in esame dalla Sezioni Unite di questa Corte nella citata pronuncia, il difensore della […] ha curato gli adempimenti successivi alla pronuncia del lodo e ha partecipato alla procedura di esecuzione forzata. Al contrario di quanto sostenuto dalla ricorrente, pertanto, deve escludersi che il principio affermato nella sentenza n, 3075 del 2003 sia riferibile a fattispecie diversa da quella in esame e che quindi possa esservi dubbio circa la sua piena applicabilità nella presente controversia. Pertanto, posto che la Corte di appello di Messina, pur individuando nel caso sottoposto alla sua cognizione elementi tali da poter fare dubitare della invalidità della notificazione della impugnazione per nullità del lodo arbitrale, ha tuttavia concluso affermando che l’eventuale sussistenza del vizio, per essere stata l’impugnazione notificata non alla parte personalmente ma al procuratore domiciliatario nel giudizio arbitrale, darebbe comunque luogo a nullità – sanata a seguito dalla costituzione in giudizio dell’appellata – e non ad inesistenza della notificazione stessa, il motivo di ricorso in esame deve essere rigettato, giacché tale affermazione risulta conforme al richiamato principio espresso da Cass., S.U., n. 3075 del 2003. Infondato è del pari il secondo motivo di ricorso.
Sotto un primo profilo, si sostiene che la Corte territoriale avrebbe errato nel non riconoscere, nella vicenda sottoposta alla sua cognizione, gli elementi che potevano far ritenere intervenuta tra il Comune di […] e l’impresa […] la cessione del contratto di appalto a suo tempo intercorso tra il medesimo Comune e l’impresa […].
In proposito, la Corte di appello ha ritenuto che gli arbitri fossero privi di un valido titolo di investitura, non potendo l'[…] avvalersi della clausola arbitrale contenuta nel contratto di appalto n. […] del 1983, intercorso tra il Comune di […] e l’impresa […], al quale l’impresa […] era rimasta estranea. In particolare, ha osservato la Corte di appello, non poteva ritenersi intervenuta una valida cessione del suindicato contratto n. […] con il successivo contratto in data […] 1983, autorizzato dalla Giunta Municipale, avente ad oggetto il subappalto da parte della impresa […] all’impresa […] dei lavori previsti dal contratto n. […], per l’assorbente rilievo che il Comune non era stato parte di quel contratto. La cessione del contratto, infatti, quale vicenda traslativa del rapporto contrattuale si perfeziona con la necessaria partecipazione di tre soggetti; essa costituisce un negozio plurilaterale e precisamente un contratto trilatero, con conseguente inefficacia per il contraente ceduto che non abbia prestato la propria adesione alla cessione. D’altronde, l’autorizzazione rilasciata dal Comune alla conclusione del subappalto aveva avuto unicamente la funzione di autorizzare l’impresa […] all’esecuzione dei lavori in esso indicati e non già di far divenire la stessa impresa cessionaria dell’originario contratto di appalto.
Ed ancora, la Corte di appello ha escluso che il contratto di appalto n. […] del 1983 stipulato tra il Comune e l’impresa […] sia stato da questa ceduto integralmente all’impresa […] con la scrittura del […] 1983, per l’assorbente ragione che quel documento è stato sottoscritto solo dal […] e dall’impresa […], e che al perfezionamento della vicenda traslativa non ha partecipato il Comune di […]. Il subappalto, del resto, una volta che sia autorizzato dall’amministrazione appaltante ha quale caratteristica il mantenimento del rapporto contrattuale di base tra le parti originarie e si differenzia quindi nettamente dalla cessione del contratto, non operandosi il trasferimento della posizione contrattuale da un soggetto ad un altro.
Nè, ad avviso della Corte di appello, poteva ritenersi che la clausola compromissoria contenuta nell’originario contratto di appalto fosse operante tra il Comune e l’impresa […] perché richiamata dagli atti di sottomissione […] 1984 e […] 1986, direttamente stipulati tra queste parti, giacché con essi l’impresa si era semplicemente obbligata ad eseguire alle stesse condizioni i lavori ivi indicati, senza che venisse fatta alcuna menzione alla clausola compromissoria, che avrebbe dovuto essere esplicitamente sottoscritta, non potendo essere desunta per facta concludentia.
