Corte di Cassazione, Sez. 1, Sentenza n. 20880 del 2010, dep. il 08/10/2010

[…]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Collegio arbitrale previsto dal contratto di appalto stipulato il *5 maggio 1994* tra il comune di […] e l’impresa […] per lavori di ricostruzione delle spiagge di [..], con lodo del 3 marzo 2003 respinse le richieste dell’appaltatore dirette ad ottenere maggiori somme rispetto a quelle percepite per ulteriori lavori eseguiti ed oneri sopportati (ad eccezione dell’importo di Euro 3.836,59).
L’impugnazione dell’impresa […] è stata rigettata dalla Corte di appello di Cagliari, sez. dist. di Sassari, con sentenza del 15 novembre 2004, la quale ha osservato: a) gli arbitri, avevano competenza ad emettere il lodo per via della clausola contrattuale che rinviava alle disposizioni dell’art. 43 segg. Cap. gen. appr. con D.P.R. n. 1063 del 1962; b) tutte le riserve apposte in occasione del 2^ SAL per comportamenti della stazione appaltante antecedenti al primo erano inammissibili perché intempestive; e carenti di prova in merito alla data delle lavorazioni,quelle successive; c) correttamente gli arbitri avevano ritenuto generiche e non autosufficienti le censure relative alle violazioni in cui sarebbe incorsa l’amministrazione appaltante nella esecuzione di ufficio dell’appalto, nonché nella interpretazione delle disposizioni sui prezzi contrattuali; d) inammissibile era infine la richiesta di conseguire i medesimi compensi a titolo di indebito arricchimento concretandosi la richiesta in una modifica non consentita dell’originaria causa petendi e del petitum, fondati,invece sul contratto di appalto.
Per la cassazione della sentenza, il […] ha proposto ricorso per 7 motivi, illustrati da memoria; cui resiste il Comune di […] con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, il ricorrente deducendo violazione degli artt. 807 ed 808 cod. proc. civ., artt. 1341 e 1342 1362 cod. civ., e segg., censura la sentenza impugnata per aver ribadito la competenza arbitrale a conoscere della controversia senza considerare: a) che il contratto non conteneva alcuna clausola compromissoria ne’ sussisteva alcun compromesso al riguardo; b) che non bastava per legittimare la competenza arbitrale il rinvio generico contenuto nell’art. 1 del contratto alle disposizioni del capitolato generale del 1962; c) che in ogni caso detta clausola doveva considerarsi vessatoria ed essere approvata per iscritto.
Il motivo è del tutto inconsistente.
La Corte di appello non ha ritenuto affatto che nel contratto di appalto il ricorrente e l’amministrazione comunale avessero inserito una clausola compromissoria, intesa secondo la nozione offerta dall’art. 808 cod. proc. civ., quale accordo con cui le parti avevano stabilito che le controversie nascenti dal contratto medesimo dovessero obbligatoriamente essere decise da arbitri; ma ha rilevato che nell’art. 1 di detto negozio esse avevano inserito una clausola che recepiva l’intera disciplina contenuta nel Capitolato di appalto per le opere di competenza del Ministero L.P. appr. con D.P.R. n.1063 del 1962; e quindi ivi recepito, tra l’altro, il regime compromissorio di cui all’art. 43, e segg. di detto capitolato (nella sua originaria formulazione); il quale prevede un arbitrato avente carattere facoltativo, atteso che la competenza degli arbitri è suscettibile di deroga, in favore del giudice ordinario, sia su iniziativa dell’attore, mediante proposizione della domanda davanti a detto giudice, sia su iniziativa del convenuto, mediante notificazione, dopo la richiesta di arbitrato della controparte, della propria determinazione sulla scelta di quel giudice (artt. 43 e 47 del citato decreto).
