Corte di Cassazione, Sez. 2, Sentenza n. 166 del 2018, dep. il 05/01/2018

[…]

RITENUTO IN FATTO

[…] e […] deducevano che con contratto del […] 1990 avevano acquistato dalla […] S.r.l., alla quale era poi subentrata per avvenuta incorporazione la […] S.r.l., un appartamento in […], e che nel 1992 la venditrice aveva avviato l’edificazione di un fabbricato a distanza inferiore a quella legale rispetto alle vedute del loro appartamento ed in violazione delle distanze legali tra costruzioni. Chiedevano quindi accertarsi l’illegittimità della costruzione della convenuta, con la condanna all’arretramento sino al limite di legge, nonché al risarcimento del danno. Si costituiva la […] S.r.l. la quale sosteneva l’infondatezza della domanda, evidenziando in particolare che gli attori, allorquando avevano acquistato l’immobile, avevano anche accettato la servitù derivante dalla successiva edificazione del fabbricato sempre ad opera della convenuta.
All’esito dell’istruttoria, il Tribunale adito escludeva che l’atto di compravendita degli attori ed il regolamento di condominio contemplassero una specifica servitù in deroga alla disciplina delle distanze legali e, recependo le indicazioni del CTU, riteneva che la distanza tra fabbricati, al netto di sbalzi ed aggetti, era superiore a quella minima di cui all’art. 873 c.c. nonché di quella posta dalle NTA del PRG del Comune di […], trattandosi di facciate prive di finestre di stanze abitabili. La Corte d’Appello di Roma con la sentenza n. 3673 dell’11 luglio 2012, in accoglimento dell’appello principale, condannava la società appellata ad eliminare l’edificio frontistante l’appartamento degli attori, nei limiti del rispetto della distanza di 10 metri dal parapetto della terrazza, e dichiarava inammissibile l’appello incidentale della convenuta, con il quale si contestava il rigetto della domanda volta ad accertare l’acquisto della servitù ad edificare a distanza inferiore di quella legale per effetto dell’atto di acquisto degli attori e del regolamento di condominio. Quanto all’appello principale, osservava che era erronea la decisione del Tribunale di calcolare la distanza al netto di sbalzi ed aggetti, e quindi senza tenere conto delle terrazze in aggetto, dovendo anche tali elementi essere fatti rientrare nella nozione civilistica di costruzione. Posta tale premessa, rilevava altresì che gli edifici ricadono nella zona Fl, per la quale l’art. 9, punto 1, co. 4 delle NTA del PRG impone un distacco minimo di metri 10 tra pareti di edifici antistanti anche laddove una sola risulti essere finestrata.
Poiché i fabbricati si fronteggiano, e poiché l’appartamento degli attori è munito di terrazzo in aggetto e di finestre, trova applicazione la detta previsione dello strumento urbanistico destinata a prevalere sulla disposizione di cui all’art. 873 c.c.. Andava quindi disposto l’arretramento del fabbricato della convenuta, ed accolta la domanda di risarcimento del danno che, tenuto conto della distanza alla quale è stato edificato il fabbricato posteriore, andava liquidato in via equitativa nell’importo di € 10.000,00. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società appellata sulla base di cinque motivi. Gli intimati hanno resistito con controricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Preliminarmente deve essere rilevata l’ammissibilità del controricorso, sebbene lo stesso risulti effettivamente notificato alla ricorrente solo in data 12 marzo 2013, e cioè oltre il termine di cui all’art. 370 c.p.c., occorrendo a tal fine avere riguardo alla circostanza che una prima notifica era stata tentata dai controricorrenti, ma presso l’indirizzo dei difensori della ricorrente, in Roma, […] al civico n. […], presso il quale l’atto non è stato ricevuto.
