Corte di Cassazione, Sez. 2, Ordinanza n. 8929 del 2019, dep. il 29/03/2019

[…]

FATTI DI CAUSA

…, con atto notificato il …1994, ha citato in giudizio, innanzi al tribunale di Napoli, … e, dopo aver dedotto, per quanto ancora rileva, che il convenuto aveva installato una grondaia e realizzato un casotto per animali da cortile a distanza illegale dal proprio fabbricato, ha chiesto la condanna del convenuto alla rimozione delle opere collocate a distanza illegale ed al risarcimento dei danni.
… si è costituito in giudizio deducendo, tra l’altro, che la grondaia con il tubo di scarico esisteva da oltre vent’anni, e cioè sin dall’epoca di costruzione del fabbricato, e che il casotto destinato all’allevamento degli animali esisteva da oltre vent’anni e non violava alcun strumento urbanistico giacché, all’epoca, il Comune … non aveva adottato alcun regolamento.
Il tribunale di Napoli, dapprima con sentenza non definitiva del 7/3/2000 e poi con sentenza definitiva del 15/5/2006, ha condannato …, innanzitutto, ad arretrare la grondaia alla distanza di un metro dal confine ed, in secondo luogo, ad arretrare il casotto alla distanza di dieci metri dalla proprietà dell’attore.
…, con citazione notificata l’… 2007, ha proposto appello chiedendo, in riforma della decisione impugnata, il rigetto della domanda di arretramento del casotto e delle condotte idriche e pluviali.
La corte d’appello di Napoli, dapprima con sentenza non definitiva del 29/10/2013 e poi con sentenza definitiva del 6/6/2014, ha rigettato l’appello.
La corte, in particolare, ha ritenuto, innanzitutto, che l’epoca di costruzione del casotto era stata accertata dal primo giudice sulla scorta di risultanze processuali che l’appellante non ha posto in discussione: il tribunale, infatti, ha osservato la corte, ha ritenuto che la realizzazione del manufatto è successiva all’entrata in vigore del P.R.G., pubblicato sul BURC il 9/1/1984, evidenziando che l’esistenza del casotto non risulta né dal rilievo aerofotogrammetrico del 1975 né dalla planimetria redatta in data … 1988 dal tecnico del Comune … su richiesta del pretore …, innanzi al quale era pendente contro … un giudizio penale per il reato di costruzione abusiva. Il tribunale, quindi, in forza di tali documenti, prodotti dal … ed “idonei a fornire elementi di prova oggettivi”, ha affermato l’applicabilità ratione temporis delle normativa in materia di distanze dettata dallo strumento urbanistico locale. …, ha aggiunto la corte, non ha formulato alcuna censura in merito alla valutazione del materiale probatorio così effettuata ma ha asserito apoditticamente che la costruzione risale al 1974 senza nemmeno indicare gli elementi di prova che, in contrasto con quanto accertato in primo grado, avvalorerebbero il suo assunto difensivo. La corte, quindi, ha concluso sul punto affermando che meritasse conferma la sentenza impugnata nella parte in cui il tribunale ha ritenuto che “il casotto oggetto di lite è stato realizzato successivamente all’entrata in vigore del P.R.G. del Comune…, che risale al … 1984, ed è perciò assoggettato a tale normativa urbanistica”, che prevede, per la zona A1, nella quale ricadono le proprietà delle parti, la distanza assoluta di m. 5 dai confini e la distanza di m. 10 tra costruzioni: “diversamente da quanto sostenuto dall’appellante, per la zona Al le norme di attuazione dello strumento urbanistico, richieste al Comune … ed allegate dal Ctu … alla sua relazione, prescrivono tali distacchi; d’altro canto, se è vero che l’art. 7, richiamato dal …, stabilisce che nelle aree verdi o comunque libere non sono consentite nuove costruzioni, è pur vero che la stessa disposizione consente una limitata possibilità di edificazione, vale a dire interventi di ristrutturazione edilizia e di ristrutturazione urbanistica ai sensi dell’art. 31 I. 457/1978, vincolato all’adozione dei piani particolareggiati, e, anche in assenza dei piani particolareggiati, la ristrutturazione e l’ampliamento di strutture alberghiere”.