Da qui la conseguenza che detta convenzione non richiedeva i requisiti di sostanza e di forma peculiari della clausola di cui al menzionato art. 808 cod. proc. civ. (peraltro soddisfatti, ogni qual volta sia nel contratto contenuto un richiamo a norma regolamentare che preveda l’espletamento dell’arbitrato e senza necessità di una separata clausola: cfr. Cass. 17083/2008; 5540/2004; 15783/2003); ma comportava che formatasi la volontà contrattuale secondo la disciplina dettata nel capitolato generale del 1962, l’intero rapporto doveva essere retto e svolgersi secondo quella disciplina,perciò consentendo all’appaltatore di scegliere la competenza arbitrale, o, per converso privilegiare il giudizio ordinario. E nel contempo gli impediva di contestare la competenza arbitrale dopo la nomina degli arbitri da lui stesso operata: avendo in tal caso il ricorrente manifestato, con la propria condotta, una volontà divenuta irretrattabile a favore del procedimento arbitrale (Cass. 13582/2006; 6921/2003).
Con il secondo motivo, il […], deducendo violazione del R.D. n.350 del 1895, art. 52, e segg., art. 115 cod. proc. civ., e segg., art. 2697 cod. civ., nonché omessa motivazione su punti decisivi della controversia, censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che l’impresa era incorsa nella decadenza relativamente alle pretese antecedenti al 1^ SAL per non averle tempestivamente inserito nel registro di contabilità, senza considerare: a) che mancava la prova che lo stesso le fosse stato messo a disposizione dalla D.L., e che la missiva da quest’ultima inviata con la quale si concedeva un termine di 15 giorni per sottoscrivere il registro fosse stata ricevuta; b) che la prova dell’avvenuta decadenza incombeva sul comune di […] che l’aveva eccepita,sicché diveniva irrilevante l’omessa indicazione dell’epoca in cui si erano svolte le relative lavorazioni, essendo decisiva e sufficiente la circostanza che le riserve erano state apposte nella prima occasione in cui la D.L. aveva invitato l’appaltatore a sottoscrivere il suddetto registro; c) che in ogni caso il relativo onere non sussisteva poiché la contabilità era stata eseguita in modo approssimativo e parziale non consentendogli un’esatta ricostruzione delle lavorazioni effettuate.
Le censure che ripropongono pedissequamente le doglianze respinte dalla Corte di appello, sono infondate.
Le stesse muovono dalla singolare prospettiva che l’onere dell’appaltatore di formulare la riserva sia condizionato dal R.D. n.350 del 1895, art. 53, e segg., al formale invito da parte della amministrazione committente,e per essa del D.L. di apporla nel registro di contabilità e quindi alla prova (posta a carico di questi ultimi) che detto documento sia messo del pari formalmente a disposizione dell’ imprenditore: in mancanza della quale detto onere viene meno o comunque rinviato alla prima occasione in cui la condizione si verifichi.
Siffatta ricostruzione non tiene in alcun conto il contenuto di detta normativa,nè la interpretazione offerta dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo le quali l’appaltatore che, nel corso dell’esecuzione del contratto, faccia richiesta di pagamento di maggiori compensi, indennizzi o rimborsi, è tenuto a iscrivere la riserva “immediatamente” (art. 53 cit.): nota essendo la finalità di detto onere che è quella di consentire all’amministrazione appaltante da un lato la verificazione dei fatti suscettibili di produrre un incremento delle spese previste con l’immediatezza che ne rende più sicuro e meno dispendioso l’accertamento, anche per la eventuale integrazione dei mezzi finanziari all’uopo predisposti; e dall’altro di porla tempestivamente in grado di adottare tutte le possibili determinazioni, in armonia con il bilancio pubblico, fino ad esercitare la potestà di risoluzione unilaterale del contratto (Cass. 11852/2007; 4702/2006;
18070/2004; 13500/2004).