A seguito della notizia della mancata consegna dell’atto, i controricorrenti hanno effettuato una nuova notifica, andata a buon fine, presso il diverso civico n. […]. Reputa tuttavia il Collegio che il mancato perfezionamento della prima notifica sia da ricondurre ad un errore qualificabile come scusabile della parte, atteso che, mentre nell’intestazione del ricorso la ricorrente risultava domiciliata presso lo studio dei propri difensori alla via […] n. […] (che corrisponde al domicilio effettivo), nel mandato in calce al ricorso, il civico era invece indicato come n. […]. Ne deriva che avendo i resistenti prontamente riattivato il procedimento notificatorio, e nel rispetto del limite temporale dettato dalla giurisprudenza di questa Corte ( cfr. Cass. S.U. n. 14594/2016), risultano comunque salvaguardati, ai fini della valutazione della tempestività del controricorso, gli effetti della prima notifica, sebbene non andata inizialmente a buon fine.
2. Il primo motivo di ricorso denunzia l’insufficiente e contraddittoria motivazione laddove la sentenza impugnata non ha tenuto nel debito conto la regolarità amministrativa dell’edificazione realizzata secondo le indicazioni della PA.
Si sottolinea che la costruzione del proprio fabbricato è avvenuta sulla base di legittime concessioni edilizie, come peraltro confermato anche dal CTU, con la conseguenza che concreta un grave vizio della motivazione il non avere considerato tale circostanza pervenendo alla condanna all’arretramento del fabbricato, nonostante la legittimità urbanistica dell’opera.
Il motivo, in disparte la dubbia sussumibilità della censura nella previsione di cui al n. 5 dell’art. 360 co. 1 c.p.c., è comunque infondato, occorrendo a tal fine fare richiamo alla costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui (cfr. Cass. S.U. n. 13673/2014) le controversie tra proprietari di fabbricati vicini relative all’osservanza di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o rispetto ai confini appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, senza che rilevi l’avvenuto rilascio del titolo abilitativo all’attività costruttiva, la cui legittimità potrà essere valutata “incidenter tantum” dal giudice ordinario attraverso l’esercizio del potere di disapplicazione del provvedimento amministrativo, salvo che la domanda risarcitoria non sia diretta anche nei confronti della P.A. (nella specie, il Comune) per far valere l’illegittimità dell’attività provvedimentale, sussistendo in questo caso la giurisdizione del giudice amministrativo (in termini ex multis Cass. n. 13170/2001; Cass. S.U. n. 333/1999).
L’eventuale accertamento della legittimità del titolo abilitativo della costruzione, ove anche avvenuta da parte del giudice amministrativo, non preclude una diversa valutazione della illegittimità della condotta del privato nella controversia intentata da altro privato a tutela del diritto di proprietà, sicchè va ribadita la possibilità di contestare il mancato rispetto delle norme interprivatistiche, anche laddove l’attività edificatoria sia avvenuta conformemente alle prescrizioni pubblicistiche di cui al provvedimento abilitativo, la cui rilevanza non può mai pregiudicare i diritti dei terzi proprietari confinanti.
3. Il secondo motivo denunzia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto nella parte in cui la sentenza d’appello non tiene conto del fatto che non è possibile invocare l’art. 873 c.c., non essendosi in presenza di costruzioni realizzate su fondi diversi, ma di un unico complesso edilizio edificato su di un unico terreno di proprietà del costruttore.
Il motivo è inammissibile in quanto pone a questa Corte la valutazione di una questione nuova.
In tal senso deve richiamarsi il costante principio di legittimità per il quale (cfr. Cass. n. 7048/2016) il ricorrente per cassazione che riproponga una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non trattata in alcun modo nella sentenza impugnata né indicata nelle conclusioni ivi epigrafate, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale scritto difensivo o atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa, senza che rilevi che la circostanza integri una nullità rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado, atteso che essa non può essere oggetto di esame ove comporti accertamenti di fatto. Dalla lettura della sentenza non si rileva che la questione de qua, che chiaramente implica accertamenti in fatto, occorrendo verificare la pretesa unicità del fondo interessato dalle due edificazioni, sia stata esaminata dai giudici di appello né emerge che la stessa fosse stata oggetto di una specifica difesa ad opera della ricorrente. In ogni caso la stessa appare priva di fondamento.