Né è fondata, ha aggiunto la corte, “.. la doglianza circa il mancato assolvimento, da parte del …, dell’onere probatorio circa la preesistenza del suo fabbricato” rilevando che “la planimetria redatta il … 1988 dall’Ufficio Tecnico del Comune … su richiesta del Pretore … dimostra che, a tale data, il casotto non esisteva, mentre il fabbricato dell’appellato era già stato realizzato (in epoca diversa, giacché la struttura originaria risale al 1972 mentre gli ampliamenti di più recente edificazione risalgono agli anni 1980/1981 ed al 983/84)”.
La corte, quindi, ha rigettato il secondo, il terzo ed il quarto motivo d’appello, che riguardano la statuizione di condanna all’arretramento del casotto.
La corte, poi, in ordine alla condanna del … alla rimozione della grondaia in quanto posta a distanza illegale, ha ritenuto, per un verso, che l’azione del … dovesse essere qualificata come un’actio negatoria servitutis e, come tale, imprescrittibile, e, per altro verso, che l’eccezione del convenuto, secondo cui tali opere erano state installate da oltre un ventennio, integra un’eccezione di usucapione, con la conseguenza che, secondo i principi generali sulla ripartizione dell’onere probatorio, l’onere di dimostrare il fatto estintivo grava su chi ha sollevato l’eccezione. Al riguardo, la corte, dopo aver evidenziato che il … aveva articolato prova testimoniale nel corso del giudizio di primo grado e che il tribunale aveva implicitamente disatteso la richiesta di prova orale pur avendo accertato che la grondaia era stata collocata a distanza illegale, ha ritenuto che, in realtà, tale mezzo di prova, avendo ad oggetto la realizzazione della grondaia, risultava ammissibile e pertinente, disponendo la relativa assunzione. La corte, tuttavia, ha dato atto che la prova testimoniale così ammessa non era stata espletata: l’appellante, infatti, ha chiesto la sostituzione dei due testi ammessi deducendo che uno era deceduto il … 2003 e che il secondo era affetto da gravi patologie che non gli avevano consentito di essere presente. La corte, però, ha respinto l’istanza di sostituzione sul rilievo che, in base alle norme in vigore fino al 30/4/1995, l’assunzione di testi che non siano stati preventivamente e specificamente indicati, è consentita solo nei casi previsti dall’art. 257 c.p.c., la cui enunciazione deve ritenersi tassativa, con la conseguenza che la parte non può pretendere di sostituire i testi deceduti prima dell’assunzione con altri che siano stati dalla stessa indicati nei modi e nei termini previsti dall’art. 244 c.p.c..
La corte, quindi, ha rigettato anche il quarto motivo d’appello, nella parte in cui involge la statuizione di condanna all’arretramento della grondaia.
Vito …, con ricorso spedito per la notifica il … 2015 e depositato il … 2015, ha chiesto, per cinque motivi, la cassazione delle sentenze della corte d’appello, dichiaratamente non notificate.
… è rimasto intimato.
Il ricorrente ha depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo, intitolato “violazione degli artt. 871, 872 e 873 c.c., nonché dell’art. 7 del P.R.G. del Comune … approvato con decreto del Presidente della Giunta Regionale della Campania il … 1984, pubblicato sul B.U.R.C….”, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., il ricorrente ha censurato la sentenza non definitiva impugnata nella parte in cui la corte d’appello, confermando la decisione con la quale il tribunale aveva ritenuto che il casotto fosse collocato a distanza illegale rispetto alla costruzione dell’attore, ha ritenuto che tale casotto sia assoggettato alla normativa urbanistica contenuta nel P.R.G. del Comune …, la quale prevede, per la zona Al, nella quale ricadono le proprietà delle parti, la distanza assoluta di m. 5 dai confini e la distanza di m. 10 tra costruzioni, aggiungendo che “… se è vero che l’art. 7, richiamato dal …, stabilisce che nelle aree verdi o comunque libere non sono consentite nuove costruzioni, è pur vero che la stessa disposizione consente una limitata possibilità di edificazione, vale a dire interventi di ristrutturazione edilizia e di ristrutturazione urbanistica ai sensi dell’art. 31 I. 457/1978, vincolato all’adozione dei piani particolareggiati, e, anche in assenza dei piani