Corollari necessari di questa funzione, ripetutamente enunciati da questa Corte fin dalle decisioni più lontane nel tempo sono: I) che trattasi di un “onere”, posto dalla legge a carico dell’imprenditore ove egli intenda avanzare pretese per compensi ed indennizzi aggiuntivi di qualsiasi genere rispetto al corrispettivo originariamente pattuito nel contratto e contabilizzato dalla stazione appaltante: nel senso che l’ordinamento gli consente all’imprenditore di far valere il relativo diritto a patto che egli abbia tenuto un determinato comportamento, consistente per quel che interessa, nella inserzione, nei termini con le modalità e con le forme previste dalla legge, di apposita riserva con l’indicazione specifica del suo oggetto e della sua ragione (Cass. fin da 1337/1976) nel registro di contabilità o altri documenti contabili dell’appalto; II) che detto onere è subordinato dalla legge non alla disponibilità da parte dell’imprenditore del registro di contabilità ovvero all’invito da parte del committente a sottoscriverlo, bensì alla obbiettiva insorgenza di fatti ritenuti per lo stesso lesivi; con la conseguenza che non cessa neppure nell’ipotesi di momentanea indisponibilità del registro di contabilità dovendo in tal caso l’imprenditore iscrivere la riserva in documenti contabili equivalenti, esemplificativamente individuati dalla giurisprudenza nel verbali di sospensione o di ripresa dei lavori, ovvero in quelli contenenti gli stati di avanzamento o ancora ordini di servizio, salvo poi a riversarla non appena possibile nel registro di contabilità (Cass. 8/1976 e da ultimo Cass. 29494/2008); III) che attesa la finalità della riserva il relativo onere non può essere più preteso soltanto allorché il registro di contabilità non sia stato istituito e manchi del tutto; ovvero nel caso in cui la contabilità risulti informe ed irricostruibile, cioè non consacrata in quei registri ed inidonea a consentire il riscontro dei titoli di spesa e delle spettanze riconosciute dalla stazione appaltante; o infine di comportamenti dolosi o gravemente colposi dell’amministrazione nell’esecuzione di adempimenti amministrativi; IV) che in base al sistema derivante dall’art. 2697 cod. civ., informato al principio della eguaglianza delle parti, per cui ognuno dei contendenti deve provare l’assunto che allega e dal quale vuole dedurre conseguenze giuridiche in suo favore, spetta all’appaltatore dimostrare il fatto costitutivo della domanda, cioè tutti gli elementi che legittimano secondo il diritto la sua pretesa (Cass. 14361/2000), mentre incombe alla P.A., qualora eccepisca l’inefficacia dei fatti dedotti a base dell’attore, dimostrare i fatti su cui basa la sua eccezione. E conseguentemente l’onere probatorio del convenuto sussiste in concreto solo quando l’attore abbia fornito la prova dei fatti posti a base della sua domanda. Sicché siccome la decadenza del suo diritto ai maggiori compensi dipende dalla mancata osservanza dell’onere di compiere una determinata attività entro un dato termine – consistente nell’avvenuta iscrizione della riserva – spetta proprio a costui che intende valersi del diritto, fornire la prova di avere compiuto tempestivamente l’attività prevista, e che dunque, adempimento dal quale si vogliono derivare effetti favorevoli, si è realmente verificato.
Pertanto siccome nella specie neppure l’impresa […] ha prospettato la presenza di una delle ipotesi che ne escludevano l’onere di iscrivere “immediatamente” riserva in relazione ai numerosi fatti lesivi lamentati durante lo svolgimento dell’appalto (e non ha dimostrato la sussistenza di una contabilità informe ed irricostruibile da parte della stazione appaltante), del tutto correttamente la sentenza impugnata ha ritenuto, in ottemperanza ai menzionati principi che spettava proprio all’appaltatore di fornire la prova di aver provveduto all’immediata iscrizione di quelle antecedenti al 1^ SAL nel registro di contabilità, ovvero di documentare le ragioni per cui detto registro in occasione di ciascuno degli eventi posti a fondamento delle riserve era stato indisponibile. Ma in tal caso siccome lo stesso ricorrente ha dedotto che fin dall’atto di consegna dei lavori,la stazione appaltante era incorsa in gravi inadempienze che gli avevano cagionato maggiori oneri,proseguite durante il successivo svolgimento dell’appalto (sospensioni, riprese improvvise, ordini di servizio illegittimi ecc.) ,egli aveva altresì l’onere di dimostrare di avere formulato le riserve nei relativi verbali: salvo poi a riversarle nel registro di contabilità in occasione del 1^ SAL che egli invece aveva rifiutato di sottoscrivere (pag. 24 sent.). Per cui è del pari corretta la statuizione impugnata che ha confermato l’intempestività non solo delle riserve suddette apposte nel registro in questione in occasione soltanto del 2^ SAL, ma anche di quelle successive al primo stato di avanzamento perché prive dei requisiti di specificità tali da consentire di individuare l’epoca delle lavorazioni cui si riferivano (e quindi anche sotto questo profilo, la tempestività della iscrizione): divenendo per quanto si è detto del tutto irrilevante al riguardo la questione dell’invito del D.L. a sottoscrivere il registro suddetto, del tutto priva di collegamento con l’onere gravante sull’imprenditore ed idonea al più ad incidere sull’avvenuta accettazione da parte del […], delle lavorazioni come annotate dalla D.L..