Ed, invero, sebbene costituisca opinione di questa Corte quella secondo cui la disciplina in tema di distanze non si applichi laddove le costruzioni siano state realizzate su di un unico fondo (cfr. da ultimo Cass. n. 6855/2017), va osservato che nel caso di specie la realizzazione del fabbricato rispetto al quale si predica la violazione delle distanze legali, come emerge dai fatti riportati in sentenza, e non oggetto di contestazione ad opera della ricorrente, è avvenuta in un momento successivo all’acquisto dell’appartamento da parte degli attori, unità immobiliare che risulta ubicata in un corpo di fabbrica autonomo. Ne consegue che a quella data si era già realizzata una separazione della proprietà tra il fondo già edificato e quello ancora suscettibile di edificazione, che sarebbe invece rimasto nella titolarità della società costruttrice, dovendosi quindi escludere la ricorrenza di una situazione tale da poter affermare che la costruzione della società sia avvenuta su di un fondo unitario, essendo i due fabbricati accomunati dal solo fatto che la loro costruzione sia riconducibile alla medesima società.
4. Il terzo motivo di ricorso denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 9 punto 1 co. 4 della NTA del PRG del Comune […], laddove la sentenza ha reputato applicabile la distanza di metri 10 tra pareti finestrate. Si sostiene che tale norma che richiama quanto previsto dall’art. 9 del DM n. 1444/1968, come peraltro riferito anche dal CTU, non può essere applicata nel caso di specie in quanto si tratterebbe di costruzioni non realizzate su fondi confinanti. Inoltre l’appartamento degli attori ha una quota di calpestio del terrazzo molto più elevata di quella della copertura del corpo di fabbrica adibito a negozi della ricorrente, sicchè non si ravvisa una possibilità di interferire con la visuale che si esercita dalla terrazza degli attori.
Il motivo va disatteso.
Ed, invero, oltre a riprendere in larga misura la tesi oggetto del secondo motivo di ricorso, già disatteso, circa la sussistenza di un unico complesso edilizio, in parte si risolve in una non consentita contestazione dell’accertamento in fatto operato dai giudici di merito, i quali hanno ritenuto applicabile la suddetta previsione regolamentare locale, sulla scorta della verifica dell’esistenza di aperture nella costruzione degli attori (nella specie, terrazza in aggetto) tali da far acquisire ad almeno una delle pareti fronteggiantisi, la qualifica di finestrata. Inoltre, nella parte in cui la censura insiste sulla differenza di quota tra la proprietà degli attori e la copertura dell’immobile fronteggiante, non si confronta con l’altrettanto pacifica giurisprudenza di legittimità per la quale (cfr. Cass. n. 19486/2008; Cass. n. 20850/2013) in tema di distanze tra costruzioni, l’art. 873 cod. civ. ( e quindi anche le eventuali e più rigorose previsioni degli strumenti urbanistici locali) trova applicazione anche quando, a causa del dislivello tra i fondi, la costruzione edificata nell’area meno elevata non raggiunga il livello di quella superiore, in quanto la necessità del rispetto delle distanze legali non viene meno in assenza del pericolo del formarsi d’intercapedini dannose (cfr. altresì Cass. n. 145/2006, a mente della quale la distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti va rispettata anche nel caso in cui la nuova costruzione realizzata nel mancato rispetto di essa sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell’art. 907, comma terzo, cod. civ. e così pure dal confine; conf. Cass. n. 5741/2008).