particolareggiati, la ristrutturazione e l’ampliamento di strutture alberghiere”. Così facendo, tuttavia, ha osservato il ricorrente, la corte d’appello ha violato l’art. 873 c.c., il quale prevede l’applicabilità dei regolamenti locali, in funzione integrativa, a condizione che contengano disposizioni, per costruzioni aventi le medesime caratteristiche, di una distanza maggiore di tre metri. Il P.R.G. del Comune …, al contrario, non conteneva (e non contiene) alcuna prescrizione in tema di distanze per costruzioni aventi le caratteristiche di quella oggetto della controversia: ed infatti, l’art. 7, introdotto in sede di approvazione, stabilisce che, nelle aree verdi o comunque libere, non sono consentite nuove costruzioni né alterazioni del suolo, opere di sbancamento o di riporto, disalberamenti, aperture di nuove strade. Ne consegue, ha osservato il ricorrente, che, “se era vietata la edificazione di qualsiasi costruzione su aree verdi o libere, è evidente che lo strumento urbanistico non poteva prevedere l’obbligo di distanze rispetto ai confini o tra costruzioni”: in altri termini, “l’art. 7, non prevedendo alcuna possibilità di edificazione di nuove costruzioni, non poteva, nel contempo, imporre – e difatti non le impone – il rispetto di distacchi rispetto ai confini o tra costruzioni”, e non costituisce, quindi, norma integrativa del codice civile in materia di distanze tra le costruzioni realizzate su aree libere, avendo, piuttosto, lo scopo di tutelare interessi urbanistici generali, come l’igiene, la viabilità, la conservazione dell’ambiente ed altro, la cui violazione, quindi, rimane limitata al risarcimento del danno eventualmente subito. Né rileva, ha aggiunto il ricorrente, il riferimento contenuto nella sentenza alla limitata possibilità di edificazione prevista dall’art. 7, in quanto limitata alla sola possibilità di realizzare interventi di restauro conservativo o di ristrutturazione, laddove, nella specie, si discute di una nuova costruzione; e neppure rileva la possibilità di realizzare interventi su strutture alberghiere esistenti, trattandosi di un casotto che ha alcuna destinazione direttamente o indirettamente riconducibile ad esercizi alberghieri pregressi.

2. Il motivo è infondato. Risulta, infatti, erroneo l’assunto di fondo del ricorrente, secondo il quale “l’art. 7, non prevedendo alcuna possibilità di edificazione di nuove costruzioni, non poteva, nel contempo, imporre … il rispetto di distacchi rispetto ai confini o tra costruzioni”, e non costituisce, quindi, norma integrativa del codice civile in materia di distanze tra le costruzioni realizzate sulle predette aree. Questa Corte, al contrario, ha avuto di recente modo di affermare che i divieti assoluti di edificazione posti da una normativa urbanistica cogente, riferita anche implicitamente alla nozione di distanza per le costruzioni, costituiscono disposizioni integrative dell’art. 873 c.c., con la conseguente possibilità di invocare, ai sensi dell’art. 872, comma 2°, c.c., la riduzione in pristino, con la condanna all’integrale eliminazione della nuova edificazione realizzata, come quella di specie, in violazione al divieto. Ed infatti, anche nel caso in cui lo strumento urbanistico vieti del tutto l’edificazione in una determinata zona – come nella specie il ricorrente pretende – e, quindi, non preveda la distanza da osservarsi per l’edificazione di costruzioni rispetto a fabbricati preesistenti, quale Corte ritiene, in armonia con la ratio della disciplina urbanistica di assicurare l’ordinato sviluppo edilizio, che anche le norme di divieto assoluto di edificare dettate da strumenti urbanistici – direttamente o per il tramite di disapplicazione giudiziale in relazione a discipline cogenti che il divieto impongano – contengano comunque un implicito riferimento all’art. 873 c.c.: ciò, in particolare, accade con la disposizione (che il ricorrente ha esplicitamente invocato nella memoria: v. p. 1-11) dell’art. 9, comma 1°, del d.m. n. 1444 del 1968, nella parte in cui per le zone A prescrive che le distanze tra edifici (per operazioni di risanamento conservativo e per eventuali ristrutturazioni) non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti: trattasi di una disposizione in tema di