Orbene, il Collegio ritiene che la sentenza impugnata non meriti le censure ad essa rivolte dalla ricorrente. Correttamente, la Corte di appello di Messina non ha escluso, in linea di principio, l’ammissibilità della cessione del contratto di appalto di opere pubbliche, ma ha ritenuto, con motivazione immune dai denunciati vizi logici e giuridici, che nella fattispecie sottoposta al suo giudizio non fosse intervenuta in favore della impresa […] la cessione del contratto originario di appalto intercorso tra il Comune di […] e l’impresa […], con contestuale possibile operatività, anche nei confronti della impresa […], della clausola compromissoria contenuta in quest’ultimo contratto.
Invero, prima che la legge 12 luglio 1991, n. 203 introducesse nel testo dell’art. 18, comma secondo, della legge 19 marzo 1990, n. 55, il divieto assoluto di cessione del contratto di appalto di opere pubbliche, stabilendo che “il contratto non può essere ceduto a pena di nullità”, e abrogando, contestualmente, l’art. 334 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, All. F, che ammetteva, previa specifica autorizzazione dell’Amministrazione, la cessione di quei contratti sia al momento della stipulazione, e cioè prima dell’inizio della esecuzione del contratto, sia ad esecuzione già iniziata, deve ritenersi che la cessione del contratto di opere pubbliche non fosse di per sè vietata.
Le previgenti disposizioni si riferivano indistintamente alla cessione del contratto e al subappalto. Questi due istituti venivano quindi unificati quanto al trattamento giuridico, malgrado la loro ontologica diversità. Infatti, la cessione sostituisce integralmente una delle parti di un contratto, con la conseguenza che il contraente ceduto (e cioè l’Amministrazione) vede sostituito nella posizione di contraente il cessionario, e ciò indipendentemente dalla prestazione della garanzia sussidiaria da parte del cedente; il subappalto, invece, costituisce un esempio della categoria dei contratti derivati, in forza del quale si crea un nuovo rapporto la cui caratteristica è quella di avere un oggetto (l’esecuzione dell’opera) in tutto o in parte coincidente con l’appalto originario. Peraltro, a differenza della cessione del contratto, la quale realizza un’ipotesi di successione soggettiva nella intera serie di posizioni attive e passive del contratto di appalto originario, il subappalto non incide sui diritti e obblighi del contratto di appalto, che rimane immutato tra committente e appaltatore originario.
Questa Corte ha del resto già rilevato che nei rapporti tra pubblica amministrazione e appaltatore, il subappalto autorizzato non influisce in alcun modo sugli obblighi e diritti che sorgono dall’appalto e, nei rapporti tra pubblica amministrazione e subappaltatore, l’autorizzazione significa solo che esso è consentito, non comportando la comparsa di un nuovo soggetto nel rapporto originario, ne’ il nascere di un rapporto giuridico tra la stessa pubblica amministrazione e il subappaltatore (Cass., 24 luglio 2000, n. 9684).
Tuttavia, come osservato dal Consiglio di Stato (Sez. 2^, parere 3 febbraio 1993, n. 53; Sez. V, sentenza 13 maggio 1995, n. 761), se si pongono a raffronto le disposizioni degli artt. 334 e 339 (quest’ultima relativa al divieto di cessioni e di procure non riconosciute dall’amministrazione) della legge 20 marzo 1865, n. 2248, AH. F, con gli artt. 1406 e 1656 cod. civ. emerge che, salve alcune differenze, in linea di massima la cessione e il subappalto ricevevano un analogo trattamento sia nel settore delle opere pubbliche che nell’ordinario regime tra privati. Sia la successione nel rapporto originario, quanto il subappalto, infatti, erano subordinati ad una espressa autorizzazione del committente. Il difetto di tali autorizzazioni trovava le proprie sanzioni nell’ambito del diritto civile e di quello amministrativo.
Nel settore delle opere pubbliche, il difetto di autorizzazione alla cessione del contratto prima della stipulazione veniva sanzionata con il meccanismo dell’art. 332 della citata legge n. 2248 del 1865; se l’amministrazione rifiutava l’autorizzazione il contratto avrebbe dovuto essere stipulato dall’aggiudicatario cedente, mentre la mancata autorizzazione alla cessione ad opera già iniziata veniva sanzionata più severamente con la immediata rescissione e con la multa corrispondente al ventesimo del prezzo di aggiudicazione.
Sul piano più propriamente civilistico, il mancato consenso del contraente ceduto veniva costruito come una ipotesi di inopponibilità da chi qualificava la cessione come negozio essenzialmente bilaterale, mentre veniva predicata la nullità della cessione da parte di chi vedeva in essa un negozio essenzialmente trilatero (in tal senso, v. Cass., 8 agosto 1990, n. 8098).