5. Il quarto motivo denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 873 c.c. nella parte in cui i giudici di appello hanno ritenuto che nel calcolare le distanze tra i fabbricati fronteggiantisi si dovesse tenere conto anche della terrazza in aggetto. La ricorrente, pur mostrando di avere ben presente l’orientamento al quale ha fatto cenno anche la sentenza impugnata, circa la necessità di dover tenere conto ai fini del calcolo delle distanze anche degli elementi sporgenti, quale nel caso di specie la terrazza degli attori, ritiene però che si tratti di un orientamento non condivisibile. Il motivo è infondato. Ed, invero, in disparte il richiamo alla legittimità urbanistica dell’opera, già oggetto del primo motivo di ricorso, la censura si scontra in maniera evidente con la pacifica giurisprudenza di questa Corte, alla quale il Collegio ritiene di dover dare continuità, attesa anche l’assenza di seri elementi di critica idonei ad indurre a far rimeditare le conclusioni già raggiunte. Ed, invero si è già affermato che i balconi non appaiono riconducibili per dimensioni e caratteristiche costruttive a meri elementi ornamentali privi di rilevanza ai fini del calcolo delle distanze, sicchè la mera differenza di tecnica costruttiva ravvisabile tra la parete in muratura ed un balcone aperto, non consente di aderire ad una diversa ricostruzione della portata applicativa della norma, dovendo quindi reputarsi che anche la presenza di un balcone imponga di ravvisare una situazione di parete finestrata. Inoltre se la finalità delle norme in tema di distanze tra costruzioni è quella di evitare la creazione di intercapedini dannose, e di riflesso di assicurare un ordinato e razionale sviluppo dell’attività edilizia al fine della salvaguardia della salubrità e dell’armonico sviluppo dell’attività edificatoria, l’escludere la rilevanza di un balcone ai fini del computo delle distanze vanificherebbe in maniera evidente lo scopo cui mira il legislatore. Infine, conforta tale conclusione anche la costante giurisprudenza di questa Corte, che anche di recente ha avuto modo di affermare che (cfr. Cass. n. 5594/2016) in tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell’articolo 873 c.c. con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l’articolo 9 del d.m. 2 aprile 1968 – applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, come modificata dalla legge n. 765 del 1967 – stabilisce la distanza minima di mt. dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell’estensione del balcone, è “contra legem” in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l’estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. dieci, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte (in senso sostanzialmente conforme si veda anche Cass. n. 23553/2013; Cass. n. 17089/2006). In conclusione, una volta esclusa, per espresso accertamento da parte degli stessi giudici di appello, la possibilità di degradare il balcone in oggetto al rango di mero sporto (cfr. a tal fine da ultimo Cass. n. 18282/2016, secondo cui, in tema di distanze legali fra edifici, rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria – come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili – mentre costituiscono corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza; Cass. n. 17242/2010), deve ribadirsi la correttezza della soluzione raggiunta dalla sentenza impugnata.
6. Il quinto motivo di ricorso denunzia infine la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., nella parte in cui la sentenza gravata ha ritenuto inammissibile l’appello incidentale proposto dalla ricorrente. Si osserva che in primo grado, ed in via riconvenzionale, aveva chiesto accertarsi che gli attori avevano accettato le varie servitù per effetto dell’atto di acquisto dell’immobile, con la conseguenza che non potevano poi dolersi della successiva edificazione. Il motivo tuttavia va disatteso in ragione della sua evidente carenza del requisito di specificità, in quanto, pur denunziando un vizio che implica l’accesso diretto agli atti, non risulta rispettato quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, che nella sua più autorevole composizione ha ribadito che ( Cass. S.U. n. 8077/2012) anche quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, sostanziandosi nel compimento di un’attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore, sebbene il giudice di legittimità non debba limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma sia investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, è però necessario che la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dagli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ.). Orbene, a fronte di un’affermazione dei giudici di appello di inammissibilità dell’appello incidentale per la violazione dell’art. 342 c.p.c., in quanto a fronte del rigetto della riconvenzionale anche da parte del giudice di primo grado, la società aveva omesso di indicare quali fossero le servitù che pretendeva di avere acquisito in danno dell’immobile degli attori, in ricorso sarebbe stato necessario quanto meno riportare per sintesi il contenuto del motivo di appello incidentale, evidenziando le parti dalle quali ricavare il soddisfacimento del requisito di specificità, invece non ravvisato dai giudice di secondo grado. Del pari risulta carente una specifica indicazione del contenuto della sentenza del Tribunale onde apprezzare il grado di specificità che era esigibile per l’appello, e manca altresì una precisa indicazione del contenuto delle pretese clausole dalle quali si ricaverebbe la costituzione della servitù. Il motivo deve pertanto essere del pari disatteso. […]