divieto di nuove edificazioni, significativamente però formulata in termini di obbligo di rispetto, solo per determinate tipologie di fabbricazione, di “distanze”, individuate in quelle preesistenti. Tale dato rivela chiaramente la volontà del legislatore di considerare il divieto sub specie di cristallizzazione, sia in negativo sia in positivo (cfr. Cass. n. 12424 del 2010), del regime civilistico delle distanze preesistenti. Ciò conduce, dunque, a ritenere che “i divieti assoluti di edificazione posti da una normativa urbanistica cogente riferita anche implicitamente alla nozione di distanza per le costruzioni (di cui le norme di cui all’art. 1 del d.m. cit. sono un esempio) costituiscono disposizioni integrative dell’art. 873 cod. civ., con conseguente invocabilità ex art. 872, secondo comma, cod. civ. della riduzione in pristino, per relationem alle distanze de facto preesistenti tra edifici eventualmente anche non eccessivamente prossimi, le quali ovviamente potranno consistere in una distanza in senso stretto ove il costruttore sia stato proprietario di un preesistente volume edilizio, mentre si tradurranno in un divieto assoluto di edificazione, qualora invece non sussistesse alcun preesistente volume” (Cass. n. 1616 del 2018, per la quale, in tema di distanze tra costruzioni, l’art. 9, comma 1°, del d.m. n. 1444 del 1968, prescrivendo, per la zona A, per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, che le distanze tra gli edifici non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, è disciplina integrativa dell’art. 873 c.c. immediatamente idonea a incidere sui rapporti interprivatistici, per cui, sia in caso di adozione di strumenti urbanistici contrastanti con la norma citata, sia con ancor maggior fondamento in caso di mancanza di contrasto e quindi in presenza di disposizioni di divieto assoluto di costruire, sussiste l’obbligo per il giudice di merito – nel primo caso mediante disapplicazione della disposizione illegittima, nel secondo caso mediante diretta applicazione della norma di divieto – di dare attuazione alla disposizione integrativa dell’art. 873 c.c., ove il costruttore sia stato proprietario di un preesistente volume edilizio, mediante condanna all’arretramento di quanto successivamente edificato oltre i limiti di tale volume o, qualora invece non sussistesse alcun preesistente volume, mediante condanna all’integrale eliminazione della nuova edificazione).
In definitiva, in presenza di disposizioni di divieto assoluto di costruire, sussiste l’obbligo per il giudice di merito di dare attuazione alla disposizione integrativa dell’art. 873 c.c., ove il costruttore sia stato proprietario di un preesistente volume edilizio, mediante condanna all’arretramento di quanto successivamente edificato oltre i limiti di tale volume o, qualora invece non sussistesse alcun preesistente volume, mediante condanna all’integrale eliminazione della nuova edificazione.

3.Con il secondo motivo, intitolato “violazione degli artt. 873, 949 e 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 342 e 112 c.p.c., art. 11 disposizione sulla legge in generale”, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., il ricorrente ha censurato la sentenza non definitiva impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha confermato la decisione con la quale il tribunale, sulla base di risultanze processuali che l’appellante non aveva posto in discussione, ha ritenuto che la realizzazione del manufatto è successiva all’entrata in vigore del P.R.G., pubblicato sul BURC il …1984, evidenziando che l’esistenza del casotto non risultava né dal rilievo aerofotogrammetrico del 1975 né dalla planimetria redatta in data 21/3/1988 dal tecnico del Comune … su richiesta del pretore …, innanzi al quale era pendente contro … un giudizio penale per il reato di costruzione abusiva. Così facendo, ha osservato il ricorrente, la corte d’appello ha rappresentato tre circostanze non vere, posto che: a) il tribunale non ha affatto ritenuto che il rilievo aerofotogrammetrico del 1975 e la planimetria redatta in data 21/3/1988 dal tecnico del Comune … attestassero la precisa epoca di realizzazione del casotto, avendo solo affermato che le risultanze di tali atti facessero presumere