In tale quadro è poi intervenuta la normativa dettata dalla legge 13 settembre 1982, n. 646, modificata dalle leggi 12 ottobre 1982, n. 726 e 23 dicembre 1982, n. 936, con la quale, per quanto rileva ai fini del presente giudizio, veniva introdotta una sanzione penale a carico di chi, avendo in appalto opere pubbliche, le concedesse a cottimo o in subappalto senza l’autorizzazione dell’amministrazione appaltante, alla quale veniva attribuita la facoltà di chiedere la risoluzione del contratto. Tale normativa non si riferiva peraltro alla cessione del contratto di appalto, per la quale il generale divieto è stato introdotto nell’ambito ricordato art. 18 della legge n. 55 del 1990, dall’art. 22 della legge n. 203 del 1991.
In questo contesto, dunque, se può convenirsi con la ricorrente sulla possibilità che, nel 1983, non vi fossero ostacoli alla cessione del contratto di appalto di opere pubbliche, tuttavia non può non rilevarsi che la cessione di un simile particolare contratto richiede, per la propria validità, i medesimi requisiti di forma previsti per il contratto oggetto di cessione. Dalla sentenza impugnata emerge invece che gli atti rilevanti sono l’autorizzazione comunale al subappalto – necessaria in base alla ricordata disposizione introdotta dalla legge n. 646 del 1982 – e i successivi atti di sottomissione, con i quali l’impresa […] si è impegnata ad eseguire “alle stesse condizioni (tecniche, economiche ed amministrative), modalità, prezzi unitari, ribasso d’asta del 10, 92 %, che regolano il rapporto principale”, i lavori della perizia di variante, senza alcuna menzione della clausola compromissoria che, in quanto derogativa della giurisdizione, avrebbe dovuto essere esplicitamente sottoscritta, non potendosi costituire per facta concludentia. Nè alla tesi della ricorrente può giovare l’atto […] 1983, menzionato nella impugnata sentenza, giacché la Corte di appello ha rilevato che l’accordo concluso con tale scrittura certamente non integra gli estremi di un contratto di cessione, essendo tale documento firmato solo dal […] e dall’impresa […], senza alcuna partecipazione del Comune di […]. Invero, la stessa ricorrente non contesta tale circostanza, ne’ l’ulteriore affermazione che con la delibera della Giunta municipale del settembre 1983 è stato autorizzato solo il subappalto, e non anche la cessione del contratto. Peraltro, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso, non risulta riprodotto il testo di quell’atto, o quanto meno le parti dello stesso dalle quali potrebbero desumersi indicazioni in senso favorevole alla tesi della ricorrente.
Ed ancora, privi di rilievo, ai fini dell’accertamento dell’intervenuta cessione del contratto di appalto, devono ritenersi i riferimenti contenuti in ricorso alle annotazioni sui libri, trattandosi di elementi che attengono a modalità esecutive del rapporto ma dai quali non è possibile desumere che tra l’impresa […], l’impresa […] e il Comune di […] sia stata convenuta la cessione dell’originario contratto di appalto intercorso tra il Comune e l’impresa […].
In conclusione, dovendosi escludere che tale contratto abbia formato oggetto di cessione, non può non convenirsi con l’affermazione della sentenza impugnata, secondo cui difettava tra il Comune di […] e l’impresa […] una valida clausola compromissoria; da qui la rilevata carenza di potestas judicandi del collegio arbitrale e la nullità del lodo da quel collegio emesso. Vi è solo da aggiungere che è priva di consistenza l’osservazione della ricorrente secondo cui il collegio arbitrale aveva esaminato il problema della validità della clausola compromissoria risolvendolo positivamente, dal momento che, proprio perché esaminato, deve ritenersi che la questione sia stata ritualmente proposta dal Comune nel giudizio arbitrale, così come dalla sentenza impugnata emerge che la medesima questione della possibilità della estensione all’impresa […] della clausola compromissoria pattuita tra il Comune di […] e l’impresa [….] è stata introdotta quale motivo di impugnazione per nullità del lodo.
La conclusione sul punto determina l’assorbimento degli ulteriori profili proposti con il secondo motivo, giacché, una volta escluso che tra le parti del presente giudizio possa ritenersi intervenuta una valida clausola compromissoria, risulta superfluo l’esame delle ulteriori censure proposte dalla ricorrente quanto alle affermazioni contenute nella sentenza impugnata in ordine alla composizione del collegio arbitrale.
Il rigetto del ricorso principale determina l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato proposto dal Comune di […].