Con il terzo motivo,quest’ultimo,deducendo violazione del R.D. n. 350 del 1895, artt. 27 e 28, art. 115 cod. proc. civ., e segg., nonché difetto assoluto di motivazione si duole che la Corte territoriale abbia considerato esauriente la motivazione con cui il lodo aveva respinto la propria richiesta di dichiarare illegittimo il procedimento con cui la committente era ricorsa all’esecuzione dei lavori di ufficio senza considerare che essa impresa aveva documentato il proprio adempimento delle obbligazioni contrattuali e le illegittimità in cui era incorso il comune committente; per cui entrambe le statuizioni si erano risolte in una omissione di pronuncia sulle proprie censure.
Il motivo è inammissibile: avendo la sentenza impugnata confermato il lodo per aver rilevato che avendo l’impresa impugnato la procedura di esecuzione suddetta “per violazione delle formalità stabilite dal R.D. n. 350 del 1895” nonché per assenza “delle condizioni fissate dallo stesso regolamento”, la stessa aveva l’onere quanto meno di prospettare quali fossero i vizi della procedura imputati alla committente; per cui detta statuizione e quella della Corte territoriale potevano essere impugnate utilmente soltanto facendo rilevare l’illogicità della prima pronuncia per avere invece il […] allegato ed illustrato già nell’originario ricorso le irregolarità in questione, trascrivendole; e che a fronte della pronuncia degli arbitri la prospettazione di dette vizi aveva reiterato nell’atto di impugnazione. Laddove l’impresa anche in questa sede di legittimità si è limitata a prospettare del tutto genericamente di avere adempiuto alle obbligazioni poste a suo carico nello svolgimento dell’appalto, a differenza del comune rimasto inadempiente, così come aveva fatto davanti agli Arbitri che di tale contrapposizione avevano dato atto (pag. 26 sent.). Per cui la loro statuizione e le ragioni poste a sostegno della stessa sono rimaste incensurate. Inammissibile è pure il quarto motivo di ricorso con cui l’impresa contesta la decisione impugnata per aver reiterato la violazione delle norme di interpretazione del contratto in cui erano incorsi gli arbitri che non avevano retribuito lavori aggiuntivi dalla stessa eseguiti, ritenendoli erroneamente compresi nei prezzi contrattuali: anzitutto per mancanza di autosufficienza (art. 366 cod. proc. civ.), non avendo l’appaltatore riferito neppure quali
lavori e quali prezzi fossero stati pattuiti e quali invece avrebbero dovuto essergli retribuiti in aggiunta dalla stazione appaltante. E quindi, perché non sono state indicate e trascritte neanche le clausole oggetto dell’interpretazione letterale asseritamente erronea; laddove il controllo della congruità e logicità della motivazione, al fine del sindacato di legittimità su un apprezzamento di fatto del giudice di merito, postula la specificazione da parte del ricorrente – anche mediante la trascrizione integrale nel ricorso – della risultanza (parte di un documento, di una clausola negoziale, ecc.) che egli assume decisiva ed erroneamente valutata, perché solo tale specificazione consente alla Corte di Cassazione – alla quale è precluso, salva la denunzia di “error in procedendo”, l’esame diretto dei fatti di causa – di n delibare contenuto e decisività della risultanza non valutata.