che la edificazione risalisse ad epoca successiva all’entrata in vigore del P.R.G.; b) il tribunale non ha affatto fondato sui predetti atti il convincimento che l’esecuzione del manufatto fosse da ricondurre ad epoca successiva a tale data, avendo ritenuto che competeva al convenuto l’onere di dare la prova di quanto asserito nella comparsa di costituzione e risposta; c) l’appellante non è rimasto affatto acquiescente rispetto alla valutazione del materiale probatorio operata dal tribunale, avendo contestato tale valutazione. La corte d’appello, quindi, ha innanzitutto violato gli artt. 342 e 112 c.p.c., in forza dei quali l’effetto devolutivo dell’appello ricomprende qualsiasi questione che, sebbene non specificamente posta dall’appellante, rientri nell’ambito della censura proposta in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi, costituendone un necessario antecedente logico e giuridico, vale a dire, nel caso di specie, l’applicabilità alla costruzione in oggetto la disciplina contenuta nel P.R.G. del Comune .. in vigore del ..1984 nonostante che nessuna prova era stata acquisita su tale circostanza e l’attore non avesse adempiuto all’onere probatorio interamente posto a suo carico. L’appellante, del resto, sin dalla sua costituzione nel giudizio di primo grado, ha contestato che il casotto fosse stato realizzato in epoca recente, avendo, al contrario, evidenziato che lo stesso esisteva da oltre venti anni, con la conseguenza che, a fronte di tale contestazione, “l’onere di dimostrare l’epoca di realizzazione del ‘casotto’, che rappresentava un fatto costitutivo della domanda di accertamento della violazione delle distanze legali e di arretramento della costruzione, gravava ai sensi dell’art. 2697, comma 1, c.c., sull’attore”: ed infatti, “la esatta epoca di costruzione del manufatto costituiva un presupposto indefettibile per consentire al Giudice di stabilire la normativa, ratione temporis, applicabile al caso di specie”. La corte d’appello, quindi, nel confermare la sentenza del tribunale, che aveva imputato al convenuto di non aver adempiuto all’onere di dare la prova di quanto eccepito, ha violato l’art. 873 c.c. e l’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, ed, al contempo, l’art. 2697 c.c., che impongono che la normativa locale sui distacchi possa trovare applicazione solo se si accerta che la costruzione sia avvenuta sotto la sua vigenza mentre, nella specie, tale dimostrazione non è stata fornita.

4. Il motivo è infondato. La sentenza d’appello, infatti, si sostituisce, com’è noto, relativamente ai capi che sono stati investiti dall’impugnazione, alla sentenza gravata: non solo in caso di riforma, ma anche in ipotesi di sua totale conferma. Ne consegue che la parte soccombente può denunciare in cassazione non il vizio della sentenza di primo grado non rilevato dal giudice di appello (Cass. n. 17027 del 2007; Cass. n. 1323 del 2018) ma solo i vizi presenti nella sentenza pronunciata in secondo grado (Cass. n. 8265 del 2002; Cass. n. 9993 del 2003). Nel caso in esame, la corte d’appello ha dichiaratamente condiviso la sentenza impugnata nella parte in cui il tribunale, sulla base dei documenti prodotti dal … ed “idonei a fornire elementi di prova oggettivi” (vale a dire il rilievo aerofotogrammetrico del 1975 e la planimetria redatta in data …1988 dal tecnico del Comune … su richiesta del pretore …), ha ritenuto che “il casotto oggetto di lite è stato realizzato successivamente all’entrata in vigore del P.R.G. del Comune …, che risale al …1984, ed è perciò assoggettato a tale normativa urbanistica”. La corte distrettuale, com’è evidente, senza fare alcun uso della regola di giudizio prevista dall’art. 2697 c.c., ha più semplicemente operato l’accertamento, sulla base delle prove raccolte, del fatto controverso, vale a dire l’epoca di realizzazione del casotto, formulando, al riguardo, un giudizio in fatto che, com’è noto, non è sindacabile in questa sede. La valutazione degli elementi istruttori costituisce, infatti, un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.): l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono, invero, apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. n. 17097 del 2010; Cass. n. 19011 del 2017).

5.Con il terzo motivo, intitolato “1. omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (in relazione all’art. 360, 10 comma, n. 4 c.p.c.). 2. Violazione dell’art. 115 (in relazione all’art. 360, 10 comma, n. 4, c.p.c.)”, il ricorrente ha censurato la sentenza non definitiva impugnata nella parte in cui la corte d’appello, in violazione dell’art. 115 c.p.c., non ha ammesso i mezzi istruttori che lo stesso aveva articolato nel corso del giudizio di primo grado (vale a dire l’ammissione di interrogatorio formale dell’attore e, all’esito, di prova per testimoni, sulle seguenti circostanze: a) “vero che il casotto, destinato ad allevamento di animali, è in sito da oltre venti anni…”; b) “vero che … ha edificato il casello, adibito a ricovero di animali e deposito attrezzi, sin da epoca antecedente al …1974”) e che il tribunale – come poi censurato con l’atto d’appello – aveva, senza alcuna conferente motivazione, disatteso, nonostante la loro indiscutibile decisività in ordine tanto alla preesistenza del casotto di sua proprietà rispetto alla costruzione dell’attore, quanto della sua edificazione in epoca anteriore alla entrata in vigore del P.R.G., omettendo di esaminare i relativi fatti, decisivi per il giudizio.

6. Il motivo è infondato. Intanto, con riguardo alla denunciata violazione dell’art. 115 c.p.c., è sufficiente osservare che il ricorrente incorre nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge processuale dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio, laddove, al contrario, un’autonoma questione di malgoverno della predetta norma può porsi solo allorché il ricorrente alleghi che il giudice di merito abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge (Cass. n. 27000 del 2016).
Quanto al resto, la Corte si limita ad osservare che nel giudizio di appello la parte non può riproporre le istanze istruttorie espressamente o implicitamente disattese dal giudice di primo grado ove non abbia espressamente censurato, con motivo di gravame, le ragioni per le quali la sua istanza è stata respinta, ovvero non si sia dovuto dell’omessa pronuncia al riguardo (Cass. n. 1691 del 2006): nel caso di specie, invece, come emerge dall’atto d’appello, al quale la Corte accede direttamente in ragione della natura processuale del vizio denunciato, il ricorrente non ha espressamente censurato la mancata ammissione delle prove orali, come sopra in precedenza descritte, articolate per dimostrare l’edificazione del casotto sin dal 1974, avendo reiterato le istanze istruttorie formulate in primo grado e disattese dal tribunale limitatamente al gravame proposto sul capo della sentenza di primo grado che aveva disposto la rimozione delle condotte idriche e pluviali e della grondaia.

7. Con il quarto motivo, intitolato “violazione degli artt. 873 c.c., 115 e 116 c.p.c., 2727 e 2729 c.c.”, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., il ricorrente ha censurato la sentenza non definitiva impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che fosse “infondata anche la doglianza circa il mancato assolvimento, da parte …, dell’onere probatorio circa la preesistenza del suo fabbricato” rilevando che “la planimetria redatta il …1988 dall’Ufficio Tecnico del … su richiesta del Pretore … dimostra che, a tale data, il casotto non esisteva, mentre il fabbricato dell’appellato era già stato realizzato (in epoca diversa, giacché la struttura originaria risale al 1972 mentre gli ampliamenti di più recente edificazione risalgono agli anni 1980/1981 ed al 983/84)”, laddove, in realtà, il grafico, predisposto da un soggetto terzo che non è stato neanche chiamato ad intervenire nel giudizio come testimone, si è limitato a raffigurare esclusivamente le costruzioni esistenti nella proprietà … e non poteva, quindi, assumere rilevanza probatoria nella identificazione e nella collocazione temporale delle costruzioni ubicate nel fondo del ricorrente il quale, del resto, sin dalla costituzione nel giudizio di primo grado, aveva contestato la provenienza del fabbricato attoreo rispetto al casotto, deducendone la preesistenza, per essere in sito da oltre venti anni, e censurando, sul punto, la consulenza tecnica, senza che l’attore avesse fornito alcuna prova al riguardo. La planimetria, quindi, non contenendo alcuna indicazione in merito alla costruzione del casotto e sulla fonte delle date riportate, non poteva costituire un mezzo di prova idoneo a giustificare la decisione, esaurendo la sua efficacia, al più, in quella meramente indiziaria, insufficiente a ritenere dimostrata la preesistenza della costruzione attorea rispetto al casotto. La corte d’appello, invece, ha proseguito il ricorrente, decidendo nei termini esposti, ha violato non solo l’art. 2702 c.c., che attribuisce al documento scritto proveniente da un terzo un valore meramente indiziario, con il conseguente onere di integrarlo con altri mezzi di prova, ma anche gli artt. 115 e 116 c.p.c., che impongono al giudice di valutare le prove proposte dalle parti con prudente apprezzamento. La corte, infatti, non ha considerato che la planimetria non rappresenta le costruzioni del ricorrente non perché non esistevano ma perché al tecnico non era stato richiesto di rappresentarle, non costituendo l’oggetto del giudizio penale nel quale l’atto è stato richiesto, in tal modo arbitrariamente desumendo dalla mancata rappresentazione della costruzione nella planimetria la dimostrazione della provenienza della costruzione dell’attore rispetto a quella del convenuto, in violazione delle norme in materia di prova presuntiva.