Eguali considerazioni valgono in ordine al quinto motivo,concernente una sospensione dei lavori disposta dalla committente, di cui non è specificata neppure la vicenda fattuale che vi ha dato causa; e quindi le richieste dell’impresa e le statuizioni adottate su di esse dal lodo, nonché gli errori in iudicando in cui erano incorsi gli arbitri, che invece erano stati confusi dalla Corte di appello con mere valutazioni di merito, non censurabili ai sensi dell’art. 829 cod. proc. civ..
Con il sesto, infine, l’impresa, denunciando violazione dell’art.2041 cod. civ., si duole che sia stata dichiarata inammissibile la domanda con cui aveva insistito per i danni lamentati a titolo di indebito arricchimento, senza osservare la giurisprudenza di legittimità secondo la quale quando la originaria richiesta in primo grado sia stata formulata a titolo di risarcimento del danno, essa può essere modificata in appello, in quella di arricchimento senza causa purché sia fondata sulle stesse circostanze di fatto. Anche questa censura è infondata, pur se va corretta la motivazione con cui la Corte di appello ha respinto analoga doglianza formulata dal ricorrente.
È noto che il giudizio di impugnazione arbitrale ha in un certo senso natura di appello limitato, tanto da essere qualificato a critica vincolata; ed è soggetto non già alle disposizioni di cui all’art. 339 cod. proc. civ., e segg., ma a quelle dell’art. 827 cod. proc. civ., e segg., che lo suddividono in due fasi: la prima
rescindente, finalizzata all’accertamento di eventuali nullità del lodo e che può concludersi con l’annullamento del medesimo, la seconda rescissoria, solo eventuale, che fa seguito all’eventuale annullamento ed in cui il giudice ordinario procede alla ricostruzione del fatto sulla base delle prove dedotte. Pertanto detto mezzo è diretto in sede rescindente all’accertamento delle eventuali nullità in cui siano incorsi gli arbitri tassativamente elencate dall’art. 829 cod. proc. civ., e pronunciabili esclusivamente per determinati errori “in procedendo”, nonché per inosservanza delle regole di diritto ma nei limiti previsti dal secondo comma. E solo in sede rescissoria è attribuita al giudice dell’impugnazione la facoltà di riesame del merito delle domande, e comunque nei limiti del “petitum” e delle “causae petendi” dedotte dinanzi agli arbitri (per queste ultime intendendosi i fatti sui quali risultava fondato il “petitum”). Con la conseguenza che la sua natura ed i suoi limiti non consentono non solo domande nuove rispetto a quelle proposte agli arbitri e contenute nei quesiti, la cui valutazione deve avvenire alla stregua dei precetti contenuti nell’art. 345 cod. proc. civ., inapplicabile al giudizio arbitrale, ma neppure censure diverse da quelle specificamente individuate e tipiche consentite dall’art. 829; e che il giudizio circa la loro ammissibilità devoluto al giudice dell’impugnazione deve necessariamente concretarsi nell’apprezzare se le contestazioni formulate corrispondano esattamente o meno ai casi di impugnabilità stabiliti dall’art. 829 cit.. Sicché in tale prospettiva la domanda del […] di indennizzo per le poste richieste agli arbitri a titolo non più di adempimento contrattuale, ma di arricchimento senza causa deve considerarsi inammissibile perché non denuncia alcuna delle nullità del lodo predisposte dalla menzionata disposizione: perciò ponendosi al di fuori del suo quadro normativo. E perché d’altra parte atteso il carattere sussidiario dell’azione, la stessa non è esercitabile allorché l’appaltatore aveva a disposizione l’azione contrattuale per fare valere le sue maggiori pretese rispetto ai compensi contrattualmente previsti (Cass. 23042/2008; 5072/2001).
Assorbito pertanto l’ultimo motivo del ricorso sostanzialmente subordinato all’accoglimento di quelli precedenti, nonché alla cassazione della sentenza impugnata,invece non avvenuta […]