8. Il motivo è infondato. Intanto, con riguardo alla denunciata violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., è sufficiente ribadire che il ricorrente incorre nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge processuale dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio, laddove, al contrario, un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 115 e 116 c.p.c. può porsi, rispettivamente, solo allorché il ricorrente alleghi che il giudice di merito: 1) abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge; 2) abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione (Cass. n. 27000 del 2016). Né può ritenersi che l’avvenuta utilizzazione, da parte della corte d’appello, della planimetria redatta dall’Ufficio tecnico del Comune nell’ambito di un procedimento penale pendente ai danni del …, costituisca violazione di un divieto normativo, essendo, al contrario, ben noto che, al di fuori dei casi di prova legale, non esiste nel nostro ordinamento una gerarchia delle prove, per cui i risultati di talune di esse debbano necessariamente prevalere nei confronti di altri dati probatori, essendo la valutazione delle prove rimessa al prudente apprezzamento del giudice: ne deriva che il giudice può utilizzare, come fonte del proprio convincimento, anche prove raccolte in un diverso giudizio fra le stesse o altre parti e, quindi, anche prove raccolte in un giudizio penale (ancorché conclusosi con sentenza di non doversi procedere per intervenuta amnistia o per altra causa estintiva del reato) esaminandone direttamente il contenuto ovvero ricavandolo dalla sentenza o dagli atti del processo penale e effettuando la relativa valutazione con ampio potere discrezionale, senza essere vincolato dalla valutazione che ne abbia fatto il giudice penale (Cass. n. 6347 del 2000; Cass. n. 11704 del 2003; Cass. n. 22200 del 2010). Quanto al resto, non può che ribadirsi il principio per cui la valutazione degli elementi istruttori costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.): non è, infatti, compito di questa Corte quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudici di merito (Cass. n. 3267 del 2008), dovendo, invece, solo controllare se costoro abbiano dato conto delle ragioni della loro decisione e se il loro ragionamento probatorio, qual è reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto nei limiti del ragionevole e del plausibile (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.): come, in effetti, è accaduto nel caso in esame. La corte d’appello, infatti, ha ritenuto che il fabbricato dell’attore preesistesse rispetto a quello del ricorrente sul rilievo, senz’altro coerente alla conclusione esposta, che “la planimetria redatta il …1988 dall’Ufficio Tecnico del Comune … dimostra che, a tale data, il casotto non esisteva, mentre il fabbricato dell’appellato era già stato realizzato (in epoca diversa, giacché la struttura originaria risale al 1972 mentre gli ampliamenti di più recente edificazione risalgono agli anni 1980/1981 ed al 983/84)”.

9. Con il quinto motivo, intitolato “violazione degli artt. 244, 257 c.p.c., art. 24 Cost. e 104 disp. att. c.p.c.”, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., il ricorrente ha censurato la sentenza definitiva impugnata nella parte in cui la corte d’appello, nel decidere in ordine all’impugnazione del capo della pronuncia di primo grado avente ad oggetto la rimozione della grondaia dal fabbricato del ricorrente, dopo aver dato atto che la prova testimoniale – che la stessa corte aveva ammesso sulla circostanza “vero che … ha realizzato la tettoia copertura del proprio terrazzo con grondaia ubicata sul confine esterno in epoca antecedente al 20.5.1974” – non era stata espletata per avere l’appellante chiesto la sostituzione dei due testi ammessi in quanto uno era deceduto il … mentre l’altro era affetto da gravi patologie che non gli avevano consentito di essere presente, ha ritenuto che l’istanza di sostituzione non potesse essere accolta, rilevando che, in base alle norme del codice di rito in vigore fino al 30/4/1995, l’assunzione di testi che non siano stati preventivamente e specificamente indicati, è consentita solo nei casi previsti dall’art. 257 c.p.c., la cui enunciazione deve ritenersi tassativa, con la conseguenza che la parte non può pretendere di sostituire i testi deceduti prima dell’assunzione con altri che siano stati dalla stessa indicati nei modi e nei termini previsti dall’art. 244 c.p.c.. Tuttavia, ha osservato il ricorrente, tra la data di indicazione dei testi (…1999) e l’udienza fissata per la loro escussione …2013), sono trascorsi quasi quattordici anni: e solo la eccessiva durata del giudizio di merito ha determinato la verificazione di eventi che hanno impedito ai testimoni originariamente indicati di deporre, laddove, al contrario, se la durata fosse stata contenuta entro il termine massimo di cinque anni (tre anni per il primo grado e due per l’appello), come indicato dalla CEDU, non si sarebbe posto alcun problema nella escussione dei testimoni perché l’uno sarebbe stato ancora in vita e l’altro in condizioni di efficienza fisica e psichica. La corte, peraltro, ha proseguito il ricorrente, decidendo nei termini indicati, ha sostanzialmente sancito la decadenza del ricorrente dalla prova, in tal modo, però, violando tanto l’art. 244 c.p.c., che, nel testo vigente ratione temporis, consentiva al giudice di merito di assegnare, secondo le circostanze, un termine perentorio alle parti per formulare o integrare le richieste istruttorie, laddove, nella specie, tale termine non era stato concesso né dal tribunale né dalla corte d’appello, quanto l’art. 104 disp.att. c.p.c., che limita la decadenza dalla prova testimoniale alla sola ipotesi in cui i testimoni non siano stati intimati, laddove, nella specie, si è trattato di un caso in cui per causa di forza maggiore o per eventi imprevisti o imprevedibili non è stata più possibile la comparizione dei testi.
Il ricorrente, infine, subordinatamente al mancato accoglimento dei rilievi esposti, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 244 c.p.c. nella parte in cui, in violazione degli artt. 3 e 24 Cost., non consente alla parte che non sia incorsa in un inadempimento colpevole la sostituzione di un teste deceduto o gravemente ammalatosi nelle more tra il deposito della lista testi e l’udienza fissata per la escussione.

10. Il motivo è infondato. Intanto, l’assunzione di testi che non siano stati preventivamente e specificamente indicati può essere consentita solamente nei casi previsti dall’art. 257 c.p.c., la cui enunciazione deve ritenersi tassativa, dal momento che l’obbligo della rituale indicazione è inderogabile e che la preclusione prevista dall’art. 244 dello stesso codice ha il suo fondamento nel sistema del vigente codice e si inquadra nel principio, espresso dal successivo art. 245, secondo il quale il giudice provvede sull’ammissibilità delle prove proposte e sui testi da escutere con una valutazione sincrona e complessiva delle istanze che tutte le parti hanno sottoposto al suo esame, con la conseguenza che la parte non può pretendere di sostituire i testi deceduti prima della assunzione, con altri che non siano stati da essa stessa indicati nei modi e nei termini di cui all’art. 244 cit.. (Cass. n. 4071 del 1993). La questione di legittimità costituzionale sollevata appare, inoltre, manifestamente infondata se non altro perché il pericolo che, prima dell’introduzione (art. 692 c.p.c.) ovvero nel corso del giudizio di merito (art. 699 c.p.c.), vi sia il pericolo che siano per mancare uno o più testimoni, le cui deposizioni possano essere necessarie nella causa da proporre o pendente, la parte interessata può proporre istanza per l’audizione del testimone a futura memoria, la cui assunzione, peraltro, nei casi di eccezionale urgenza, può avvenire ad opera di un giudice del tribunale (e, fino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 51 del 1998, il pretore) del luogo in cui la prova deve essere assunta. Se, dunque, nel corso del giudizio di merito, sia sopravvenuta, rispetto alla data della loro proposizione, l’impossibilità di assumere la prova offerta per decesso o incapacità del testimone, ciò dev’essere imputato esclusivamente alla parte che, pur avendone l’interesse, non ne abbia proposto l’assunzione preventiva.

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